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RECENSIONI

CASTRONUOVO

PAOLO CASTRONUOVO, OPERA – IL CONVIVIO, TIVOLI 2025, p. 222

Non ancora quarantenne, il poeta-narratore-editore pugliese Paolo Castronuovo pubblica con le edizioni de Il Convivio “Opera. 2004-2024”, che nella premessa definisce “prematura opera omnia in versi”, progettata e pervicacemente voluta per rispondere alla “necessità biologica” di chiudere un cerchio. Mettere un punto fermo, quindi, in una produzione che si è coerentemente sviluppata lungo i binari della ricerca letteraria e dello scavo psicologico interiore, arricchendosi via via di nuove tattiche formali e di finalità ideologicamente strutturate. Un suo verso recita infatti “nutrirsi di dettagli / amplifica la profondità”, e senz’altro la varietà di immagini e atmosfere attraversate dalla parola poetica ha contribuito a potenziare lo spessore espressivo della sua scrittura.

Cinque sono le sillogi qui riunite, che comprendono la produzione di un decennio, dal 2013 a oggi: Labiali, L’insonnia dei corpi, La croce versa, Bugiardino e l’inedita La giostra d’inverno, segnate da una crescita di consapevolezza che, muovendosi dall’acerbità risentita dei primi anni, affonda in una penetrazione assillante nella materia, per placarsi infine in tonalità più arrendevolmente mature.

Labiali è segnata da un autobiografismo grintoso, capace di esibire rabbie e sofferenze, imputandole sia al proprio ego sia a un tu femminile ombroso e sfuggente. Qui “il dolore è / una posizione scomoda”, ma va esibito con fierezza sdegnosa (“io sono per la distruzione, per lo sfacelo delle cose”), anche nell’intento programmatico della creazione letteraria: “Il mio verso è cambiato / abbandona l’avanguardia / e accoglie il surrealismo”. E retaggio surrealista è evidente nell’intenzione sovversiva del lessico, con l’ostentazione di un vocabolario violento in cui si rincorrono ossessioni, esplosioni, deliri, crepe, fuochi, slavine, strumenti da taglio. Anche il corpo della donna appare scomposto e respingente, nella presentazione di seni come bussole smagnetizzate, rossetto sbavato, ombelico calamaio, capelli aste, ventre piatto, pori irti, odori lasciati su una sdraio.

Continua in L’insonnia dei corpi la rappresentazione negativa di una fisicità corrotta, in cui però è la malattia reale, soprattutto psichica, ad assumere contorni disturbanti, penosi. Il tormento dell’insonnia “che plana nella gola e provoca apnea / in un corpo fiacco / di letture, pornografia e televisione” riduce l’uomo a ombra, a zombie intento a soddisfare bisogni fisiologici primari, mentre il sangue rallenta il ritmo, le unghie incarniscono, gli occhi si socchiudono. Vittima di incubi e paure, il poeta è consapevole della propria atonia, e incapace di uscirne implora: “Mi servirebbe una seduta di fisioterapia dell’anima”, “cambiami il corpo con le mani / non ha più iniziativa / ha solo fame di altri corpi”, “Devo occuparmi del mio male / addomesticarlo nella gabbia del mio corpo”.

Se anche l’esterno si confina in un grigiore di pioggia, l’incubo dilaga in allucinazioni metamorfiche: “io ero arrotolato in una bottiglia alla deriva / una capodoglio incastrato nel buco dell’ozono”. Eppure, in questo sfascio di sensazioni mortifere la poesia può trovare un ritmo pacato ed elegante, e pur narrando la disperazione si aggrappa a gesti vitali di resistenza: “confido le mie giornate al cuscino / mentre il manto buio mi sferza colpi caldi”.

La terza sezione è la più corposa, costruita assemblando numerose sillogi e aperta a un confronto costruttivo con l’alterità, anche nella polemica indignata nei riguardi di un mondo sempre più contaminato. Gli strali di Castronuovo colpiscono la politica verbosa e inconcludente, le imposizioni di un falso cristianesimo, lo sfruttamento dei migranti, il razzismo, l’inquinamento, rasserenandosi solo nell’osservazione di cielo e mare, e nel desiderio di recuperare un rapporto paritario con la donna desiderata, in un abbandono reciproco al piacere sessuale. La croce versa rivela ancora un patimento psicologico (“il gran ritorno degli attacchi / di panico che rimontano come una carovana d’elefanti”), ma rimane comunque il capitolo più distesamente rischiarato del libro.

Prima di passare al commento di Bugiardino (2020-2023), che l’autore definisce “la miglior cosa scritta in vent’anni”, è opportuno segnalare la delicatezza dei versi inediti conclusivi de La giostra d’inverno, dedicati all’osservazione di un campo nomade (richiamato dalla bella foto di copertina), che nello squallore di strade fangose, roulotte scassate, donne e bambini infreddoliti, uomini intenti all’allestimento di un circo, riportano alla luce sensazioni infantili rimosse perché avvilenti.

Il bugiardino che accompagna ogni confezione di medicinali offrendo indicazioni sull’uso, è metafora dei segnali forniti al lettore per introdurlo alla non facile decifrazione della parola poetica. Ma “i libri sono sbarre di un carcere / che non apre a nessun universo”, e “la presunzione di capire l’astratto / di spiegarne il senso se non di darne definizione / certa / è un piedistallo fallimentare / spruzzato di elogi da copertina”. Sembra la capitolazione di ogni impegno intellettuale, e della funzione stessa del poeta. Tuttavia è necessario “lasciare che la purezza / si faccia fiume tra le sillabe / che converta lo sporco delle virgole”, e Castronuovo infine non abdica al suo ruolo, deciso a “riabilitarsi alla scrittura” producendo versi nuovi, estranei a tradizioni collaudate in cui “la rima / baciata è uno stupro”, e invece vada abolita l’illusione del messaggio: “Sto eliminando il tu dal verbo / per dare spazio a nuove immagini / ma nulla resterà che rifugiarsi nella propria voce”.

Se ciò che resta è un soliloquio privo di interlocutori, che almeno la visione sia danza, vibrazione di luci e suoni, percezione di una lacerazione traumatica da cui possa erompere una rinnovata energia, capace di guarire le ferite della mente e di un linguaggio convenzionale e abusato.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 20 febbraio 2025

 

 

 

RECENSIONI

IELMINI

RICCARDO IELMINI, SPETTRI DIAVOLI CRISTI NOI – NEO EDIZIONI, CASTEL DI SANGRO 2025

Le tre parti in cui si suddivide il romanzo di Riccardo Ielmini appena pubblicato da NEO, sono  denominati con garbata civiltà La Confraternita, Diaspora, Ritorno della Confraternita, stridendo sia con l’aggressiva sfrontatezza del titolo (Spettri diavoli cristi noi), sia con l’allusività dei sottotitoli di alcuni capitoli interni (L’Uomo Dei Boschi e il Diavolo, Brucia Solidarność, Talithà kumi reloaded, Recitativo della Matta, Como merda). Riccardo Ielmini è nato a Varese nel 1973, vive a Laveno e attualmente lavora come Dirigente Scolastico. Già autore di un volume di racconti (Belle speranze, 2011), di un romanzo (Storia della mia circoncisione, 2019) e di due eleganti raccolte di poesia, si è fatto apprezzare per l’originalità dei temi trattati, sospesi tra cronachismo locale e metafisica, e per la densità della sua scrittura singolarmente eccentrica.

La narrazione si apre con un lungo periodo privo di punti fermi, che occupa più di una pagina, offrendo subito al lettore un’anticipazione non solo dello stile immaginoso e fertile che l’autore sfrutta con originale perizia, ma anche un assaggio dell’atmosfera cupa di superstizione, timore, pregiudizi e malvagità che si respira tra le pagine fino alla conclusione, solo apparentemente liberatoria. “In principio, nel buio, prima del sonno, è la paura, la magica incontrollabile paura del Diavolo che aleggia sulla giovinezza, il Diavolo bestemmiato dalle nostre vecchie come Anticristo, Bestia, Ciapìn, l’acchiappa-anime che visita i tuoi sogni, bambino, che si intrufola nel tuo ozio, pinìn, che perlustra gli angoli morti della tua fragile fortezza, stèla, e quindi sta’ lontano dal Diavolo, e bestemmialo, Satana, tienilo a mente, tienilo a cuore, che se il principio è buono il resto è buono, dicevano le vecchie nella veglia e nel sonno, e noi nottetempo o splendigiorno non volevamo crederci…”

Spettri diavoli cristi noi” è un romanzo di formazione, come di solito si definisce un testo che accompagni la crescita di una o più giovinezze: ed è un romanzo corale, ambientato in uno spazio circoscritto (quello originario dell’autore, cioè la pianura lombarda tra Varese e Como, con i suoi laghi, il paesaggio prealpino, il confine con la Svizzera). Romanzo di memorie ritrovate e reinventate, di nostalgie e rabbia, di inquietudini e noia. Qui vivono, tra parrocchia, scuole medie e ansie materne, alcuni ragazzi perennemente in fuga dal paese, cercando nel selvoso territorio circostante (da loro pomposamente chiamato La Contea), popolato da tossici, ladruncoli, contrabbandieri, puttane e “poveri cristi sperduti”, una fuga “dall’angolo buio della loro fragile fortezza”. In sella alle bmx, ubbidienti agli ordini di Fredy, il capo della ghenga, vanno a caccia di spettri nei sentieri tortuosi dei boschi, provvisti di torce e voglia di avventura. Una sera la banda si imbatte davvero nell’ombra del Demonio, quando sul sagrato di una chiesetta abbandonata scopre cinque figuri incappucciati che celebrano un rito satanico, abusando di due adolescenti intorpiditi o drogati. Lo scandalo che ne deriva, con le indagini dei carabinieri e quattro oscuri delitti maturati tra i malavitosi della zona, sono per i giovani la prima e terrorizzante scoperta della reale esistenza del Male. “Avevamo appreso meglio di ogni catechismo che la Bestia esiste e indossa panni di carne umana e schianta la sua fame aggredendo altra carne, carne debole, innocua”.

Sulla falsariga di questa prima esperienza, si dipanano tutte gli eventi successivi, sospesi tra realtà e fantasticherie, incubi e rivelazioni: “tutto ci sembrava pronto ad aggredire la nostra innocenza, sembrava aggiungere terrore a terrore”. Il vecchio che vaga tra gli alberi masturbandosi, pazzo di dolore per la figlia stuprata e uccisa; i drogati persi tra fumo e siringhe; un’anziana coppia suicida con il gas dell’auto; un reduce della grande guerra assetato di vendetta; la Matta dagli occhi di brace vogliosa di sesso; un professore in pensione alcolizzato; badanti polacche e misteriosi immigrati albanesi; un rom ermafrodita campione di calcio; attricette porno e altri incredibili personaggi emersi da memorie letterarie.

Il Male incombe anche senza travestirsi delle sembianze del Diavolo, e li fa maturare, i ragazzi della ghenga: “Eravamo corpo-anima dentro corazze di educazione che non ci contenevano più, ecco cosa stava succedendo. Le giunture dell’armatura non reggevano all’urto del mondo di fuori, che premeva sui confini della Contea, né alla spinta di noi, da dentro”. Ciascuno cresce a suo modo, chi vince e chi fallisce, chi emigra per sempre, e chi invece poi ritorna deluso. E chi muore, per una trasgressione fatale e imperdonabile. Ielmini ripercorre passato e presente, suoi e degli altri, intercalandoli nel narrato e nel vissuto: “Io sono rimasto qui, nel mio qui di slanci tiepidi, meraviglie intermittenti e malinconie sanguinanti… infervorato dal desiderio che fossimo se non tutti, almeno io, a un tiro di schioppo da un fatidico punto di perfezione”. Gli adolescenti raccontati da Ielmini, in preda a ossessioni inculcate dal più trito cattolicesimo, tra desiderio fanatico di purezza e assillanti tentazioni carnali di cui sgravarsi nel buio di un confessionale, potrebbero forse vantare un precedente narrativo nell’indimenticabile capolavoro di Meneghello, Libera nos a Malo, ma rimangono lontani dalla sorniona ironia e dalla franca comicità dello scrittore vicentino, e ancorati invece a un senso tragico dell’esistenza. La Contea in cui si muovono è terra su cui la Storia “ha soffiato l’alfabeto intero del dolore”, senza possibilità di riscatto.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 12 febbraio 2025

 

INTERVISTE

TESTA

Annamaria Testa e la poesia

 

 

15 Febbraio 2025

Annamaria Testa (Milano 1953), pubblicitaria, giornalista e saggista, inizia la sua carriera come redattrice pubblicitarianel 1974. Tra il 1983 e il 1996 è presidente e direttore creativo dell’agenzia pubblicitaria TPR, poi Bozell TPR, da lei fondata. Giornalista pubblicista dal 1988, collabora con diverse testate giornalistiche e con la RAI (Rai 3 sotto la gestione di Angelo Guglielmi), e si occupa di comunicazione politica. Dal 2012 ha una rubrica fissa sull’edizione online di Internazionale. Dal 1996, come consulente, realizza interventi di carattere strategico e progetti di comunicazione per imprese e istituzioni. Nel marzo del 2005 fonda a Milano la società Progetti Nuovi, che si occupa di progetti integrati di comunicazione. Nel 2008 ha messo online Nuovo e Utile, un sito non a scopo di lucro dedicato alla diffusione di teorie e pratiche della creatività. Tra il 2010 e il 2011 ha fatto parte della Giuria dei Letterati del premio Campiello. Nel 2012 è entrata nella Hall of Fame dell’Art Directors Club Italiano, prima donna pubblicitaria negli oltre 25 anni di vita del club. Dal 1989 al 1997 è stata docente al master dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha insegnato “Teorie e tecniche della comunicazione creativa” in varie università: tra il 1994 e il 1995 all’Università La Sapienza di Roma (facoltà di sociologia); dal 1998 al 2006 all’università IULM di Milano (facoltà di scienze della comunicazione); tra il 2001 e il 2002 all’Università degli Studi di Milano e all’Università degli Studi di Torino; tra il 2007 e il 2016 ha insegnato presso l’Università Bocconi di Milano, continuando ad essere consulente di diverse grandi aziende. Nel febbraio 2015 si è fatta promotrice dell’iniziativa #dilloinitaliano che mira a ridurre l’uso frequente e arbitrario di termini inglesi, il cosiddetto itanglese, in particolare nel linguaggio dell’amministrazione, aziendale e pubblicitario.

Tra le sue opere: Leggere e amare. 21 racconti, 1993 – Feltrinelli; Farsi capire. Comunicare con efficacia e creatività nel lavoro e nella vita, 2000 – Rizzoli; La pubblicità, 2003, Il Mulino; Le vie del senso. Come dire cose opposte con le stesse parole, 2004/ 2021 – Garzanti; La creatività a più voci, 2005 – Laterza; La trama lucente – Che cos’è la creatività, perché ci appartiene, come funziona, 2010/2023 – Garzanti; Minuti scritti – 12 esercizi di pensiero e scrittura, 2013 – Rizzoli; Il coltellino svizzero – Capirsi, immaginare, decidere e comunicare meglio in un mondo che cambia, 2020 – Garzanti – La parola immaginata (Nuova edizione, il Saggiatore 2024).

La figura del pubblicitario, tra quelle che operano all’interno del mondo produttivo, mantiene un’aura di creatività, fantasia e libertà da schemi preconcetti che lo avvicina al ruolo dell’artista. Ma mentre a quest’ultimo si demandano la critica e l’opposizione, chi opera nel marketing viene ritenuto di supporto acritico alla produzione consumistica. Ritiene sia realmente così?

Poesia e pubblicità hanno tratti in comune nell’uso del linguaggio? L’utilizzo degli stessi artifici retorici (metrica, rime, assonanze, ripetizioni, filastrocche) accomuna entrambe? Ci può fare un esempio di qualche sua “invenzione” linguistica che si sia servita dei dispositivi specifici della scrittura in versi?

In realtà le filastrocche, le assonanze, le rime si sono usate in pubblicità soprattutto nel periodo tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, direi fin quasi al termine degli anni Sessanta. Da allora in poi, la caratteristica emergente e la tipicità del linguaggio pubblicitario è consistita nella capacità della parola di integrarsi perfettamente con l’immagine che la accompagna (non a caso il primo libro che ho scritto, nel 1988, si intitola La parola immaginata. Parla di pubblicità, spiega proprio questa integrazione, è diventato un piccolo classico adottato nelle scuole e nelle università ed è stato ripubblicato infinite volte – l’ultima edizione, riveduta e aggiornata, è del 2024). Credo di aver usato i versi per qualche jingle pubblicitario (scelta per molti aspetti obbligata quando si scrive un testo che deve essere musicato). Credo di aver usato solo una volta rime e versi in un testo scritto: ma si trattava di un limerick (anzi, di una serie di limerick) intesi a promuovere in modo scherzoso un altrimenti noiosissimo software per la gestione di paghe e contributi. Oggi non riesco a recuperare i testi originali, ma si trattava di cose come C’era un ragioniere di Forlì/che a far conti penava ogni dì… Sto invece sempre, e molto, attenta al ritmo e al suono di quanto scrivo in prosa. Lo faccio anche quando non si tratta di un testo pubblicitario ma, invece, di un articolo o di un saggio.

Che rilievo hanno il registro comico, parodistico, o addirittura sarcastico, da sempre utilizzato anche in poesia, nel suo lavoro? Capita che la pubblicità prenda in giro se stessa?

Come dicevo prima, humor e ironia (e anche autoironia) sono stati ampiamente usati in passato. Oggi si vede in giro solo qualche raro esempio e, mi creda, è una vera boccata d’aria fresca. Il sarcasmo, no. Perfino in una campagna sociale, che ha ambiti di libertà espressiva molti più ampi di quelli propri di una campagna commerciale, il sarcasmo rischia di essere controproducente: la pubblicità è una forma di comunicazione persuasiva, e la persuasione è di per sé stessa delicata, articolata e seduttiva (altrimenti parliamo di propaganda, che è tutt’altra cosa: brutale, semplificata, imperativa).

Anche la poesia moderna, a partire dai Calligrammi di Apollinaire fino alle sperimentazioni di Lamberto Pignotti, accosta l’elemento visivo a quello verbale, utilizzando il segno grafico e l’immagine per accompagnare il testo. In quale sua campagna pubblicitaria tale abbinamento ha ottenuto più successo?

L’uso della pausa, del silenzio, di termini settoriali (tratti dalla scienza, dalla musica, dalla medicina) e il plurilinguismo hanno avuto una funzione importante nelle sue creazioni?

Mah, la peculiarità del lavoro pubblicitario consiste soprattutto nell’invenzione di titoli brevi o brevissimi, scanditi dalla punteggiatura, adeguatamente impaginati e accostati a un’immagine. Quindi, la scrittura finisce subito… certo, nei rari casi di titoli più lunghi, gli a capo diventano importantissimi.  Pause: ci sto attenta quando scrivo testi lunghi (per esempio un saggio, o un articolo). Termini settoriali: il meno possibile, e solo quelli davvero indispensabili. Precisione del linguaggio: sì, ci sto attenta. Plurilinguismo: mi è anche capitato di scrivere qualche buon titolo in inglese, ma di norma cerco di scrivere in decoroso e piacevole italiano.

Tra i poeti contemporanei, ci sono voci che ritiene più vicine alla sensibilità giocosa e ironica del suo lavoro, o preferisce invece stili più impegnati, tradizionali o addirittura classici?

Non sono una gran lettrice di poesia, ma adoro Wislawa Szymborska. Ricordo come se fosse oggi la prima volta che mi sono imbattuta in una sua composizione: era un lungo testo riprodotto sul muro bianco di una mostra fotografica, alla Triennale di Milano. Credo che fosse Amore a prima vista. È stato tanti anni fa, e Google non c’era ancora. Mi sono scritta su un kleenex il nome dell’autrice stando bene attenta a non sbagliare con quell’accrocco di consonanti esotiche. E sono andata a cercarmi i libri: una scoperta folgorante.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 15 febbraio 2025

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DAUMAL

RENÉ DAUMAL, IL ROVESCIO DELLA TESTA – ADELPHI, MILANO 2025

Nato nel 1908 nelle Ardenne, René Daumal nel 1925 si trasferì a Parigi, dove studiò filosofia, soprattutto nei suoi fondamenti teologici e orientali. Nella sua breve vita fondò la rivista Le Grand Jeu, in polemica con i surrealisti; pubblicò poesie, racconti, traduzioni e il romanzo-saggio Il Monte Analogo, rimasto incompiuto. Morì di una malattia polmonare nel 1944. In Italia, tutte le sue opere sono pubblicate dalla casa editrice Adelphi, a cura di Claudio Rugafiori.

L’ultimo volume uscito nella collana “Piccola Biblioteca” si intitola Il rovescio della testa, e raccoglie dodici brevi scritti eterogenei: parabole, racconti, schizzi, interventi critici, tutti accomunati da uno stile giocoso, talvolta sarcastico e provocatorio, spesso aforistico, nell’affrontare lo stesso tema di base, cioè il rapporto che l’essere umano instaura con la verità.

A partire dal brano di apertura, in cui tre personaggi simbolici (L’Assetato, l’Innamorato e l’Ottico) si interrogano su cosa produca nell’uomo l’idea di meraviglia, individuandone il contrassegno nella figura della Portatrice d’acqua, di cui ciascuno di loro offre una interpretazione particolare: l’acqua, la donna, la brocca sono ugualmente fonti inesauribili di stupore e necessario appagamento. L’acqua perché estingue la sete, la donna perché è la metà dell’uomo, la brocca perché contiene le immagini del mondo. Nessuno può dire niente sulla verità, perché ognuno è molteplice e “governato talvolta dal cervello, talvolta dallo stomaco, talvolta dal cuore”, quindi mai univoco nelle sue espressioni.

Sparsi nel volume sono altri apologhi divertenti, come quello del signor Curato che nell’ora di catechismo interroga la classe su cosa sia Dio. Alle risposte tradizional dei ragazzini (è Padre, è puro Spirito, è il Creatore ecc.) reagisce con sfuriate e punizioni, premiando invece il più somaro di loro che incredibilmente afferma “Dio è una sberla”. C’è poi un grande mago in grado di eseguire straordinari prodigi per guidare l’umanità (“ah! se avesse voluto!”), che per non opporsi ai voleri della Provvidenza muore povero e abbandonato, senza rivelare a nessuno –nemmeno a se stesso –, il proprio potere divinatorio.

Chi dice la verità, e cos’è la verità? Lo chiedeva Pilato a Cristo, nella domanda che Nietzsche definì l’unica ad avere valore nella storia umana. Sulla relatività del vero e di ciò che si definisce reale, Daumal insiste con verve polemica. Né la filosofia, né la teologia, né la politica possono dare risposte certe. Solo lo scavo interiore, e la raggiunta conoscenza di sé, possono illuminare nella ricerca del vero: “L’uomo che pensa è il violento nemico di ogni fede imposta, di ogni dogma, di ogni tirannia. È per essenza Rivoluzionario. Tu parli di Verità. Ma chi parla in te? Cerca dunque te stesso prima di tutto: ma ecco! il sentiero si allunga all’infinito, non smetti mai di cercarti. E cercarsi è la stessa cosa che cercare la Verità… Si può essere solo nella misura in cui si rinuncia a ciò che si crede di essere”.

Bisognerebbe inventare una “macchina per decervellare”, capace di svuotare la testa da tanto ciarpame inutile, e rendere il pensiero di nuovo pulito, originario, sincero. “Cosa impedisce all’uomo di restare semplicemente al centro di se stesso e di vivere misurandosi con il mondo esterno attraverso il mondo interno di cui è re?” Sono le varie ideologie, i falsi miti, le madri Chiese, la cultura occidentale che, separando la razionalità dalla fisicità, hanno distrutto ciò che negli esseri umani era semplicemente naturale: “Ciò che vi è di più morto nella testa opprime e sfrutta ciò che vi è di più vivo nei piedi… Il problema è riconciliare la testa con il resto dell’uomo”. La testa infatti è fatta dalla faccia, che guarda all’esterno e non è capace di osservarsi dentro, e dal cranio, situato in una posizione posteriore e cieca, che pretende di capire senza vedere: forse è il caso di rovesciare la testa, e cambiare atteggiamento.

Non l’intellettuale, non il religioso, non lo scienziato, non il condottiero potranno mai attingere alla verità, perché presumono di poter circoscrivere l’esistenza al sapere, rifiutando il dubbio, l’errore, il pressappoco. In tal modo non arriveranno mai a conoscere se stessi. Solo il Poeta può farlo, perché “è sommamente chiaro che la sua parola, sotto il senso unico, offre una pluralità, o meglio una totalità, di significati”. E sulla Poesia, come unica possibilità di attingere al vero, Daumal afferma con severità che essa non può definirsi solamente ispirazione, o improvvisazione e spontaneità. Deve rispettare regole, canoni precisi, tradizione, dominando l’elemento personale (l’invenzione e l’espressione) e   acquisendo uno stile non solo estetico, ma anche etico: “lo stile è l’aspetto non personale della bellezza”.  Attraverso lo scavo nel silenzio e il recupero della parola poetica “dalle infinite risonanze” l’umanità potrà sconfiggere le menzogne che hanno corrotto la sua natura più limpida e pura.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 5 febbraio 2025

 

 

RECENSIONI

CANZIAN

ALESSANDRO CANZIAN, IN ABSENTIA – INTERLINEA, NOVARA 2024

Scritte tra il 2020 e il 2024, e pubblicate a tiratura limitata dalle edizioni Interlinea lo scorso anno, le poesie di Alessandro Canzian già dal titolo sembrano voler sottolineare un’aspirazione al distacco o il riscontro di una mancanza, suggerite anche dalla scelta ricercata e differenziante della lingua latina. In effetti, la prima impressione che si ricava dalla lettura del libro, è quella di una privazione, affiorante dalle situazioni evocate nei versi, dalle immagini che li accompagnano e soprattutto dalla severa secchezza formale dello stile. Privazione di pietà, in primis, davanti alla sofferenza che affiora in ogni composizione, dove protagonisti sono esseri umani e non-umani privi di importanza, quasi insignificanti agli occhi del mondo: anziani, bambini, bestiole, oggetti comuni.

Il poeta si sofferma su di essi con uno sguardo constatativo, lontano dal giudizio, quindi esso pure segnato dalla privazione di una partecipe empatia, come a dire “le cose sono queste, la vita funziona così”: l’esibita non adesione, che superficialmente può sembrare impassibilità, in realtà vuole proibirsi la facile retorica di una commozione ostentata. Che invece si evidenzia nella contrapposizione dei concetti, che spesso affiancano a una descrizione di ordinaria normalità la visione brutale che ne scalfisce l’ovvia piattezza. Le poesie delle tre sezioni che compongono l’opera (Minimalia, Sul fondo, In absentia) sono per lo più strofe di cinque versi, non rimate e costruite sull’antitesi dei tre primi versi e dei due ultimi: “così la poesia diventa un piccolo dispositivo drammatico basato sul contrasto fra una cosa vista e la sua iscrizione nella sensibilità”, secondo il postfatore Martin Rueff.

Si aprono davanti agli occhi quadri di desolazione, miseria, talvolta sporcizia, sia negli ambienti domestici che nei paesaggi esterni, prevalentemente di periferia: “La tovaglia piena di briciole / e mosche, a terra / tra la polvere un grano. / Alla finestra un latrato”, “Per anni la cucina lasciata così com’era”. Ancora: le tende sporche, la persiana sfondata, e “grate, gronde e greppi” ripetono nei loro “gr” sinistri cigolii. I suoni e gli odori sono disturbanti, le architetture dismesse, il tempo atmosferico alterna pioggia insistente al “caldo di un’estate dei rospi e dei cani”.

In tutta la raccolta si respira la violenza del più forte contro chi non sa difendersi, nella guerra, nel sesso, nella crudeltà verso gli animali, che soffrono quanto le persone, e vengono descritti nella loro storpiata fisicità (un geco mozzato, una zampa spezzata sotto il cancello, le rane scoppiate, un insetto senz’occhi, corpi di mosca caduti). Addirittura un topo – che nella postfazione è assimilato a “una presenza enigmatica, quasi metafisica” – aggirandosi giorno e notte nella casa del poeta, lascia le sue tracce escrementizie in cucina e in bagno, quasi a indicare una negatività persecutoria verso il mondo degli umani. Di questi Canzian rimarca la fragilità morale e fisica (“L’uomo è un ramo / che si spezza facilmente”), in particolare quando si sofferma a osservare le adolescenti: ragazza e ragazzina sono sostantivi ripetuti dodici volte nelle varie poesie, e raccontano di una violenza a cui l’ingenuità giovanile non sa opporsi, se non nella decisione tragica di un rifiuto definitivo: “La ragazzina a lato dei binari / con le calze smagliate e le / unghie scolorite domani / risolverà tutti i problemi / bevendo ammoniaca”.

I corpi straziati con prepotenza rimangono inermi, incapaci di difendersi fisicamente (la scheggia incarnita nella schiena, un buco tra le costole, la pancia scoperchiata, una maglietta strappata), e ancor di più mentalmente, producendo un’indifferenza che si risolve alla fine in estraneità a ciò che accade, alla storia personale e collettiva: “La storia accade / ma non se ne ha memoria”, “Il mondo passa e non la tocca”. In questa situazione di totale ostilità umana, nemmeno Dio può rappresentare un’ancora di salvezza: se interrogato non risponde, chiuso nella sua indifferenza. È un Dio che “ha confessato d’essere / solo un buio, uno sbaglio”; “vendicativo e geloso… scuro come un topo…  sinonimo di mai”.

Alessandro Canzian (Pordenone1977) è molto attivo come editore e operatore culturale. Ha fondato la casa editrice Samuele, e ideato il ciclo di incontri letterari “Una Scontrosa Grazia” a Trieste, l’osservatorio poetico on line Laboratori Poesia e la rivista semestrale “Laboratori critici”. Collabora con Pordenonelegge pubblicando le collane “Gialla” e “Gialla Oro”.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 31 gennaio 2025

 

RECENSIONI

CASATI

ANGELO CASATI, E NON AVERE OCCHI SPENTI – QIQAJON, BOSE 2021

“Don Angelo è un flauto, si lascia suonare da tutto e da tutti e si ascoltano racconti meravigliosi da quel vuoto di sé che è il suo cuore. Ha frasi incandescenti eppure miti, fuochi di sdegno eppure luminosi, ha ombre che fanno più vera la luce. Come fa? Con la compassione…”. Così Chandra Candiani nella lunga e affettuosa prefazione al libro di poesie di don Angelo Casati esprime la sua stima di poeta ai versi di un religioso come lei poeta.

Angelo Casati (Milano 1931) è presbitero della diocesi milanese, e ancora oggi ultranovantenne scrive e pubblica toccanti omelie settimanali nel suo blog Sulla soglia. Ha al suo attivo molte pubblicazioni che spaziano dalla poesia a commenti evangelici, da riflessioni spirituali su vari eventi della vita a veri e propri saggi, usciti per diverse case editrici (Cittadella, Romena, Paoline, Servitium, Àncora, Il Saggiatore…). Il volume edito da Qiqajon con il titolo E non avere occhi spenti comprende quasi duecento poesie tratte da venti brevi raccolte, composte tra il 2005 e il 2018 nel raccoglimento dei monasteri di Bose e Concenedo, nella sua dimora al centro di Milano e durante alcuni viaggi europei.

“Uomo non arreso” e innamorato di Dio, è a Dio che dedica versi struggenti di dedizione e preghiera, al Signore dei cieli e della terra che nel suo silenzio ascolta e accompagna, Padre creatore di bellezza, Padre che protegge e perdona: “Né so / se mi segui o mi precedi / impalpabile come questa ombra”, “E io non so darti nomi, / ma ti guardo, Signore”, “Oso chiederti per grazia / che sia tu, Signore, / la luce segreta / dei mie occhi impoveriti // … Tu a ridare senso al non senso, / tu luce dei miei occhi, o Dio”, “Porto veglia di occhi e stupore / per te, o Dio, / che vai convocando / fili d’erba e polvere di stelle”, fino all’implorazione: “Se tu scendessi, Signore!”

E c’è il Figlio, “profeta di Nazaret” che povero tra i poveri, entra con umiltà in Gerusalemme in groppa a un asino, ma sa anche brandire “la sua frusta / infuocata / dello zelo, a rovesciare / bancarelle e mercati”, e piomba “nel tempio terrore / per occhi / inveleniti di scribi e farisei”.

Lo stesso zelo, la stessa indignazione che anima don Angelo, persona mite e dolcissima, ma incapace di trattenere la sua riprovazione di fronte alle ingiustizie del mondo, alle guerre, alle stragi dei migranti in mare – “stupro di umanità”–, e all’indifferenza colpevole della politica e della Chiesa. Allora il suo tono di voce si inasprisce, nelle due lunghe composizioni Caritas in veritate e Rito e menzogna, in cui biasima “l’ingordigia dei grandi”, la loro vana pusillanimità: “Poi ho sentito / volti truccati / declamare intenzioni / sempre intenzioni / solo intenzioni, / salvi solo / i loro interessi”, esprimendo amarezza in una lunga litania: “Hanno abbassato i monti, / l’hanno chiamata religione. / Hanno impoverito l’orizzonte, / l’hanno chiamata fede. / Hanno spento i sentimenti, / l’hanno chiamata ascesi. / Hanno svuotato il comandamento, / l’hanno chiamata morale. // … Hanno zittito le coscienze, / l’hanno chiamata ubbidienza. / Hanno mummificato i riti, / l’hanno chiamata divina liturgia. / Hanno ucciso i profeti, / l’hanno chiamata ortodossia…”

Sempre si pone a fianco degli ultimi, degli sfruttati, degli inascoltati, di chi non ha potere, nell’ abbraccio fraterno e pietoso agli “umili / cancellati / dalla terra”, “Brusìo / degli umili della terra / che dalla soglia / ancora non osano / lo sguardo al cielo”, sapendosi egli stesso un privilegiato rispetto ai senzatetto, di cui scansa i corpi sdraiati tra le coperte rientrando nella sua casa protetta e calda. L’aspirazione più vera che anima la poesia di don Angelo Casati è quello di farsi cantore delle piccole cose, dei lampioni spenti e delle panchine vuote, degli oggetti senza valore, come il ciottolo grigionero che serve per tenere aperta la porta della chiesa, di corvi gracchianti, di foglie e fiori: “Vorrei cantare / per poco di voce / la campanula bianca…// vado odorando / e fremo e ascolto”.

Il mistero è ovunque (“Ora so che mistero / non è assenza di luce”), e va celebrato sia nel candore della neve sia nel fango delle pozzanghere, perché l’essere umano deve imparare a “crepitare di mistero”, accogliendone con gratitudine il messaggio segreto: “Tu indugia / e adora ogni cammino. / Sosta ad ogni torrente / e tocca il nuovo / dell’acqua. E canta / il Dio delle infinite sorgenti”, “A noi tocca in sorte / andare / con passo lento e leggero / in un abbraccio / di nebbie avvolgenti / e trattenere sospeso / il respiro”.

Anche la sua Milano caotica, “quadrilatero della moda”, fatta di “asfalto e silenzi”, di semafori annoiati, di “brulicare di voci / in una pizzeria”, si presta a descrizioni piene di affetto, perché in tutto si può scorgere l’impronta benedicente dell’Eterno: “Palpita quasi irreale / tra casa e casa / stretto nella via / il silenzio d’agosto. / Solo un tram / strattona lontano / quasi urlasse disagio / per contenimento in rotaie, / imbrigliato per destino / nei percorsi di sempre”.

Addirittura nella sua vecchiaia, con l’inevitabile accumulo di infermità, don Angelo scorge un segno della presenza divina: “Perdo pezzi di voce e di occhi, / di memoria e di cuore. / Dietro / alle spalle tu ti chini / e raccogli”, “A me è dato / per grazia / carico d’anni / incantarmi”. Ecco, l’incanto! Forse è questa la misura che tutta comprende lo spirito religioso dell’uomo e del sacerdote, animando il suo “desiderio di sconfinare” per evadere dall’angustia dell’io, “in anelito di nascondimento / quasi in fuga / da vuota esibizione”.

Nella grandiosità della natura, nello splendore che si offre con gratuità allo sguardo, si può trovare finalmente una rispondenza al proprio desiderio di infinito. Sono le montagne, con le loro cime rocciose o nevose, con i boschi che fingono impenetrabilità ma poi si aprono in radure confortanti; sono gli uccelli con i canti e le impennate in voli improvvisi; il vento che spira dove vuole, come scrive il Vangelo di Giovanni; l’acqua, la sorella acqua cantata da San Francesco, fresca, pura, dissetante; il silenzio, in cui ci si immerge per ritrovarsi nel profondo. La ricchezza delle citazioni ne dà ampia dimostrazione: “Inseguo sospeso nella sera / le piste / leggere del vento”, “arabeschi sonori / di uccelli / nell’ombra dei boschi, / che adoro”, “Cede il passo la fontana / a una striscia di luna / briciola di silenzio, occhi di pudore, / a veglia dal cielo”, “Lo scintillio dell’acqua / che nell’angolo in ombra / si butta e ributta, fremendo, / mai uguale, ma nuova / per ogni assetato”, “Là dove muore l’orizzonte / e sfuma il cumulo grigio / delle brume autunnali / sgusciano e galleggiano / come rapite da estasi di cielo / catene di cime innevate”, “Sul sentiero / ancora mi abbevera / profumo / nero dei boschi”, “In un cielo di ghiaccio / vive l’attesa / del grande silenzio”, “Minuscole nubi / striate d’argento / si accucciano tenere / alle cime dei monti, / si staccano lente / quasi senza partire / col passo sospeso / di chi ora rallenta. / A salutare”.

Bisogna “non avere occhi spenti” per riuscire a penetrare la bellezza. Bisogna tacere per saper ascoltare quello che il silenzio ha da dire. E camminare leggeri, sospesi, senza premere passi pesanti, senza offendere con gesti e parole che feriscano quello che ci circonda, di umano e non umano. “Sospeso” è l’aggettivo a cui don Angelo Casati ricorre più spesso nelle sue poesie: il suo cuore è sospeso, come il respiro, come la parola, in una esitazione discreta che lascia spazio all’espressione dell’altro da sé, e alla voce gentile della poesia.

 

© Riproduzione riservata    «La Poesia e lo Spirito», 27 gennaio 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RAFAIANI

MARIACHIARA RAFAIANI, L’ULTIMO MONDO – TLON, ROMA 2025 

 Mariachiara Rafaiani (Recanati, 1994) firma, con il suo primo volume di versi edito da Tlon, un visionario racconto apocalittico, in cui la desolazione ambientale e umana assume i contorni di un lucidissimo e implacabile incubo. L’ultimo mondo è suddiviso in tre Scenari e un Polittico conclusivo, che in un crescendo di figurazioni allarmate e allarmanti, predicono un futuro di dissoluzione non solo per il genere umano, ma per l’intero universo.

Così si apre la prima pagina: “Lo immagino disgregato sulle spiagge / come lacci e lembi strappati / da qualcuno in corsa, lo immagino / così il mondo”. Un mondo, quindi (l’ultimo!) che da subito appare disgregato, lacerato, marcio, in un susseguirsi di attributi più che negativi, addirittura ossessivamente terrifici e agghiaccianti. Altrettanto spaventevoli sono le immagini a cui la poeta affida il suo grido di allarme, insieme scandalizzato e impaurito, rabbioso e amaro: bambini ammutoliti, imposte sbattute, intonaci scrostati, topi, gusci vuoti, scheletri, automobili e case abbandonate, precipizi, pianeti di ghiaccio e territori infiammati, silenzio siderale.

Nulla appare più rilevante o degno di interesse e curiosità, in quello che sopravvive intorno o nelle azioni che si intraprendono, quando la fine si rivela ormai prossima e inevitabile perché “Ce ne andremo in fila. / Ce ne andremo tutti”.  Non c’è futuro, non c’è possibilità di proiettarsi in un altrove o in un domani di sopravvivenza, solo uno “scoordinato orrore umano “. Allora “i figli è meglio non farli / o non farli crescere mai”. Quindi, nessuna antica preghiera può aiutare, nessun esorcismo o magia, e nemmeno servirà a qualcosa studiare lo spazio cosmico, i buchi neri, i viaggi interspaziali: “Sappiamo che le stelle si allontanano / non come chiedergli di restare”.

Oltre a Milano, attraversata su un tram giallo “resistito alle epoche” per chiedere conforto a uno psicanalista o per ficcarsi in una libreria a scorrere libri e giornali ormai inutili, tornano alla mente altri luoghi visitati in passato: “Una foto di una città / dove sono stata o dove / vorrei essere”. Parigi, Venezia, Napoli, Ortigia, Procida, i diciassette anni slabbrati nella luce di Londra, vengono rivissuti nel ricordo però ormai sfumato, nemmeno più consolatorio, se il sentimento prevalente è la noia (“Cosa abbiamo combinato / in questa crudele noia?”).

Il bilancio dell’esistenza personale è decisamente negativo, anche nei rari momenti di un abbandono sentimentale, quando lo stesso corpo – il proprio o quello dell’amato –, si rivela solo una “condizione quantistica”, e le storie d’amore si ripresentano tutte uguali: “Riprendiamo sempre la stessa storia / dall’inizio, dietro le vetrate di un appartamento, / in una camera d’hotel, / o seduti al ristorante”.

Lo stile denotativo, puntuale, secco e conciso di queste poesie, lontano da ricerche sperimentali sul linguaggio, privo di ironia e invece consapevolmente, programmaticamente monocorde, è concepito e strutturato sull’esigenza di una voce monologante, che non attende né pretende risposte, non presuppone la possibilità di incontri o scontri con una qualsiasi alterità. L’io della poeta che parla a se stessa si riconosce come unica sostanziale realtà: “È la tua luce, / meglio di qualsiasi cosa”, quando traccia la separazione tra il tempo breve della sua vita e il tempo del mondo.

Un mondo che va alla deriva, non più recuperabile, nemmeno nella bellezza dell’arte (le tele di Bellini, Carpaccio, Bosch…), nemmeno nella solida consistenza degli oggetti (“Il legno ruvido di un tavolo, / il piede levigato di una statua”). In questa plumbea visione di un universo distopico, potrebbe infine illuminarsi una tenue possibilità di resistenza, magari da parte dei più giovani, capaci ancora di coltivare qualche speranza: “Però con le braccia scoperte / aggrappiamoci a un autobus qualsiasi, / andiamo ovunque a patto che sia qui, / fra le cose degli uomini”. Perché gli altri, i potenti, i maggiori responsabili del disastro verso cui l’umanità si dirige, rimangono inerti, come tristemente constata l’ultimo verso della raccolta: “Senza sapere andarsene. / Senza sapere restare”.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 26 gennaio 2025

 

 

 

RECENSIONI

GARY

ROMAIN GARY, TEMPESTA – NERI POZZA, MILANO 2024

I sette racconti di Romain Gary, inediti per il pubblico italiano, che compongono il volume La tempesta, vengono definiti dall’editore “sfavillanti”, anche se in realtà sembrano più “strabordanti di un dolore antico”, con “la morte quasi sempre dietro l’angolo”, come scrive nella postfazione Éric Neuhoff. Composti nell’arco di decenni, dal 1935 fino al 1975, hanno attraversato l’intera e avventurosa esistenza dell’autore, prendendo spunto sia dalle sue esperienze militari e diplomatiche (presso l’Onu e a Los Angeles), sia dalla sua tormentata vita sentimentale.

Romain Gary, pseudonimo di Roman Kacew (Vilnius 1914Parigi 1980), scrittore, sceneggiatore, regista, aviatore e funzionario lituano naturalizzato francese, pluridecorato con la Legion d’Onore per meriti di guerra nelle Forces aériennes francaises libres durante la campagna contro il nazismo, ha vinto il Premio Goncourt nel 1956 e nel 1975. Dopo il suicidio della seconda moglie, l’attrice americana Jean Seberg, profondamente depresso, si è ucciso sparandosi alla testa. Dai suoi numerosi romanzi, spesso firmati con pseudonimi, furono tratti tre film di successo: Chiaro di donna, La vita davanti a sé e La promessa dell’alba del 2017, con Charlotte Gainsbourg. L’editore Neri Pozza sta meritatamente ripubblicando dal 2008 tutti i suoi romanzi, l’ultimo dei quali, Gli aquiloni, ha riscosso grande interesse da parte della critica e del pubblico.

Il titolo di questo nuovo volume, Tempesta, allude al clima incombente di tensione, sospetto e pericolo, ribadito dallo stile di Gary, conciso e talvolta datato nella forma (soprattutto nell’utilizzo di una terminologia “politically uncorrect”), e nelle trame sospese tra brutalità e dolcezza, indirizzate a conclusioni mai realmente definite.

Eccoli, quindi, i sette racconti, di cui due sono in realtà bozze inedite di romanzi incompiuti. Tempesta è anche il titolo del racconto di apertura. Su un’isoletta tropicale semideserta vivono da quattro anni il dottor Partolle e la splendida moglie Hélène, uniti più da una pigra abitudine di convivenza che dall’amore: “il sole tropicale aveva ucciso l’uomo che era in lui, l’amore in lei”. Improvviso e inquietante approda sull’isola, “nel tremolio di un’aria infernale”, uno sconosciuto dal fisico atletico e dagli occhi selvaggi, chiedendo del medico. Attratto da irrefrenabile sensualità, aggredisce brutalmente Hélène, che dapprima respinge la sua violenza ma poi gli si concede, mentre finalmente l’uragano tanto atteso si scatena in una pioggia torrenziale, metafora dell’agghiacciante rivelazione che il medico fa alla moglie sulla malattia di cui lo sconosciuto è infetto.

All’ultimo respiro è un testo più complesso, scritto originalmente in inglese, con evidenti richiami autobiografici. Il protagonista, un elegante cinquantenne ex militare, forse mercenario, aspirante scrittore e diplomatico, è ossessionato sia dall’età che avanza, sia dai fallimenti della sua vita violenta. Un pomeriggio entra in una steak house di Los Angeles, per trascorrere le ore che lo separano da un misterioso appuntamento. Qui si imbatte in una giovane barista-entraîneuse che tenta di sedurlo, ultimo allettante richiamo a una vita che sta per chiudersi drammaticamente. Il bilancio della sua esistenza è infatti totalmente negativo: “Nei miei anni di lotta e di battaglie, ho visto così tanti posti e così tanto mondo, ho ucciso così tante persone, e per così poco… persone uccise e fucilate, le case che avevo bombardato, i bastardi che avevo finito con le mie stesse mani. E tutto per niente”. Nel motel in cui ha prenotato una camera lo aspetta un killer professionista da lui stesso assoldato per l’esecuzione, ma chi si presenta per finirlo non è sorprendentemente la persona attesa.

I tre brevi racconti centrali (Geografia umana, Dieci anni dopo ovvero la storia più antica del mondo, Sergente Gnama), scritti tra il 1943 e il 1945, rievocano le imprese di guerra attraverso le voci corali dei piloti di una squadriglia aeronautica operante in Africa. Nei ricordi comuni dei reduci si affacciano volti e parole di commilitoni caduti, il paesaggio desertico con la sua fauna, la voce di un servitore nero che cantava in francese senza conoscere la lingua, aneddoti curiosi e considerazioni più malinconiche: “Tante speranze sono svanite, tanti sogni sono andati in fumo, tanti amici hanno tradito, non c’è più nulla di certo: il mondo stesso ha forse cambiato volto. Ma nel 1941 la speranza era viva, i sogni ardenti e puri…”

Il sesto racconto, Una donna minuta (del 1935), è più drammaticamente e ironicamente movimentato rispetto ai precedenti. Narra della giovane moglie di un ingegnere francese che raggiunge il marito durante i lavori di disboscamento della foresta amazzonica, portando con sé una quantità di bagagli, un cagnolino pechinese, il fonografo e molti dischi di svenevole qualità. I quaranta uomini dell’accampamento ne rimangono insieme abbagliati e infastiditi, assumendo nei suoi confronti atteggiamenti alternativamente protettivi e repulsivi. “Senza fare nulla di particolare, quella donna aveva fatto girare la testa a tutti. Perché era estremamente carina, con quel suo visino, il naso sempre arricciato e lo sguardo limpido”. L’infantile e ingenua curiosità della ragazza verso la natura selvaggia e i nativi Moïs del villaggio vicino, condurrà tutta la spedizione e lei stessa a un epilogo sanguinoso.

A chiudere il volume è un romanzo incompiuto, Il greco, risalente alla metà degli anni ’70, in cui la scrittura dell’autore si è resa più raffinata, avendo fatto tesoro di decenni di pregevoli esperienze narrative. Il protagonista Billy è un ex nuotatore di fondo americano, che vive in Grecia all’epoca della dittatura dei colonnelli, bazzicando una base aerea britannica frequentata da miliardari, armatori, collezionisti d’arte, dame dell’alta società: “gente che da cinquant’anni giocava a bridge con la storia… strani esemplari dell’era coloniale… completamente convenzionali o tipicamente eccentrici”. Billy si industria a vivere senza lavorare, trafugando statue, vasi e cimeli antichi in fondo al mare da rivendere al mercato nero. Il talento di Romain Gary si manifesta non solo nella vivacità dei dialoghi, nelle descrizioni degli ambienti e nella caratterizzazione fisica dei personaggi (dove un qualsiasi dettaglio si presta ad acute interpretazioni psicologiche), ma anche nella felice rappresentazione dei colori e dei profumi di cielo, mare, spiagge greci: “Sembrava che l’Egeo e il cielo non avessero mai sentito parlare delle nebbie, della luce soffusa in cui le onde e l’azzurro si fondevano in una specie di gigantesca confusione di confini indistinti tra l’acqua e l’aria; era un mare classico, se classicità significa precisione e chiarezza dei contorni”. Billy viene contattato da un misterioso giornalista inglese, che gli propone una missione segreta in appoggio alla Resistenza contro il regime dei colonnelli: nuotare per trenta chilometri fino a raggiungere l’isola di Dervos per fotografare il campo di concentramento in cui sono rinchiusi decine di prigionieri politici, sfidando i posti di vedetta e le mitragliatrici posizionate ovunque. Il racconto si conclude in maniera brusca, lasciando in sospeso sia l’azione intrapresa da Billy, sia il progetto di romanzo che Gary non porterà mai a termine, uccidendosi pochi anni dopo.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 23 gennaio 2025

 

RISPOSTE

AIRAGHI

Le radici erano troppo profonde. Alida Airaghi

di Redazione
Gennaio 2025

INTERVISTE www.poetipost68.it
“io custode non di anni ma di attimi”
il collettivo poetipost68 chiede

In che anno della storia del Novecento sei nata? Assume per te un significato privato oltreché pubblico questa data?

Sono nata a Verona nel giugno del 1953, in piena guerra fredda, dunque. Si contrapponevano i due blocchi USA e URSS, proprio in quell’anno segnati da due avvenimenti significativi: la condanna a morte dei coniugi Rosenberg, accusati dagli americani di essere spie russe, e la morte di Stalin in Unione Sovietica. Clima politico internazionale gelido, clima affettuosamente caldo all’interno della mia famiglia cattolica, medioborghese, attenta e partecipe alla crescita di noi tre bambine, ma altrettanto rigorosa nell’educarci. Ambiente ovattato e protetto, per cui mi sono accorta della turbinosa temperie esterna solo alla fine del liceo classico, frequentato nel severo istituto napoleonico del Maffei, quando mi sono iscritta nel 1972 alla facoltà di Lettere Classiche all’Università Statale di Milano. Si respiravano le inquietudini del ’68, era già avvenuta la strage di Piazza Fontana, e poi la morte di Pinelli e Calabresi; iniziavano gli anni di piombo con il terrorismo rosso e nero. Dopo un’adolescenza vissuta cattolicamente tra Gioventù Studentesca, Mani Tese, volontariato, il mito del cristianesimo del dissenso e di Simone Weil, negli anni universitari ho provato a liberarmi dall’educazione formale e religiosa ricevuta sia affrontando diverse esperienze lavorative, anche umili e di fabbrica, sia collaborando alla pagina culturale del Quotidiano dei Lavoratori. Non credo di esserci riuscita, le radici erano troppo profonde, e caramente vincolanti.

Hai avuto delle madri e dei padri in poesia, o nel corso della tua formazione?

Già dalle elementari e alle medie amavo studiare a memoria le poesie imposte a scuola: Gozzano, Pascoli, Ada Negri, Titta Rosa, Pezzani… Affascinata soprattutto dalla musicalità e dalla rima, di cui ancora oggi patisco la dipendenza. Poi c’è stato l’incontro con i cantautori: De André, Gaber, Lauzi e soprattutto Tenco ed Endrigo, di cui imparavo appassionatamente i testi, accompagnandomi con la chitarra, che ho studiato anche nel repertorio classico. Dopo il ginnasio ho iniziato una corrispondenza con il poeta Siro Angeli, scoperto in un’antologia scolastica. Quante lettere? Mille, forse, nel corso di tutto il liceo, l’università, la convivenza, il trasferimento a Zurigo, il matrimonio, fino alla sua morte. La mia cultura letteraria la devo tutta al suo insegnamento, la mia crescita umana al suo esempio morale, il mio amore e il mio dolore alla felicità e alle difficoltà del nostro stare insieme, socialmente stigmatizzato per l’abisso di anni che ci divideva, ma reso più forte dal forte legame affettivo-intellettuale e dalla gioia orgogliosa che ci davano le nostre bambine. Negli anni universitari avevo conosciuto a Milano Giudici e Majorino, e da allora mi sono immersa nella lettura della poesia italiana del ’900. Oggi amo leggere e rileggere Eliot e Rilke.

Esiste a tuo avviso un legame tra Poesia e Storia?

Viviamo di storia e nella storia, come potremmo ritenercene avulsi? Me ne sono occupata in poesia soprattutto nel primo libro pubblicato da Bertani nell’86, Rosa rosse rosa, che risentiva delle atmosfere politicizzate e femministe della Milano degli anni 70-80, e poi negli Omaggi einaudiani del 2017 (con i testi dedicati a Luzi, Zanzotto, Pasolini, Pagliarani) e infine nel volume più recente, Quanto di storia, che ripercorre gli avvenimenti politici che hanno attraversato la mia esistenza a partire dalla giovinezza. Ma, se devo essere proprio sincera, l’osservazione della realtà mi ha sempre fatto soffrire (Eliot scrive “human kind / Cannot bear very much reality”), e amo soprattutto riflettere su ciò che sta “oltre” il reale. In tutti gli altri miei libri prevalgono interessi filosofici e teologici.

Che significato assume, nel tuo orizzonte culturale e artistico, la parola “generazione/i”? E in che modo l’esperienza personale, privata, biologica, influenza l’idea di “generazione”?

Non ho mai dato grande rilievo al concetto di generazione, anzi, mi sono sempre trovata più a mio agio con i bambini e gli anziani che con i miei coetanei. Mi è sembrato di poter imparare di più da loro, dall’ingenuità e dalla libertà di giudizio dei piccoli e degli adolescenti, dalla saggezza dei vecchi. Avverto nel termine “generazione” qualcosa di limitato e artificioso.

Quale idea hai del concetto di trasmissione e di tradizione? E in cosa consiste il tuo “scarto” rispetto ai modelli poetici e letterari a cui è legata la tua formazione?

Essendo stata insegnante, sono consapevole dell’importanza fondamentale di entrambi i concetti. Non so quanto posso trasmettere ai più giovani con la mia scrittura, non credo di avere alcuna autorità o sapienza particolare da esprimere. Mi sento invece totalmente inserita nel solco della tradizione poetica italiana del Novecento, senza aver osato “scarti” originali e innovativi.

Che funzionamento ha la tua memoria come traduzione, invenzione, rimozione, riconsiderazione – rispetto all’automatismo e al controllo formale del linguaggio?

Tendo a non proiettarmi nel futuro, che ovviamente vedo come molto ridotto rispetto al tempo che ho vissuto. La memoria è un’ancora, una miniera di significati e significanti, sia nello scandaglio arricchente, sia nel distanziamento sospettoso. Non mi spaventa l’idea di essere considerata fuori moda o passatista, mi attira poco lo sperimentalismo linguistico.

Quale funzione ha nella tua produzione la prosa (sia essa narrativa, critica e/o teoretica) e quale rapporto intesse con la poesia?

Alterno nella produzione e nella pubblicazione poesia e prosa, ho scritto cinque libri di racconti e tre romanzi brevi, più di 1500 recensioni. In poesia mi sono spesso cimentata nella forma del poemetto narrativo. Mi sembra giusto e produttivo che i diversi stili, le varie strutture formali si intersechino, influenzandosi a vicenda.

Quale rapporto ritieni di avere con le nuove generazioni di poeti, e come percepisci le nuove forme di poesia? Puoi descriverci qual è il tuo sentimento del futuro collettivo?

Sono troppo anziana per apprezzare l’improvvisazione del poetry slam, mi sento ancora molto legata al labor limae, come forma di rispettoso impegno verso il testo scritto e verso chi legge. Dei poeti più giovani apprezzo alcuni nomi, anche se mi dà un po’ fastidio questo raggrupparsi in cementate ed elitarie consorterie, che escludono apporti esterni nei vari blog e riviste, in aggiunta a una propensione esasperata verso l’autopromozione e l’esibizione spettacolare di sé. Devo fare molta attenzione quando provo a recensire i loro libri, sono permalosamente suscettibili anche alla critica più innocua e benevola. Tendo quindi a scrivere solo di poeti stranieri o morti, a scanso di venire sfidata a duello!

 

© Riproduzione riservata       www.poetipost68.it, gennaio 2025

RECENSIONI

GALGUT

DAMON GALGUT, LA PREDA – E/O, ROMA 2024

Dello scrittore sudafricano Damon Galgut (Pretoria 1963), autore di libri di grande successo come The Good Doctor e The Promise, la casa editrice E/O ha pubblicato uno dei primi romanzi, La Preda del 1995, che certo non demerita rispetto alle opere successive.

I suoi 56 capitoli brevi, a volte brevissimi, e lo stile steinbeckiano, paratattico, seccamente oggettivo, rendono facile e veloce la lettura, in modo tale che è soprattutto l’accavallarsi rapido degli avvenimenti ad assorbire ogni curiosità di chi legge, direzionandola verso la conclusione, forse intuibile ma non scontata.

“Li guardò e loro lo guardarono e poi entrambi si guardarono l’un l’altro”; “Erano in un capannone attiguo alla casa. Erano Valentine e Small. Erano fratelli”; “E il caldo. E l’attesa. E gli occhi”. Due esempi tra in tanti che si potrebbero fare del metodo di scrittura, scarno nei dialoghi ridotti all’osso ritmato e contenuto dalla frequenza dei punti fermi, con cui Galgut procede scandendo la narrazione. Eppure, il suo studio dell’ambiente, dei personaggi, degli oggetti, è comunque attento e vigile. Le strade sterrate tra erbacce e canneti bruciati dal vento; il litorale sabbioso che scivola verso il mare appena increspato; il veld brullo, spezzato da fossi; il mondo animale in genere abbrutito o comunque disgustante (corvi, manguste, termiti, scarafaggi, cani randagi, pipistrelli); gli esseri umani perlopiù sovrappeso, sudati, oppure scheletriti, con le mani screpolate, il viso macchiato di nei e brufoli; suppellettili sformate, finestre e porte sgangherate. Tutto, insomma, sembra voler sottolineare la desolazione del mondo circostante, su cui implacabili si abbattono improvvise piogge torrenziali oppure arde un sole “giallo e costante”.

Su questo sfondo si stagliano poche, memorabili figure. La vicenda si apre con il protagonista senza nome che cammina, impaurito e stravolto dalla stanchezza, lungo una strada polverosa, probabilmente fuggendo da qualcosa: piange, ha mani e bocca piene di vesciche. Lo affianca un furgone guidato da un uomo tarchiato e quasi calvo: è un prete diretto verso una parrocchia rimasta temporaneamente vacante. Si chiama Frans Niemand, gli offre un passaggio, pagandogli una doppia colazione in una sala da tè. Quando in seguito tenta un maldestro approccio sessuale, lo sconosciuto gli spacca le testa con una bottiglia e trascina il cadavere in una cava. “La cava era nera, un’assenza nella superficie del mondo”. La cava, il burrone, la buca, la miniera dismessa, tornano spesso nell’arco della storia come metafora del nascondimento, del rimosso e del sepolto, così come il continuo lavarsi le mani, la faccia e il corpo di tutti i personaggi indica il tentativo di liberarsi di qualsiasi sporco possa essersi incrostato sulla pelle e nell’anima.

L’assassino decide di sostituirsi al sacerdote ucciso, dirigendosi verso la missione che gli era stata assegnata con il veicolo stipato di valigie, paramenti e testi sacri. “La città era piccola e dispersa e brutta. Prevaleva una sterilità di cemento. Le strade principali erano state asfaltate molto tempo prima, ma le strade secondarie erano di ghiaia. Niente era più alto di un piano”. Una donna in vestaglia lo accoglie in canonica, indicandogli con indifferenza la camera da letto. Svegliatosi nel tardo mattino, scopre che il furgone è stato svaligiato, e alla stazione di polizia dove si reca per la denuncia fa la conoscenza con il Capitano Mong. Tra i due inizia da questo momento un duello fatto di reciproci sospetti, pedinamenti, fughe, in uno scambio di ruoli tra preda e predatore, vittima e carnefice, in cui i confini di colpa e rettitudine, perdono e punizione si confondono.

Nel paesino di pescatori “taciturni e diffidenti”, il falso prete si investe del ruolo religioso usurpato dicendo messa e preparando le omelie, mentre intorno a lui l’atmosfera si incupisce sempre più opprimente quando nella cava viene ritrovato il corpo del sacerdote assassinato.

La seconda parte del romanzo assume una struttura sempre più concitata, in cui episodi violenti e inattesi si susseguono, accompagnati da uno stile ansimante, franto, punteggiato da dialoghi confusi di protagonisti e comparse, in una narrazione che continuamente ripercorre e ricostruisce il già detto. Processi farsa, poliziotti maldestri, incendi dolosi, arresti ed evasioni, inseguimenti ed esecuzioni sommarie, vengono accompagnati dalla musica euforica diffusa da un circo di saltimbanchi straccioni. L’inseguimento tra il Capitano esausto e il falso prete fuggiasco diventa emblematico dell’eterna contesa tra verità e finzione, bene e male, quando il reale sfrangia i suoi contorni in filamenti ingarbugliati, e le sembianze concrete di corpi e oggetti si trasformano in allucinazioni ossessionanti. Lo sfondo in cui si colloca lo scontro finale incombe minaccioso tra dighe e dirupi, paludi e alture, nella solitudine spettrale in cui i due uomini si fronteggiano. “Quando il poliziotto risalì fuori dalla diga, anche lui si rialzò e proseguì. Non era più sicuro che ci fosse una differenza tra loro o che fossero separati l’uno dall’altro e si spostarono insieme sulla superficie del mondo e il sole tramontò e si fece buio e continuarono a duettare. Si muovevano nella notte in vaghi contorni come i sogni che il suolo stava facendo”.

La vicenda narrata da Damon Galgut si fa allora metafora di una condizione esistenziale in cui tutti diventano malvagi torturatori e insieme pietose vittime, e il finale livellante non libera nessuno dalla colpa di vivere.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 15 gennaio 2025