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RECENSIONI

NEWMAN

JOHN HENRY NEWMAN, POETA – JACA BOOK, MILANO 2010

Di John Henry Newman (Londra 1801-Birmingham, 1890), cardinale, teologo e apologista cattolico, si mantiene oggi sensibile memoria non solo nel mondo ecclesiastico per la sua autorità dottrinale, ma più in generale in ambito letterario come raffinato poeta e saggista.

Presbitero anglicano e docente universitario, in gioventù fu figura trainante del Movimento di Oxford, che intendeva spiegare razionalmente i dogmi e la fede cristiana. In seguito a una profonda crisi personale e dopo gravi lutti familiari, si convertì al cattolicesimo e venne ordinato sacerdote nel 1845, quindi elevato al cardinalato nel 1879, beatificato nel 2010 da papa Benedetto XVI, e infine proclamato santo il 13 ottobre 2019 da papa Francesco. Newman fu osteggiato da una parte della gerarchia cattolica coeva per la sua convinzione che anche i laici dovessero partecipare alla vita della Chiesa, e per avere espresso opinioni contrarie al dogma dell’infallibilità pontificia, ma ebbe comunque un’influenza profonda nel rinnovamento del cattolicesimo (al punto da venire considerato tra i “padri assenti” del Concilio Vaticano II), e nella conciliazione con la dottrina anglosassone.

In un’epoca come quella del tardo ’800 segnata da grandi scoperte scientifiche e tecnologiche, e dall’avanzare delle filosofie positivistiche, materialiste e di politiche liberali, Newman rinvigorì uno spiritualismo di stampo umanistico, basato sul valore della coscienza come fondamento dell’azione e dell’impegno del credente (il suo motto cardinalizio Cor ad cor loquitur – il cuore parla al cuore -, esprimeva appunto l’influenza che un rapporto personale può esercitare nel convertire gli uomini dallo scetticismo alla fede). La sua meditazione teorica ruotò intorno alla relazione tra fede e ragione, e venne ribadita in tutte le opere omiletiche e teologiche (Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, Sermoni all’Università di Oxford, Grammatica dell’assenso), come in quelle più prettamente letterarie.

Il volume Poeta, pubblicato da Jaca Book nel 2010 con la cura di Luca Orbetello, offre ai lettori una scelta antologica dei suoi versi religiosi, oltre al poemetto Il sogno di Geronzio e al Saggio sulla poesia scritto nel 1828, con notevole irruenza giovanile, in commento alla Poetica di Aristotele. In questo testo, molto vicino alla sensibilità romantica di Shelley e alla sua Defence of Poetry del 1821, Newman sottolineava il valore essenziale, nell’espressione artistica, del sentimento interiore, della personalità morale, dell’immaginazione e della spontaneità, esibendo una totale avversione per il tecnicismo compositivo, l’eccesso di criticismo e lo sfoggio culturale colpevoli di soffocare ogni ispirazione poetica.

La selezione di versi proposta nel volume indica chiaramente a quali intendimenti si attenesse l’autore, già a partire dalle prime prove edite nella raccolta Memorial of the Past, del 1832, e in seguito nel fondamentale contributo all’antologia oxfordiana Lyra apostolica del 1836: una costante ispirazione biblica intrecciata alla finalità di combattere lo spirito liberale del suo tempo, ribadendo i valori della fede e della trascendenza, attraverso la celebrazione ispirata di alcuni modelli da glorificare, come san Filippo nel cui ordine aveva preso i voti, la Madonna o i simboli delle varie festività religiose. La sua composizione più nota, adottata anche per l’uso liturgico della Chiesa Anglicana, scritta nel 1833 durante un tempestoso viaggio in mare, assume i toni della preghiera popolare, quasi inteneriti nel fiducioso affidarsi alla guida divina: “Lead, Kindly Light, / amidst th’encircling gloom, / Lead Thou me on! / The night is dark, / and I am far from home, / Lead Thou me on!”

Decisamente originale è infine il poemetto The Dream of Gerontius, composto nel 1864, in cui la contemplazione della morte dà origine a una rappresentazione dell’invisibile e dell’ultraterreno di grande efficacia drammatica, riuscendo a fondere l’aspetto religioso con la meditazione filosofica. Il poeta descrive i sentimenti di un’anima che nel momento del trapasso, quando si interroga sull’ esistenza trascorsa e su ciò che l’aspetta, rimpiangendo gli affetti che lascia e la bellezza della vita terrena e temendo il giudizio divino, oscilla tra timore e speranza, nel suo viaggio attraverso l’universo, scortata da schiere di angeli. L’orrore di un “informe abisso, vuoto, senza confini” che possa avvolgerla, inghiottendola nel nulla, è contrastato dalla preghiera e dalla fede nell’immortalità promessa dalle Scritture: “Sollevati, o mia anima languente, e fatti forte; / ed in questo tratto svanente / di vita e di pensiero che ancor dev’essere percorso / preparati all’incontro col tuo Dio”. Con profondo acume psicologico, Newman descrive la vertigine del distacco, il senso di perdita delle cose amate, la tentazione della negazione e il richiamo dell’abiura, per poi approdare alla serenità dell’abbandono a una realtà diversa, alla leggerezza della libertà dai vincoli fisici, all’immedesimazione con lo Spirito. Contesa tra le potenze del Bene e del Male, l’anima infine accetta con umiltà il giudizio divino, disponendosi alla purificazione di un periodo di penitenza prima di arrivare alla beatitudine luminosa della visione di Dio, “nella verità del giorno sempiterno”.

Tutta la poesia di John Henry Newman è cristianamente nutrita dalla fede nella redenzione, ma anche dalla consapevolezza della caducità e fragilità umana: fa tesoro degli insegnamenti della Chiesa così come della letteratura e della filosofia mondiale, dai tragici greci a Dante, da Shakespeare a Pascal. Pur esprimendosi nel rigore intellettuale della fedeltà alla tradizione scolastica, sa sollevarsi a potenti immagini di creazione fantastica e visionaria, che la proiettano oltre i confini ottocenteschi in cui è cronologicamente situata.

 

«La Poesia e lo Spirito», 29 maggio 2025

RECENSIONI

ABELARDO ED ELOISA

ABELARDO ED ELOISA, HO AMATO SOLO TE – GARZANTI, MILANO 2022

L’editore Garzanti ha pubblicato nell’economicissima collana I piccoli grandi libri alcuni brani dell’epistolario di Abelardo ed Eloisa, con il titolo Ho amato solo te. Si tratta del Prologo dello stesso Abelardo, e delle quattro lettere conclusive dei due amanti più famosi della letteratura medievale, che oggi riposano l’uno accanto all’altro nello storico cimitero Père-Lachaise di Parigi.

Abelardo, chierico, teologo e ammirato filosofo docente all’Università di Notre Dame, era nato in Bretagna nel 1079; Eloisa, più giovane di venticinque anni, era una sua bella, sensibile e intellettualmente dotata allieva, nipote del canonico della cattedrale Maestro Fulberto, il quale l’aveva affidata al famoso logico perché ne approfondisse la preparazione culturale.

La passione subito sorta tra i due (“Mi bastò ascoltarti una volta. La tua parola mi penetrò come fiamma luminosa e compatta, incendiando il mio cuore”, scriveva lei; “Aveva tutto ciò che più seduce gli amanti”, commentava lui), nutrita da comuni interessi culturali e religiosi, ma soprattutto da un’intensa attrazione sensuale, li indusse presto a intrecciare una relazione clandestina, gravida di dolorose conseguenze per entrambi. Scoperti e costretti a un matrimonio riparatore, dopo che Eloisa aveva dato alla luce un bambino, subirono entrambi la vendetta della famiglia di lei e del mondo ecclesiastico. Abelardo, aggredito nel sonno da due sicari ed evirato, si ritirò nel monastero di Saint-Denis, Eloisa prese il velo nel convento di Argenteuil. In seguito il filosofo, osteggiato dai monaci benedettini per le sue tesi ritenute eretiche, fondò presso Troyes una comunità di studio e preghiera cui diede il nome di Paracleto, finendo poi i suoi giorni nel monastero di Cluny, mentre Eloisa ereditò dall’amante la scuola da lui fondata, divenendone stimata badessa.

Il Prologo con cui si apre il volumetto garzantiano è tratto dalla lettera Historia calamitatum mearum che Abelardo scrisse a un amico, descrivendo con toni sinceramente pentiti la sua esplicita intenzione di sedurre la giovane: “Tutto preso dall’amore per questa fanciulla, studiai il modo di avvicinarla e intrecciare con lei rapporti quotidiani e familiari, per rendermela amica, in modo da indurla più facilmente a cedermi”. Fattosi ospitare nella stessa casa dello zio di Eloisa, ebbe da lui il consenso a occuparsi dell’istruzione di lei, e addirittura di “piegarla con minacce e percosse, nel caso non fossero bastate le lusinghe e le carezze… come se egli affidasse una tenera agnella a un lupo affamato”. Così l’attrazione fisica tra i due ebbe il sopravvento su ogni interesse intellettuale: “Aprivamo i libri, ma si parlava più d’amore che di filosofia: erano più i baci che le spiegazioni. Le mie mani correvano più spesso al suo seno che ai libri. L’amore attirava i nostri occhi più spesso di quanto la lettura non li dirigesse sui libri. E talvolta, per meglio stornare qualsiasi sospetto, io arrivavo al punto di percuoterla… Nel nostro ardore, passammo per tutte le fasi dell’amore: e se in amore si può inventare qualcosa di nuovo, noi lo inventammo. E il piacere che provavamo era tanto più grande, perché noi non lo avevamo mai conosciuto, e non ci stancavamo mai. D’altra parte, a mano a mano che mi lasciavo portare dalla passione, avevo sempre meno tempo per i miei studi di filosofia e trascuravo anche la scuola”. Tralasciati gli studi e le pubblicazioni, Abelardo iniziò a dedicare alla giovane amante appassionate poesie d’amore che divennero presto di dominio pubblico tra gli allievi e i colleghi della sua università e nell’ambiente clericale. Il Prologo si sofferma a lungo sulle vicende che portarono i due amanti al matrimonio e poi alla separazione forzata, vissuta da loro in maniera diversa: più straziata da nostalgia e rimpianto da parte di lei, più pentita e obbediente ai voti religiosi nelle considerazioni di lui.

Nelle due lettere di Eloisa riportate in Ho amato solo te, la sua dipendenza sentimentale dal maestro e amante risulta evidente in ogni espressione carica di affetto, apprensione, risentimento, sensualità, già nell’intestazione, e poi nell’affannoso tentativo di rinnovare la comunicazione affettiva, e nei malinconici saluti finali: “Al suo signore, anzi padre, al suo sposo, anzi fratello; la sua ancella, anzi figlia, la sua sposa, anzi sorella”, “A colui che è tutto per lei dopo Cristo, colei che è tutta per lui in Cristo”, e ancora “Carissimo”, “Mio unico bene”.  Il timore, tutto femminile, di perderlo: “quello che soprattutto mi preoccupa è il saperti tuttora in pericolo”, “pensa di quanto sei debitore a me: e allora con più affetto dà a questa donna che è solo tua quello che dovresti dare a tutte le tue fedeli insieme”. Il ricattante ricordo: “sai bene che io ti ho amato sempre di un amore senza fine. Tu sai, mio caro – e lo sanno tutti –, quel che ho perduto perdendo te… questa tua povera Eloisa che è in preda all’incertezza e che si sente quasi morire a causa del lungo dolore patito… quanto maggiore è la causa del mio dolore, tanto più efficaci devono essere anche i rimedi, e devi essere tu a porgermeli e non altri, perché tu solo, tu che sei la causa del mio dolore, tu solo puoi aiutarmi. Come solo tu puoi farmi soffrire, così solo tu puoi rasserenarmi e consolarmi. È un tuo dovere, perché io ti ho sempre ubbidito con fervore, ho sempre fatto quello che tu mi dicevi di fare, tant’è vero che, non potendo farti torto in alcun modo, non ho esitato, a un tuo ordine, neppure a perdere per sempre me stessa… In te ho cercato e amato solo te, Dio mi è testimone; ho desiderato te, non i tuoi beni o le tue ricchezze. Non ti ho chiesto patti nuziali né dote alcuna; non ho voluto soddisfare la mia volontà e il mio piacere, ma te e il tuo piacere, lo sai bene. E anche se il nome di sposa può parere più santo e più decoroso, per me fu sempre più dolce quello di amica, perfino quello di amante, se non ti offendi, o di sgualdrina. Appunto perché, quanto più mi umiliavo davanti a te, tanto più credevo di piacerti, e di recare minor danno alla tua gloria”. L’encomio celebrativo: “Quale regina, quale donna potente non invidiava le mie gioie e il mio letto? Tu avevi due cose in particolare che ti rendevano subito caro a qualunque donna: la grazia dei tuoi versi e il fascino dei tuoi canti, due cose che di solito i filosofi non hanno… e io divenni oggetto di invidia agli occhi di molte donne”. La confessione erotica: “Per me, in verità, i piaceri dell’amore che insieme abbiamo conosciuto sono stati tanto dolci che non posso né odiarli né dimenticarli. Dovunque vada, li ho sempre davanti agli occhi e il desiderio che suscitano non mi lascia mai. Anche quando dormo le loro fallaci immagini mi perseguitano. Perfino durante la santa Messa, quando la preghiera dovrebbe essere più pura, i turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia anima e io non posso far altro che abbandonarmi a essi e non riesco nemmeno a pregare. Invece di piangere pentita per quello che ho fatto, sospiro, rimpiangendo quel che ho perduto. E davanti agli occhi ho sempre non solo te e quello che abbiamo fatto, ma perfino i luoghi precisi dove ci siamo amati, i vari momenti in cui siamo stati insieme, e mi sembra di essere lì con te a fare le stesse cose, e neppure quando dormo riesco a calmarmi”. L’accusa esplicita: “sarò costretta a dire io quello che penso o meglio quello che ormai tutti sospettano: i sensi e non l’affetto ti hanno legato a me; la tua era attrazione fisica, non amore, e quando il desiderio si è spento, con esso sono scomparse anche tutte le manifestazioni d’affetto con cui cercavi di mascherare le tue vere intenzioni… Perché tu sai bene che ho accettato di sacrificare la mia giovinezza nell’austerità della vita monastica non per vocazione ma solo per ubbidire a un tuo preciso ordine: e ora giudica pure tu a che cosa mi è servito tutto ciò, se tu non mi degni neanche di una parola”.

Così le rispondeva Abelardo, solenne e sempre compreso nella sua funzione religiosa, suffragando ogni affermazione con l’autorità dei testi sacri o la profondità teorica dei filosofi antichi, insistendo con toni di rammarico e deplorazione sul sentimento che li aveva uniti nella colpa e nella meritata punizione, incoraggiando la donna alla continenza e alla castità, senza nascondere un supponente fastidio e un contrariato rimprovero per le insistenze di lei: “A Eloisa, sorella carissima in Cristo, Abelardo, suo fratello in Cristo… sorella un tempo tanto cara nel mondo, ma ora ben più cara in Cristo: il salterio certo ti gioverà moltissimo per offrire al Signore un perpetuo sacrificio di preghiere in espiazione dei nostri numerosi e gravi peccati… ti sei abbandonata ancora una volta alle tue solite recriminazioni nei confronti di Dio per il modo in cui siamo stati indotti a ritirarci in monastero e per la crudele vendetta di cui sono stato vittima… Non dire mai più cose del genere, ti prego, ed evita lamentele come queste che non sono certo dettate da spirito di carità… Non è certo il caso che stia a ricordarti tutte le cose sconce e vergognose, tutti gli atti immorali, tutte le sozzure che hanno preceduto il nostro matrimonio… Tu sai a quale turpe schiavitù aveva asservito i nostri corpi la mia sfrenata passione: non c’era alcuna forma di decenza e alcun rispetto per Dio, neppure nel giorno della sua morte in croce e neanche in occasione delle più grandi solennità, che potesse impedirmi di rotolarmi in quel pantano… Non mi rimane, infine, che affrontare quella tua ormai vecchia ma sempre attuale lamentela per cui, riguardo al nostro ingresso in convento invece di ringraziare Dio, come sarebbe giusto, hai la sfrontatezza di accusarlo. Fa’ appello al tuo sentimento religioso per non essere separata da me anche quando andrò con Dio, e pensa che il fine ultimo di tutto questo è la felicità eterna, e che i frutti di questa felicità saranno più dolci se noi li gusteremo insieme… Dio, nella sua misericordia, si è servito della sua giustizia per rimetterci sulla retta via, ha saputo trarre il bene anche dal male, ha sfruttato per giusti fini anche la nostra empietà”. Terminava la sua ultima lettera inviando a Eloisa una lunga preghiera da lui stesso composta perché chiedesse il perdono divino per entrambi, e così chiudendo devotamente il loro rapporto: “Tu, Signore, ci hai uniti, tu ci hai separati, quando hai voluto e come hai voluto. Ora, Signore, conduci misericordiosamente a termine ciò che non meno misericordiosamente hai iniziato, e unisci a te per sempre in cielo coloro che una volta hai separato qui nel mondo, tu nostra speranza, nostra eredità, nostra attesa, nostra consolazione, o Signore che sei benedetto in tutti i secoli, Amen. Salute in Cristo, sposa di Cristo, in Cristo salute e vita, Amen”.

Su questo appassionato e appassionante epistolario si sono pronunciati molti studiosi, esprimendo perplessità sulla reale autenticità soprattutto delle prime due lettere di Eloisa, e addirittura attribuendo a lei un’età più adulta di quella dell’amante. Rimane comunque inalterata la fondamentale testimonianza di un rapporto erotico e intellettuale la cui fama ha varcato un millennio di storia, e ancora richiama pellegrini da tutto il mondo alla tomba che, secondo la leggenda, li conserva abbracciati in un’unica bara per l’eternità.

 

«Gli Stati Generali», 15 maggio 2025

RECENSIONI

JEBREAL

RULA JEBREAL, GENOCIDIO – PIEMME, MILANO 2025

“Dopo una vita trascorsa a interrogarmi, personalmente e professionalmente, su come il mondo abbia potuto permettere catastrofi come l’Olocausto, ho trovato la risposta tra le macerie nella mia terra martoriata, a migliaia di chilometri di distanza dai campi di sterminio europei. Scrivo questo libro perché il genocidio di Gaza mi ha cambiata nel profondo. Ha rivelato il vuoto morale e politico di un mondo che riduce l’umanità a una gerarchia di morte. Scrivo affinché nessuno, in futuro, possa dire di non sapere o che non poteva sapere… Scrivo perché le mie parole possano aiutare a impedire che il genocidio di Gaza diventi una dottrina da esportare nel resto del mondo, un modello da applicare ogni volta che il potere decida di avere ragione della ragione, minacciando la sicurezza e l’esistenza dell’umanità stessa”.

Con queste parole Rula Jebreal (Haifa 1973), giornalista esperta di politica internazionale, cresciuta a Gerusalemme e residente da anni negli Stati Uniti, introduce il suo volume Genocidio. Quello che rimane di noi nell’era neo-imperiale, in cui ricostruisce la storia della popolazione palestinese, soffermandosi particolarmente sulle vicende politiche che hanno portato alla creazione dello stato di Israele e ai successivi conflitti con la popolazione arabo-musulmana, fino alla recente e tragica invasione della striscia di Gaza.

Il resoconto puntuale delle sofferenze della sua gente viene misurato in cifre: oltre 61.000 morti a marzo del 2025 – secondo il calcolo al ribasso delle Nazioni Unite –, di cui il 75% donne e bambini con ventunomila dispersi, dai corpi disfatti e irriconoscibili; la distruzione del 94% delle strutture sanitarie di Gaza con centinaia di attacchi mirati, che hanno ucciso 1.200 operatori sanitari; più di duecento giornalisti assassinati; la devastazione del 90% del territorio: scuole, ospedali, palazzi, infrastrutture, coltivazioni; la carenza assoluta di cibo e acqua che ha provocato denutrizione e malattie croniche; un elenco tristissimo di torture, violenze sessuali, omicidi efferati… Un vero e proprio massacro che l’Occidente democratico guidato dagli Stati Uniti mistifica e minimizza, giustificando l’ingiustificabile, mettendo in atto una macchina di propaganda più letale delle stesse armi utilizzate, “mentre il mondo continua a girarsi dall’altra parte”.

Rula Jebreal ripercorre la storia di questo genocidio a partire dalla Dichiarazione di Balfour del 1917 con cui l’impero britannico accordava al movimento sionista la creazione di un “focolare nazionale”, decidendo delle sorti dei popoli nel territorio palestinese. “Il potere politico e militare ebraico si è affermato, in Palestina, attraverso un rapporto violento con i nativi arabi, tanto musulmani quanto cristiani, un rapporto di disprezzo e volontà di schiacciamento, nella consapevolezza piena di stare occupando un territorio in spregio dei suoi abitanti”. Contemporaneamente, i governi europei utilizzavano il sionismo per giustificare la loro volontà di espellere gli ebrei dai propri Paesi. Per i palestinesi iniziava nei decenni successivi la Nakba, la catastrofe, un progetto di discriminazione, cancellazione, riduzione progressiva dei diritti e della presenza fisica dei palestinesi in Palestina, con la loro sostituzione etnica permanente.

Perché tale programmata occupazione delle terre palestinesi si può correttamente definire “genocidio”? Nel novembre del 2024, Amnesty International ha pubblicato un rapporto sull’intento genocida della politica militare israeliana, che ha intenzionalmente violato il diritto internazionale umanitario. Concetto ribadito da Papa Francesco, dal Segretario delle Nazioni Unite António Guterres, dall’ex ministro degli Esteri europeo Josep Borrell, dai governi di Spagna, Irlanda, Sudafrica e Colombia, dalla Corte internazionale di giustizia, dalle Ong Human Rights Watch, Oxfam, Save the Children, Medici senza frontiere. E coraggiosamente documentato da Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani, nel suo report ONU del 2024 Anatomia di un genocidio, in cui accusava Israele di volere la distruzione materiale, morale e culturale del popolo palestinese, attraverso la negazione della sua dignità umana. Tali denunce sottolineano il rischio che, se lasciato impunito, questo genocidio possa rappresentare un precedente storico da esportare altrove, facendo “saltare l’ordine democratico, verso nuove giungle dominate dalla legge del più forte”.

Il genocidio di Gaza ha radici lontane, nelle dichiarazioni violentemente razziste e antidemocratiche dei dirigenti politici e militari di Israele, a partire da Theodor Herzl per arrivare a David Ben-Gurion, e poi a Golda Meir, Moshe Dayan, Menachem Begin, Badshir Gemayel, Ariel Sharon, fino all’attuale rappresentanza parlamentare guidata da Benjamin Netanyahu, che per decenni hanno portato avanti un progetto coloniale di sostituzione etnica per garantire la supremazia ebraica e costituire una “Grande Israele” esclusivamente per gli ebrei. “Oggi l’obiettivo di Israele è di cancellare la Palestina – una Palestina senza i palestinesi – con la complicità e il sostegno esplicito del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha legittimato il progetto di pulizia etnica dell’estrema destra israeliana, che il premier Netanyahu ha portato al potere, consolidando l’occupazione illegale, legalizzando la discriminazione razziale ed etnica del nostro popolo”.

Rula Jebreal ripercorre la storia della sua famiglia, dai nonni che dovettero lasciare la loro abitazione ad Haifa, ridotti a povertà estrema, al padre rifugiato con la famiglia a Gerusalemme est, a lei costretta a vivere con le sorelline in un orfanatrofio fino all’espatrio in America, dove dal 2018 insegna all’Università di Miami affrontando i temi della propaganda e del genocidio. Con coraggio e ostinazione ha creato una Fondazione, insieme a giuristi internazionali, diplomatici statunitensi e israeliani, per denunciare la strage in atto a Gaza sia al Congresso americano sia al Parlamento Europeo di Bruxelles, dove si è desolatamente imbattuta nell’indifferente scaricabarile della Vicepresidente e Deputata del PD Pina Picierno.

La voce dell’autrice si fa particolarmente commossa quando si sofferma sugli atti di eroica resistenza degli abitanti di Gaza (medici, operatori umanitari, giornalisti, avvocati e giudici, artisti), fornendo una puntuale documentazione del loro coraggioso operare. Infine enuncia tutte le iniziative legali che alcuni organismi politici mondiali hanno svolto e continuano a svolgere in appoggio alla popolazione palestinese (il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, il Consiglio per i diritti umani, la Corte internazionale di giustizia…), denunciando le potenze occidentali che esportano tecnologie di morte, trasgrediscono all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra che vieta i trasferimenti forzati individuali o di massa, e negano l’apartheid, l’occupazione illegale e l’assedio paralizzante messo in atto da Israele a Gaza e in Cisgiordania.

Così infine conclude la sua drammatica e angosciante testimonianza: “La situazione non fa che peggiorare giorno dopo giorno, e la mia disperazione cresce. Siamo evidentemente alle soglie della soluzione finale per il mio popolo… Ma la nostra determinazione è superiore al dolore, è più forte dell’oppressione che grava su di noi da cinquantotto anni”.

 

«Odissea», 13 maggio 2025

INTERVISTE

SEVERINI

                              Paola Severini e la poesia

Intervista alla conduttrice radiotelevisiva e giornalista Paola Severini, attiva nella difesa dei diritti umani, sul suo particolare rapporto con la parola dei poeti.


Paola Severini (Roma 1956), giornalista, saggista, ricercatrice universitaria, conduttrice e
produttrice radiofonica, televisiva e cinematografica, è una nota attivista per i diritti umani.
Laureata in Sociologia, nel 1996 ha fondato la Cooperativa Superangeli poi trasformatasi in
Superangeli srl che edita l’agenzia Angelipress.com (nata 25 anni fa); è segretario generale del
Comitato Internazionale Viva Toscanini e coordina l’Archivio Storico Piero Melograni. Grazie al
suo continuo impegno, alle attività svolte nei confronti degli Enti di Terzo Settore e alla sua lunga
esperienza nel mondo cattolico, è considerata una dei massimi esponenti del terzo settore in Italia, e
una delle prime giornaliste in Italia esperta in comunicazione sociale, avendo fondato in questo
ambito già nel 1990 l’Agenzia Paneuropa. Collabora a diversi quotidiani (QN, Messaggero,
Avvenire, Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore). In Rai attualmente cura per la radio la trasmissione
bisettimanale La sfida della solidarietà e per la televisione il programma O anche no sulla disabilità
da lei ideato. Registra le puntate delle sue trasmissioni radiofoniche e televisive quattro volte alla
settimana, con una media di duecento all’anno, per un totale di circa duemila trasmissioni sui temi
del Sociale, dei Diritti dell’uomo, della Disabilità, delle Minoranze religiose ed etniche. Ha curato
approfondimenti sulle guerre del Kosovo, del Ruanda, del Libano, della Yugoslavia, dell’Ucraina,
del Kurdistan, conflitti che ha vissuto recandosi personalmente in loco dal 1988 ad oggi.
Sposata una prima volta con Antonio Guidi, politico e neurologo da cui ha avuto tre figli, nel 2007
si è sposata con Piero Melograni, scomparso nel 2012.
Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti: Premio Marisa Bellisario nel 1989 per il lavoro sulla
salute della donna italiana in gravidanza; Premio Diego Fabbri nel 2001 per la una serie di
biografie, realizzata per Rai International; Microfono d’argento per la rubrica radiofonica Punto
d’incontro; Premio Saint Vincent di Giornalismo per la direzione giornalistica dei portali Internet
sul sociale; Medaglia d’Oro del Presidente della Repubblica nel 2011 per la direzione dell’Agenzia
giornalistica Angelipress.
Tra le sue produzioni e attività radiofoniche e televisive:
Passioni d’amore – RAI International – 2001; Un popolo di Poeti – RAI – 1995; Testimoni del
nostro secolo – RAI – 1996-1998; Le Bugie della Storia – Rete 4 [co-produttrice, 2005]; La Sfida del
Federalismo Solidale – in onda dal 2010 su Radio RAI GR Parlamento; La Sfida della Solidarietà –
in onda su Rai GR Parlamento; No Profit – in onda dal 2011 su Radio RAI GR Parlamento; L’Italia
è un paese fondato sulle nonne – RAI – 2013; Miss Sarajevo – RAI – 2018; Il Giorno della Libertà –
RAI 3 – 2019; O anche no – RAI 2/RAI 3 – 2019-in corso; Insieme con…la Rai per il Sociale – RAI
1 – 2020; Stravinco per la Vita e O anche no dedicato alle Paralimpiadi e ai diritti fondamentali – Rai2 – 2021/2024
Tra le sue pubblicazioni:
Manuale d’informazione sull’handicap, editore “Temi di vita italiana” 1992 (Presidenza del
Consiglio dei Ministri); Ersilio Tonini Il grande comunicatore, edizioni San Paolo e poi Minerva
2013; Le mogli della Repubblica, Baldini& Castoldi Dalai 2006, Nuova edizione 2008 Marsilio;
Manuale dei Diritti Fondamentali e Desiderabili, a cura di, Oscar Mondadori 2013; O Anche No.
Da vicino nessuno è normale, Castelvecchi Edizioni, 2024.

 

O anche no. Da vicino nessuno è normale - Paola Severini Melograni - copertina

● Gentile Dottoressa Severini, lei può vantare un’intensissima attività culturale coniugata a
un encomiabile e proficuo impegno sociale, che le ha meritato importanti riconoscimenti non solo a livello nazionale. In che maniera l’ambiente familiare, la formazione scolastica,
l’educazione al cattolicesimo hanno contribuito a creare il suo progetto di vita e di lavoro?

L’ambiente familiare, soprattutto l’esempio di mio padre che è stato un medico di
profonda fede cattolica e uomo generoso nei confronti dei più fragili, la scuola paritaria
frequentata dalle suore di Santa Maria degli Angeli fino alle terza media, quindi
l’educazione al cattolicesimo sono stati determinanti per il mio progetto di vita e di lavoro.

● Quali sono state le personalità letterarie, filosofiche e spirituali che più hanno segnato la
sua maturazione intellettuale? E quali gli incontri umani fondamentali nella costruzione
del suo profilo personale?

Poichè mi sono sposata a diciassette anni con una persona disabile che svolgeva il
lavoro di medico e attivista dei diritti fondamentali ho potuto conoscere il mondo dei
movimenti dei leader e dei fondatori di quello che sarebbe stato chiamato Terzo Settore:
ho conosciuto quindi Don Pierino Gelmini, Don Oreste Benzi, Madre Teresa di Calcutta,
Andrea Riccardi, Ernesto Oliviero, Chiara Lubich, Don Albino Bizzotto (nel
mondo cattolico) e molte personalità importanti nel mondo laico che si occupavano di
diritti fondamentali come Vincenzo Muccioli che ha fondato San Patrignano, Mario
Tomassini, l’uomo che insieme a Franco Basaglia ha cambiato la condizione dei malati di
mente in Italia ed è riuscito a realizzare e promuovere una legge fondamentale come
quella della chiusura dei manicomi. Queste persone sono soltanto alcuni di coloro che io
ho avuto il privilegio di poter frequentare.

 

● Nel 1995 ha ideato e condotto il primo programma tematico sulla poesia contemporanea
mai realizzato nel nostro Paese: Un popolo di poeti per Video-Sapere RAI (oggi Rai Cultura), andato in onda sulla terza rete della televisione di Stato e replicato per addirittura
due decenni. Quali motivazioni l’hanno spinta a ideare queste trasmissioni, e quali tra i
poeti da lei incontrati l’hanno emozionata maggiormente?

Uno dei miei professori all’Università degli studi di Urbino è stato Umberto Piersanti.
Il professor Piersanti è tra i maggiori poeti viventi italiani, è stato grazie a lui che ho
potuto ideare un popolo di poeti che mi permesso di conoscere da Alda Merini a Attilio
Bertolucci, da Dario Bellezza a Patrizia Valduga insomma tutti i poeti italiani ancora
viventi negli anni Novanta. É molto difficile se non impossibile dichiarare una preferenza:
sono stati tutti incontri straordinariamente emozionanti. Se dovessi però davvero essere
costretta a scegliere, il poeta del mio cuore è proprio il mio Maestro Piersanti: la mia
poesia preferita è L’anima. Eccola :
Io non avevo mai capito
da dove l’anima viene tra gli spini
ma l’anima è piccola, fatta d’aria,
passa tra gli spini e non si graffia

● Legge sempre poesia? Preferisce i classici o i contemporanei, gli italiani o gli stranieri?

Sì leggo sempre poesia italiana e straniera: tra gli stranieri ho presentato in Italia il
lavoro del nostro contemporaneo tedesco Durs Grünbein e ho avuto in televisione anche (ed è stata la prima volta) Mariangela Gualtieri. Credo che ci sia una grande fioritura, anzi
una primavera della poesia italiana soprattutto dopo l’epidemia di Covid. Il periodo
terribile che sta passando il mondo e le due guerre che abbiamo alle porte di casa nostra
stimolano e fanno si che la poesia contemporanea conosca una grande fioritura.

● Nel programma “O anche no” da lei curato su Rai 3, le è capitato di confrontarsi con
esperienze di poesia singole o collettive espresse dal mondo delle disabilità e della
marginalità sociale?

Sì, certamente ed è ogni volta un grande dono. Mi permetto di ricordare una scrittrice, che ha raccontato la sua esperienza personale in modo magistrale ed alcuni brani sono vere e proprie poesie: Ada d’Adamo.

INTERVISTE

ODISSEA

Intervista alla redazione di “Odissea”, fieramente pacifista

La copertina di un numero della rivista Odissea, diretta da Angelo Gaccione

Intervista ad Angelo Gaccione, fondatore e direttore della Rivista Odissea.

 

 

Da quanti anni esce la rivista Odissea, in che formato e con quale scadenza?

Angelo Gaccione: “Odissea” esce dal 2003, sono oramai 22 anni di vita. Per i primi dieci anni è uscito in formato tabloid e in edizione cartacea; un bimestrale colto, elegante e dalla bella testata azzurra. Poteva contare su decine e decine di rubriche e una compagine di collaboratori molto ampia e prestigiosa, diffusa in tutta Italia e non solo. Dal 2013 con i festeggiamenti del decennale e un incontro pubblico presso la Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani di Milano in cui sono intervenute personalità come i filosofi Fulvio Papi, Roberta De Monticelli, Gabriele Scaramuzza, il sociologo Nando Dalla Chiesa, il saggista Giovanni Bianchi, collaboratori come Grazia Livi, Giorgio Colombo, Morando Morandini, Arturo Schwarz e tanti altri, si è decisi di passare in Rete. Da quel momento “Odissea” ha assunto un carattere di vero e proprio quotidiano.

 

Su quanti collaboratori e quanti lettori può contare?

Si deve tener conto che “Odissea”, fungendo da voce pubblica per tutto il variegato mondo dei senza voce (comitati, associazioni, lavoratori, collettivi, sindacati di base, circoli culturali, gruppi musicali, gallerie d’arte, istituzioni intellettuali dalle diverse specie: musei, case editrici, conservatori, e via enumerando) ha una rete di lettori molto vasta. A questo va assommata la galassia dei movimenti (pacifisti, ambientalisti, di difesa della legalità, della tutela del patrimonio architettonico, dei beni comuni, del contrasto alle mafie, della cura del territorio, della solidarietà, dell’antifascismo, dei diritti, delle donne, delle minoranze, ecc.), del dissenso, dell’impegno sociale e culturale, ma anche dei tanti senza partito che condividono le nostre prese di posizioni contro le discriminazioni e le ingiustizie. La società civile è ben rappresentata da “Odissea”. Tantissimi i collaboratori, e tantissimi gli intellettuali e i letterati che supportano, con il loro impegno e la loro intelligenza, il giornale.

 

Soprattutto nell’ultimo periodo la vostra pubblicazione si è schierata coraggiosamente contro il riarmo e ogni politica di aggressione militare. Fate riferimento a qualche partito o organizzazione politica in particolare, e da quale pubblico ottenete più attenzione e solidarietà (studenti, professionisti, intellettuali, cattolici, militanti di sinistra?)

 

“Odissea” sin dal suo nascere si è schierata contro guerre e militarismo: su questo non abbiamo fatto sconti a nessuno. Consapevoli che militarismo e guerra rappresentano due aberrazioni storiche che hanno prodotto le tragedie più gravi del Novecento e stanno portando il mondo verso l’apocalisse nucleare. Il giornale non ha mai nascoste le sue simpatie libertarie e per questo non ha mai operato censure; sulle sue pagine si confrontano uomini di cultura, intellettuali, associazioni e comitati fra i più diversi, in piena autonomia e libertà. Un coro di voci che come ebbe a dire il filosofo Fulvio Papi, trova il suo spazio in un luogo che ha rimesso al centro la moralità, l’etica pubblica. Come è riportato sotto la testata, ora di colore rosso per distinguere il passaggio dal cartaceo alla Rete (da Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel primo editoriale), cerchiamo di essere coerenti con le nostre idee e di non tradirle, come fanno spesso e volentieri i partiti ufficiali, e di tener fede al monito di Robert Musil: “Nessuna grande cultura può trovarsi in un rapporto obliquo con la verità”. Questa è la nostra forza e l’autorità morale che i lettori ci riconoscono.

 

Come ritenete di poter intervenire in maniera incisiva nel mobilitare l’opinione pubblica nei riguardi delle recenti posizioni europee sulle spese militari?

Quasi quotidianamente scriviamo di questi argomenti mettendo in guardia sui pericoli che l’Europa corre, e quotidianamente inviamo i link degli articoli a politici e a rappresentanti delle istituzioni. Ma “Odissea” chiama i suoi lettori anche a un impegno pubblico personale in occasioni di mobilitazioni come quelle recentemente svoltesi a Roma, Milano e in tante altre città, contro il riarmo e per un ruolo pacifico e diplomatico delle istituzioni europee. Molti di noi vi hanno preso parte attiva fisicamente e vi contribuiscono con idee e scritti anche radicali. Molti si stanno interrogando sul concetto di difesa in epoca nucleare, e non siamo più soli a parlare di neutralità, di alleanze militari pericolose, di spesa di riarmo criminale che affama i popoli e crea tensioni internazionali.

La mia Milano - Angelo Gaccione - copertinaContrappunti

Quale posizione assume Odissea sui conflitti in Ucraina e in Medio Oriente?

Già prima che il contrasto russo-ucraino degenerasse in guerra aperta, ci siamo schierati per una soluzione diplomatica da attivare subito. Abbiamo consigliato parlamentari e Governo di farsi parte attiva affinché l’Europa svolgesse questo ruolo di mediazione pacifica per evitare un conflitto che avrebbe provocato morti, lutti, rovine e profughi, come è poi avvenuto. Siamo scesi in piazza in una manifestazione oceanica a Milano, abbiamo creato un Comitato Nazionale di artisti, poeti, cittadini di buona volontà raccogliendo firme e pubblicando appelli e testimonianze su “Odissea”. Abbiamo organizzato una lettura poetica e di testimonianze in Piazza della Scala, fra le tante, quelle arrivate dal fisico Carlo Rovelli e dallo storico Franco Cardini. Abbiamo portato tutte quelle firme al prefetto di Milano che le ha trasmesse, con i punti da noi individuati per una risoluzione pacifica, al Parlamento, al Governo, al presidente della Repubblica. Suggerivamo la città di Assisi, città mondiale per la Pace, come luogo fisico delle trattative; coinvolgendo le tre massime autorità spirituali mondiali delle tre religioni monoteiste. Il papa, aveva espresso le nostre stesse idee e i frati di Assisi sarebbero stati disponibilissimi, così come l’amministrazione pubblica di quella città. La nostra bellissima nazione avrebbe potuto svolgere un ruolo straordinario che ci avrebbe resi tutti orgogliosi, se avesse intrapreso questa strada favorendo le trattative ai massimi livelli politici ad Assisi. Abbiamo ripetuto fino alla noia che era meglio un anno di negoziati che un giorno di guerra; meglio una pace ingiusta di una guerra giusta, perché il tempo avrebbe risanato i contrasti e attutiti gli odi. Invece restarono sordi e iniziarono a soffiare sul fuoco inviando armi e contribuendo al massacro. Allora si era ancora in tempo; ora la deriva è il riarmo e la follia di volere mandare truppe europee sul teatro di guerra dopo tre anni di morte. Sul Medioriente ci siamo espressi e ospitiamo tuttora scritti provenienti anche da quella terra martoriata. Abbiamo sempre sostenuto i comitati palestinesi in Italia e le iniziative di piazza, oltre a pubblicare le locandine degli incontri e delle proteste pubbliche. Lo riteniamo un dovere morale oltre che umano. Sono gli indifferenti che non sopportiamo, perché come ebbe a scrivere Gramsci: “L’indifferenza è il peso morto della storia”.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 30 aprile 2025

 

 

 

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RECENSIONI

ANEDDA

ANTONELLA ANEDDA, TRE STAZIONI – LIETOCOLLE, FALOPPIO  1997

Per le eleganti edizioni di Lietocolle è uscita in questi giorni una plaquette di Antonella Anedda, Tre stazioni, (pp. 17, L. 15.000) che raccoglie, scandite appunto in tre tempi, riflessioni (o aforismi, o brevi pezzi di prosa d’arte, o illuminazioni, o meditazioni: come insomma ciascun lettore decida di chiamare queste poche pagine), contrappuntate da suggestive immagini fotografiche. Anedda è ottima poetessa, che predilige toni densi e una forte tensione emotiva, quasi che ogni parola andasse scavata e incisa, prima di farsi visione, nella sofferenza stessa dell’essere, dell’esserci.

Le sue “stazioni” sembrano rifarsi proprio alle stazioni, contrite e gravide di ogni colpa del mondo, di una Via Crucis universale, in cui crocefissa è, più che il Cristo, l’umanità stessa, vittima sacrificale, agnello predestinato a immolarsi di fronte a un male cosmico, eterno e indistruttibile.

Da questa premessa, è evidente che a un io personale l’autrice antepone il noi collettivo, perché questa dimensione metafisica, più che sociale o storica, del dolore, investe proprio tutto e tutti, ogni materia creata. La nostra condanna è comunque anche la nostra salvezza, il soffrire è ciò che ci libera e santifica: a benedirci sarà una “scure pesante”, a vincere sarà “la povertà della roccia”, la rinuncia mite, la schiena piegata sotto il peso dei peccati umani.

Il topos dell’innocente che paga per tutti, di colui che si danna per salvare altri, trova una sua espressione in Francesco, in Cristo nel Getsemani, nell’asino da soma e in ci si fa sapientemente, coscientemente vittima per vincere spiritualmente il male attraverso la propria sconfitta fisica, materiale.

Ecco allora che tutto risponde a un dualismo (morte-vita, peccato-redenzione, offesa-perdono, violenza-dolcezza): da una parte c’è il rancore, la colpa, la paura, la fuga. Dall’altra “la grazia di un punto scuro e perfetto”, intesa come capacità di resistere al male (non compierlo, non accoglierlo, dilazionarlo nel tempo, scegliere “la lentezza che può salvare una vita”). Tuttavia, basta? Basta “non fare” per salvarsi e salvare il mondo? Non è anche la rinuncia, l’astensione, “l’illusione di ogni viltà”?

“Farsi mangiare per ultimi” è “un’astuzia inutile”, se a vincere comunque è il male. Antonella Anedda sembra ripercorrere, ma con meno ottimismo, la via indicata da Bonhoeffer, scissa tra resistenza e resa, con la speranza che la vittoria del male non sia eterna, ma venga condannata dal suo stesso limitarsi nella dimensione del tempo: “perché è vero; il bene è profondo, ma il bene è fragile. A differenza del male sfuma lentamente tra i secoli, a differenza del male ha nostalgia anche di una sola creatura”.

E che sia questa sola creatura, umilissima e “in bilico”, a riuscire a sconfiggere la sofferenza, ce lo auguriamo in molti, se lo augura l’autrice che ci ridà in alcune righe la stessa ansia di redenzione, perdono e salvezza, che abbiamo imparato a conoscere nelle preghiere dei primi cristiani, o in penetranti pagine di mistica.

 

© Riproduzione riservata       «Il Manifesto», 16 gennaio 1997

 

RECENSIONI

FROMM

ERICH FROMM, I COSIDDETTI SANI – MIMESIS, MILANO 2023

Il volume di Erich Fromm (Francoforte 1900-Muralto 1980) I cosiddetti sani, pubblicato da Mimesis due anni fa, risulta dall’assemblaggio di diversi saggi, riuniti in una prima edizione inglese nel 1991: documenti che rivelano una disposizione ideologica datata, soprattutto nell’ingenuo utopismo che li anima, ma comunque ancora di grande impatto emotivo, e di importanza testimoniale sullo sviluppo coerente delle convinzioni politiche ed etiche dell’autore.

Fromm, filosofo e psicanalista ebreo tedesco emigrato negli USA e in Messico per sfuggire al nazismo e infine morto in Svizzera, negli anni ’70-80 era arrivato a imporsi internazionalmente con due titoli divenuti leggendari: L’arte di amare e Avere o essere. Aveva contribuito ad allargare la dottrina psicanalitica dall’indagine sulla psiche individuale a quella sull’inconscio sociale, criticando la teoria freudiana delle pulsioni biologiche come chiave per la comprensione del comportamento umano, a favore di un’interpretazione più vasta della psicanalisi, destinata a indicare un nuovo equilibrio tra l’uomo e l’ambiente socio-culturale circostante. Suo merito principale è stato infatti quello di riconsiderare l’influenza negativa che i sistemi produttivi producono sui processi di adattamento psichico attuati dall’uomo per corrispondere alle esigenze dell’economia: ciò che nella nostra società determina il successo del singolo è in contrasto con la sua salute psichica, per cui deriva nell’individuo e nella collettività una sofferenza patologica espressa nello scollamento dal reale, nell’alienazione dal sé e dal mondo.

I cosiddetti sani raccoglie interventi e lezioni pubbliche tenute negli anni dal 1953 al 1973, che hanno perlopiù un tono colloquiale derivato dalla trascrizione di nastri registrati in quelle occasioni. La terza e quarta parte del volume presentano contributi più specifici, affrontando invece il tema di un auspicato nuovo umanesimo scientifico per rispondere alle sofferenze della società contemporanea, attraverso una concezione umanistica della persona.

A partire dall’analisi dell’orientamento autoritario, mercantile e necrofilo delle società contemporanee, Fromm descrive alienazione e narcisismo come fenomeni psicologici di rilevanza clinica. Individuando tra le caratteristiche della società moderna l’individualismo, l’ambizione a emergere, l’iniziativa privata, l’economicismo e lo scientismo, rileva come nei paesi occidentali a democrazia avanzata gli esseri umani siano particolarmente soggetti a soffrire di depressione, solitudine, ansia, aggressività, manie suicidarie, dipendenze da droghe o alcol, persistenti stati d’animo di noia e pigrizia. La mancanza di riferimenti che forniscano un senso all’esistenza, e il bisogno frustrato sia di riti collettivi sia di scopi che vadano al di là della produzione di materie di consumo, ha prodotto un senso diffuso di infelicità e di insicurezza. Il piacere del lavoro è diventato dovere, o adorazione della produzione fine a sé stessa. In una società dominata dal mercato come quella in cui viviamo, anche il valore dell’individuo viene determinato non tanto dalle sue qualità morali o dalle capacità professionali, “quanto dal suo essere più o meno commerciabile, dal fatto che quello che ha da offrire sia più o meno richiesto”. Il modo di produrre capitalistico ha infatti esercitato un’enorme influenza sulla struttura della personalità dell’individuo medio, pretendendo dal singolo il totale adattamento alle necessità dell’economia, e asservendo la medicina e la psichiatria a tale esigenza di normalizzare ogni opposizione conflittuale. Il senso comune identifica l’individuo “normale” con quello perfettamente “sano”, inserito nel suo ruolo sociale, soddisfatto, equilibrato e sicuro di sé. Ma in realtà, in una condizione caratterizzata da mancanza di relazionalità, astrattezza del pensiero, abitudine a una routine di gesti e orari che garantiscano conformismo e obbedienza, l’individuo cade in preda a depressione, privo di speranza nel futuro, di qualsiasi interesse e coinvolgimento nell’attività professionale.

Cosa propone quindi Erich Fromm per guarire una società malata, che crea individui malati? Recuperando le analisi di Freud e Marx, incoraggia la nascita di una nuova religione umanistica, che trasformi i rapporti lavorativi non tanto e non solo socializzando i mezzi di produzione, quanto anche le condizioni e le funzioni del lavoratore, affinché ognuno possa diventare soggetto attivo e cooperativo, e il lavoro stesso riacquisti dignità e significato, diventando un’espressione della forza vitale dell’uomo. Diventa fondamentale liberare l’energia che in ogni uomo è rimasta paralizzata, perché ritenuta pericolosa per l’ordine sociale, restituendo responsabilità e creatività nel processo lavorativo ormai iper-specializzato, valorizzando concentrazione, attenzione e competenza di ogni salariato, decentrando le industrie e riconvertendole a misura d’uomo nel rispetto dell’ambiente naturale, restituendo valore sociale o culturale a ciò che si produce …

Un progetto insomma che mette in primo piano non il profitto e il mercato, ma l’essere umano, con la sua indipendenza di pensiero e giudizio, il diritto a esprimere liberamente le proprie capacità, la fantasia, la possibilità di sognare, il piacere di esistere non solo come meccanismo destinato alla produzione e al consumo.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 26 aprile 2025

 

 

 

 

 

RISPOSTE

AIRAGHI

Intervista ad Alida Airaghi

Le poesie di “Litania periferica”, “Un diverso lontano” e “Frontiere del tempo” tornano in libreria

 

A gennaio 2025, Il Convivio Editore ha riportato in libreria in un unico volume,
intitolato “Tre libri”, tre opere della poetessa Alida Airaghi diventate quasi
introvabili: “Litania periferica”, “Un diverso lontano” e “Frontiere del tempo”.
L’autrice ha risposto ad alcune domande di Francesco Campagna, docente, poeta
e divulgatore letterario.

La silloge Tre libri di Alida Airaghi (Il Convivio Editore, 2025) racchiude tre volumi di poesie
ormai quasi introvabili: Litania periferica, Un diverso lontano e Frontiere del tempo,
pubblicati rispettivamente nel 2000, 2003 e 2006. La lettura in successione di questi titoli
suscita emozioni variegate, poiché ci si ritrova catapultati in un percorso ricco di
suggestioni, di tematiche diverse, di questioni risolte e irrisolte, di pensieri profondi sulla
vita, sulla fede e, specialmente nell’ultima opera, sul tempo.

1) Come nasce l’ottima idea di raccogliere in un’unica silloge tre opere così lontane
rispetto alla sua produzione letteraria attuale?

Ho creduto opportuno ripubblicare i tre libri usciti all’inizio degli anni 2000 dall’editore Manni
perché alcuni lettori mi esprimevano il desiderio di recuperare i testi lì inseriti, spesso
antologizzati in volumi scolastici (come Euridice, Il Lago o le poesie sociali), altri
parzialmente riportati da utenti di Facebook o di Instagram. Inoltre, mi è sembrato giusto
mettere in luce il filo conduttore (tematico, ma anche formale) che attraversa tutta la mia
opera, sebbene oggi gli esiti a cui sono giunta siano ovviamente diversi da quelli di vent’anni
fa. Ma gli interessi per la teologia, la scienza, il mito sono rimasti gli stessi, come la
disposizione d’animo verso chi ha segnato affettivamente e sentimentalmente il mio
percorso di vita.

2) Leggendo questa silloge inevitabilmente ci si confronta con argomenti più che
interessanti e un poetare che si evolve da lirica a lirica. Partirei con Litania periferica,
la quale presenta inizialmente commoventi note biografiche e successivamente
poesie dedicate a figure appartenenti all’ambito scientifico e ad animali asiatici.
Quanto è stato particolare immedesimarsi in Galileo o Einstein e immaginare cosa
avrebbero potuto scrivere sotto forma di lirica?

Sì, mi appassiona l’idea dello sviluppo della ricerca scientifica nel corso dei millenni, dai
presocratici in poi, anche se avendo studiato lettere classiche non ho avuto e non ho tuttora
i mezzi per addentrarmi nello specifico dei vari rami della scienza. Però mi emoziona l’idea
che l’umanità abbia sempre cercato di spiegare i misteri dell’esistenza: chi siamo, da dove
veniamo, qual è il destino finale dell’universo. Sono state tentate varie strade, ipotizzate
risposte, e il mistero è ancora fitto. Come faccio dire a Einstein:
Non può finire tutto, così, / per niente. Nel vuoto. //… Lo urlerò nell’abisso, / nel non tempo: /
dove non sarò”.

3) Gli aspetti biografici sono presenti anche nelle prime poesie del volume Un
diverso lontano, ma la sezione che mi ha attirato maggiormente è Metamorfosi, in
cui nuovamente lei si immedesima in altri personaggi, in questo caso figure
appartenenti alla mitologia greca dal destino a volte beffardo. C’è stata difficoltà
nel voler vivere le stesse emozioni della ninfa Eco o della sfortunata Alcione?
Perché ha scelto proprio queste storie?

Nel mio primo libro di poesia Rosa rosse rosa, pubblicato nel 1986, avevo riservato una
sezione, intitolata Classiche, a figure femminili della letteratura greca, incontrate nel corso
degli studi universitari. In Litania periferica ho voluto di nuovo affrontare l’argomento
scegliendo però un’ottica particolare, quello della fedeltà e della dedizione coraggiosa (a
volte fino al sacrificio finale) di alcune donne del mito, che hanno saputo vivere con
coerenza e coraggio la propria femminilità, fedeli anche a sé stesse.

4) Frontiere del tempo, a mio avviso, è la perfetta conclusione di Tre libri. Sono
evidenti i richiami a grandi filosofi e scrittori del passato, come sono facilmente
rintracciabili grandi ispirazioni bibliche per quanto concerne le tematiche religiose.
Le varie sezioni trascinano il lettore in un turbinio di intime riflessioni sulle nostre
esistenze. La mia sensazione è che in quest’ultimo volume le liriche abbiano toccato
un livello poetico tra le migliori dell’intero panorama italiano contemporaneo. Da
giovane scrittore e poeta e da curioso lettore, le chiedo se questi versi siano stati
scritti di getto o siano stati studiati e costruiti in più settimane e/o mesi.

In genere quando scrivo, sia in versi sia in prosa, medito molto a lungo i temi su cui poi
lavoro. Prendo appunti, leggo, mi confronto con i testi e le riflessioni altrui. Poi compongo
di getto, lascio depositare nel cassetto per molto tempo (a volte anche per anni) quello che
ho scritto. Infine rileggo e correggo, soprattutto sfrondando, asciugando tutto ciò che mi
pare in eccesso. Se mi sento abbastanza convinta, provo a sottoporre ad amici – non solo
letterati – il “prodotto” finale, e tento la pubblicazione. La valutazione finale giustamente
spetta ai lettori.

5) Per concludere l’intervista, prendo spunto da alcuni versi di Un diverso lontano: “eccomi
sola / nel tutto, eccomi tutto, buio / nel nero. Senza niente / intorno, senza le facce amate, /
senza voci ascoltate, e parole: / e mai che, dopo la notte, torni / il giorno”. Considerando che
sono passati ventidue anni dalla pubblicazione di questa raccolta, le chiedo: dopo tante
notti e tanto buio, il “giorno” è arrivato?

La ringrazio per questa sua partecipazione emotiva. Passiamo tutti nella vita momenti
difficili, di sconforto, di malattia, di difficoltà affettive e ambientali. Prima dei quarant’anni
ho perso in pochissimo tempo mio marito, i miei genitori, una cugina e ho affrontato una
non facile operazione. La grave depressione che ne è derivata si è appesantita di un
ingiustificato senso di colpa, come se temessi di aver in qualche modo meritato quello che
mi succedeva. Mi sentivo inadeguata ad affrontare qualsiasi aspetto quotidiano e pratico
dell’esistenza, schiacciata da responsabilità che travalicavano la mia capacità di resistenza.
Ho avuto tanta paura di non riuscire a crescere le mie bambine, e il ritorno da Zurigo a
Verona (in un ambiente che certo non mi ha aiutato a superare sia i problemi esterni, sia il
buio interno che cito nella poesia), ha acuito queste problematiche, e anche – perché
negarlo – il dolore. Ma il tempo guarisce tante cose, le mie figlie sono diventate due donne
straordinarie e mi sono state sempre vicine, io ho ritrovato la volontà di uscire di casa e da
me stessa, di riprendere a studiare, a scrivere, a guardarmi intorno. Insomma, posso dire
che sì, già da anni ho riscoperto la luce, il giorno, la gioia di esserci e di essere in questo mondo, problematico e bellissimo.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 16 aprile 2025

RECENSIONI

GIVONE

SERGIO GIVONE, LA RAGIONEVOLE SPERANZA –SOLFERINO, MILANO 2025

In sette capitoli e in un documentato repertorio di note, il filosofo e romanziere Sergio Givone (Buronzo, 1944) affronta il tema del dopo-morte, e lo fa riprendendo argomenti che gli sono cari (cfr. Storia del nulla, Favola delle cose ultime, Non c’è più tempo, Sull’infinito), però qui con un diverso stile aforistico, dal tono ansante, ispirato, rapito nell’immersione di un’idea.

La ragionevole speranza, si intitola il suo ultimo libro pubblicato da Solferino, indicando un’esplicita posizione teorica: di per sé, la speranza non si posa sulla ragione, ma si affida a un moto del sentimento, che in quanto tale è irrazionale; l’autore alterna l’attributo definendola a più riprese sia ragionevole sia illusoria, o addirittura disperata. Sperare cosa, quindi? Di sopravvivere, di permanere nell’essenza (nella coscienza) individuale dopo la morte, questione su cui da millenni si interroga il pensiero filosofico, insieme alla letteratura, all’arte, alla musica.

Le pagine del volume si aprono descrivendo la cerimonia funebre del fumettista Sergio Staino, avvenuta al Palazzo Vecchio di Firenze nel 2023, in cui tutti i presenti auguravano all’amico defunto un “buon viaggio” in compagnia dei sorrisi che aveva saputo dispensare in vita attraverso lo spirito caustico del suo eroe Bobo. Si può ridere della morte, di questo evento “impenetrabile come una pietra … muro contro cui si va a sbattere” ineluttabilmente, mettendoci di fronte al non essere più? Givone tenta un alleggerimento della negatività iniziale commentando la necessarietà di finire “per lasciare spazio ad altri. Magari sapendo che prima lo si fa, meglio è.  È dimostrato. Più in lungo la si tira, più amaro il calice che tocca bere”.

Si può ridere della morte per la gioia di essere comunque stati vivi, di aver goduto di momenti intensi di felicità e altri di incomparabile tristezza, di avere amato e odiato, partecipando al destino comune a tutte le creature. Da sempre si fronteggiano due modi opposti di porsi di fronte al limite estremo dell’esistenza: si può accettare la propria caducità, riconoscendo che nulla e nessuno sopravvive per sempre. Oppure si può credere che la vita individuale persista aldilà della sua conclusione fisica, aprendosi a una realtà diversa e superiore, per quanto inconoscibile e indefinibile.

La lieta e futile concretezza del libertino, la consapevolezza della finitudine del materialista si oppongono alla fede del mistico che rifiuta il limite, proiettandosi in un infinito, per lo più rivestito di sembianze divine. “Venuti al mondo, la sola cosa certa è che dovremo lasciarlo. Per finire dove? Nel nulla o in Dio?”, si chiede Givone, illustrando le tesi che hanno contrapposto i filosofi già dagli albori del pensiero umano.

Il primo a parlare di infinito fu il presocratico Anassimandro, che in un frammento così poetava: “Principio dei viventi è l’infinito […] là dove i viventi hanno la loro origine, là trovano la loro dissoluzione necessariamente: essi infatti pagano il dovuto gli uni agli altri ed espiano l’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Ma ad Anassimandro si opponeva Democrito, a Parmenide Eraclito, a Platone Aristotele, agli orfici Epicuro. Per Pindaro la vita è fugace, eppure luminosa (“Effimeri siamo: cos’è qualcuno? / cos’è invece nessuno? Sogno di un’ombra / è l’uomo. Ma se un lampo giunge, disceso dal cielo, / allora splendida luce gli uomini investe, / e dolce diviene la vita”). Per il Qoèlet biblico tutto è vanità, per il Cantico dei Cantici tutto è amore, Lucrezio era ateo e materialista ma celebrava la grandezza della natura, Plotino credeva nel ritorno all’Uno e si vergognava di essere in un corpo…

Via via nel corso dei secoli si è approfondito il contrasto tra spiritualismo e positivismo, tra caso e necessità. Pascal scommetteva su Dio, convinto che “se la porta della trascendenza resta aperta, allora possiamo sperare di avere una risposta alla domanda sul senso della vita”. Lo contraddiceva Montaigne, che pur nella disillusione metafisica era commosso dalla fragilità umana. A Vico si oppone Cartesio, a a Rousseau Voltaire, Manzoni a Leopardi, a Hegel Marx, contro Nietzsche combattono James e Bergson, Jung contesta Freud. Tutti con l’angoscia di capire, di spiegare a sé stessi e agli altri l’origine e la fine delle vite individuali, l’apparire e la dissoluzioni di intere civiltà nel corso della storia.

La Grundfrage di Leibniz e Schelling (“Perché c’è qualcosa? Perché non c’è il nulla?”) rimane inevasa, dopo secoli di ricerche scientifiche, di riflessioni teologiche, di preghiere e di bestemmie. L’anima, la bellezza, la verità, la grazia sono concetti che riconducono all’idea indimostrabile di Dio; l’odio, la malvagità, la malattia, lo sfruttamento, la dipendenza ribadiscono la nostra condanna al limite e all’infelicità. Schiller incoraggiava a resistere: “Abbiate il coraggio della sofferenza, / soffrite per il mondo a venire. / Al di sopra del cielo stellato / l’Infinito sarà la ricompensa”.

Quale ricompensa, e quale pena? Il paradiso o l’inferno?

Sergio Givone dedica l’ultimo capitolo del libro all’idea di immortalità dell’anima, oggi misconosciuta e contestata a livello filosofico, quanto quella del giudizio finale ultraterreno. Dibattuta dai mistici medievali (Silesius: “So che senza di me Dio non può vivere un istante: se io divento nulla, deve di necessità morire”) come dagli spiriti più intensamente e laicamente religiosi (Simone Weil: “Bisogna morire – morire nell’anima – per accedere a una dimensione di conoscenza e di verità, diciamo pure di immortalità”), l’immortalità dell’anima si scontra con l’ipotesi quasi scandalosa di una condanna perpetua (“Un’eternità dove tutto è pianto e stridor di denti, da una parte, e tutto è gioia e osanna, dall’altra, mette Dio in stato d’accusa”). Paradiso e inferno allora vanno derubricati a semplice “ammonimento per chi ha mal vissuto e incoraggiamento per chi ha ben vissuto”, a leggenda ormai razionalmente ripudiabile? Idea soppiantata da quella più nobile e generosa dell’Apocatastasi – cioè di una rigenerazione e redenzione totale dell’esistente nella perfezione originaria dell’inizio, ritrovata alla fine dei tempi–, intuita da Origene, discussa dai Padri della Chiesa, difesa da Giordano Bruno e ripresentata come necessaria da Luigi Pareyson, maestro di Givone, come promessa di un paradiso aldilà del paradiso, aldilà di tutto…

Il suo allievo, autore di questo intenso libro, la accoglie con il monito di Marguerite Yourcenar “cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti”, e con l’invocazione dell’ultima canzone di Leonard Cohen “I’m ready, my Lord”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 18 aprile 2025

 

 

RECENSIONI

AAVV, IL PANE E LE ROSE

AAVV, IL PANE E LE ROSE –  ALEGRE, ROMA 2025

Ho pubblicato la mia prima recensione nel giugno del 1976, su una rivistina universitaria: era dedicata al libro di Ferruccio Brugnaro Vogliono cacciarci sotto, uscito l’anno prima per le edizioni veronesi di Giorgio Bertani nella collana Letteratura operaia. Brugnaro (Mestre 1936) con Luigi di Ruscio (1930-2011) è stato il più noto poeta operaio, e tra i maggiori rappresentanti della letteratura subalterna. In quel suo primo volume, che era accompagnato da una nota di Andrea Zanzotto, dichiarava nell’introduzione: “La poesia è utile se nasce come strumento di lotta, di riflessione e azione, strumento di intervento reale… essa diventa per me e per i miei compagni un momento di riflessione, di arresto per poi ripartire subito con più chiarezza, con più forza… Voglio dire ancora che lo scrivere versi per me non significa altro che fare delle azioni di lotta; azioni concrete perché la società in cui viviamo abbia a cambiare presto, perché gli uomini e il mondo vengano sottratti presto alla cecità e alla sete di sangue del capitalismo. Non potrò mai intendere una poesia che non tenga conto della realtà bruciante quotidiana dell’uomo”.

Negli anni ’80, da Zurigo (dove mi sono occupata per Agorà, un settimanale delle Colonie Libere, anche della scrittura dell’emigrazione) ho iniziato a collaborare con la rivista Abiti-Lavoro, diretta da Sandro Sardella e Giovanni Garancini, che poi ho conosciuto personalmente. Abiti-Lavoro, di cui conservo ancora religiosamente tutti i numeri, è stata una storica rivista di poesia operaia, aperta al contributo di maestranze, sindacalisti, studenti, insegnanti e intellettuali impegnati nel sociale.

Sono quindi tornata indietro di cinquant’anni con la memoria, e con molta emozione, scoprendo alcuni giorni fa che la coraggiosa casa editrice romana Alegre ha inaugurato una collana intitolata Working Class, sotto la direzione di Alberto Prunetti, dedicata alla narrativa prodotta da lavoratori inseriti nel mondo industriale, agricolo, della ristorazione. Dagli anni 60-70, in cui il mondo professionale godeva di una rappresentazione di eccellenza nelle nostre patrie lettere (la rivista Comunità di Adriano Olivetti, le ambientazioni industriali di Ottieri, Volponi, Bianciardi, Calvino, il Menabò numero 4 di Elio Vittorini, la collana di poesia edita da Savelli sotto l’egida di Majorino), l’interesse del mondo editoriale italiano per il tema del lavoro è andato via via scemando, fino quasi a scomparire, nonostante la sua rilevanza sociale e politica continui a essere basilare. Oggi la letteratura sembra più orientata verso l’intrattenimento e il disimpegno, e l’industria del libro riproduce al proprio interno gli squilibri nella distribuzione del capitale culturale, dove le persone di classe operaia – necessarie per la stampa, il magazzinaggio e la logistica del libro – sono indispensabili ma completamente invisibili, e i rari premi letterari sul tema del lavoro vengono sponsorizzati da banche e associazioni come Confindustria, limitandosi a privilegiare momenti di incontro mondano.

Proprio Prunetti introduce Il pane e le rose, volume che raccoglie alcuni racconti operai premiati nelle prime due edizioni del Festival di Letteratura Working Class tenutosi nell’aprile del 2022 e del 2023 al presidio ex Gkn di Campi Bisenzio, collegato al premio omonimo ideato da un gruppo di bibliotecari e lavoratori della cultura del comune di Montelupo Fiorentino. In un progetto di convergenza culturale, il Collettivo di fabbrica degli operai ex Gkn, (protagonisti dell’assemblea permanente più lunga del movimento operaio italiano), la casa editrice Alegre, la Società operaia di mutuo soccorso Insorgiamo e l’ARCI di Firenze, hanno creato un evento internazionale di riflessione sull’immaginario letterario della classe lavoratrice, a cui il comune di Campi Bisenzio ha prestato il patrocinio.

Questo festival, ormai alla quarta edizione, ha come obbiettivo di dare centralità e nuova visibilità alla letteratura working class, per produrre effetti pratici nelle mobilitazioni di appoggio alle lotte sindacali contro licenziamenti, delocalizzazioni e speculazioni finanziarie, soffermandosi sul tema del lavoro sfruttato e oppresso. Il Festival è forse il primo tentativo a livello europeo di costruire una forma radicale di literary public sphere, per intervenire con la letteratura nella società, costruendo e mobilitando un pubblico a partire dalla solidarietà popolare attorno a una mobilitazione sindacale: un festival della classe operaia per la classe operaia. Ha sempre ottenuto molto successo in termini di partecipazione, di vendite di libri, con presenze di relatori internazionali e centinaia di volontari, ma è stato anche ferocemente boicottato, con l’utilizzo minaccioso di droni sorvolanti la manifestazione, con la contestazione di interventi solidali come quello di Elio Germano, con un attentato alla cabina elettrica per bloccare la luce.

I racconti antologizzati nel volume Il pane e le rose hanno temi comuni, pur nella diversità delle situazioni rappresentate. Vengono ribaditi il senso di precarizzazione e sfruttamento, la disumanizzazione dei rapporti interpersonali e la difficoltà nel mantenere salde le relazioni familiari, la deresponsabilizzazione e l’egoismo dei vertici aziendali, il timore e la rabbia per il ripetersi di incidenti causati dalla mancanza di sicurezza, le ingiustizie salariali, i turni massacranti, i licenziamenti e i trasferimenti immotivati, e poi la volontà di ritrovare una solidarietà comune nell’organizzazione degli scioperi e dell’occupazione delle fabbriche. Si tratta di esperienze vissute tragicamente sulla propria pelle: una lavoratrice di un’azienda agricola australiana che si ferisce e non viene soccorsa dai responsabili, un operaio anziano che si arrampica come ogni giorno faticosamente su una ciminiera di 100 metri e sventola uno striscione di protesta, il giovane laureato che non riesce a trovare un’occupazione adeguata, lo stabilimento siderurgico di Piombino su cui si diffonde una nube tossica dopo un’esplosione, l’addetto alla cura del verde (matricola 108712) che viene discriminato dai colleghi, il lavoratore che ricostruisce un secolo di storia delle Officine Meccaniche Reggiane… La conclusione di Dario Salvetti – Rsu e portavoce del Collettivo di fabbrica ex Gkn –, rende conto dei due anni di lotta della fabbrica toscana, che non ha avuto e non deve avere solo rivendicazioni economiche, perché “lo scontro passa anche per la capacità di essere soggetto narrante e narrato, di raccontare e di raccontarsi, sapendo scendere nel dettaglio del colore di una tuta, ma tenendolo assieme ai grandi fatti storici della classe operaia e dei movimenti sociali”.

Il titolo della seconda edizione del Festival Working Class citava Mark Fisher: “Non siamo qui per intrattenervi”, sottolineando la volontà di creare un pubblico di lettori capace di trasformare il mondo dei libri fuori dai libri, e aprendo spazi di riflessione per cambiare i rapporti di forza nella società.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 8 aprile 2025

 

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