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INTERVISTE

IL PONTE DEL SALE

Intervista agli editori de Il Ponte del Sale
  • La vostra non è solo una casa editrice, ma anche – e forse soprattutto – un’associazione culturale. Quando e dove è nata, per iniziativa di chi, e con quali obiettivi?

Il Ponte del Sale – associazione per la poesia nacque nel 2003 a Rovigo per iniziativa mia e di altri poeti e scrittori veneti: Maurizio Casagrande, Luciano Cecchinel, Pasquale Di Palmo, Sergio Fedele e ne entrò subito a far parte mia moglie, Mariacristina Colombo, che cura la veste grafica delle diverse collane. Questi soci fondatori costituirono anche il nucleo redazionale originario poi variato, perché alcuni ne uscirono e altri (Luigi Bressan, Gabriele Codifava e Stefano Strazzabosco) ne entrarono a far parte. Avevo da qualche tempo (dal 1998) stretto una profonda amicizia con Bino Rebellato, editore e promotore di poesia in Cittadella negli anni ’50/’70 del Novecento. Bino era anche poeta (sublime poeta) e grazie a lui maturai l’idea che fosse possibile conciliare l’avventura editoriale con il fare della poesia: da lui compresi che possono essere la stessa cosa.
Promuovere pubblicazioni, incontri, letture, mostre; portare la poesia come presenza viva attraverso le voci poetiche più significative della contemporaneità, senza limitazioni di lingue e cultura; costruire occasioni di ascolto della poesia, in tutta la sua forza di matrice delle arti e custode dei saperi; condividere con gli altri un patrimonio di bellezza che allude ad una forma alta di humanitas: tutto questo poteva essere insieme espressione di dignità letteraria e prova di amicizia.

  • Quante persone coinvolge la vostra attività e con quali ruoli? Quanti volumi avete pubblicato fino ad oggi e quali hanno ottenuto maggiore successo di vendite e di critica?

L’associazione ha raccolto fin da subito l’adesione di un centinaio di soci, ma diciamo che sono una cinquantina a costituire i nodi della nostra rete, ai quali bisogna aggiungere i fabbri (i critici, poeti, musicisti, artisti e traduttori) coinvolti negli anni, ai quali mandiamo regolarmente notizie della nostra attività e i libri pubblicati. Proprio in questi giorni Il Ponte del Sale ha compiuto 100 libri, anzi 101. I libri più fortunati sono stati quelli di Beppe Salvia, le poesie di Benn tradotte da Giuseppe Bevilacqua, le Georgiche di Virgilio nella traduzione di Gianfranco Maretti Tregiardini e tutte le poesie di Simone Cattaneo ma farei torto ai libri forse più belli se tacessi quelli realizzati per Rimbaud, Comenio, Dante, Artaud e i libri della collana straniera: poeti meravigliosi come Šebek, Crnjaski, Arturo, Urzagasti, Duraković e Ryzij erano ancora inediti in Italia e ora grazie a noi e all’opera impagabile dei traduttori (verso i quali nutro una gratitudine immensa) sono accessibili nella nostra lingua. Senza contare Rovigo di Herbert, le poesie di Panero, di Gelman, Paz, la traduzione del libro sesto dell’Eneide di Heaney o il quaderno di scritture e sovrascritture di Giorgio Bernardi Perini.

  • Avete circoscritto la vostra operatività alla poesia, arte poco remunerativa in termini economici e di diffusione. Come mai questa scelta di campo d’azione così selettiva e controcorrente?

Ho almeno in parte già risposto alla domanda, aggiungo che il moto di naturale simpatia che si prova nei confronti di chi scrive poesia ci ha spinto a desiderare di diffonderla, a testimoniarne l’importanza culturale e a fare una casa della poesia, piccola ma adatta ai poeti e ospitale per tutti e specie per quelli meno noti e che meritavano di essere riconosciuti e apprezzati.

 

Pasquale Di Palmo e marco Munaro

(Pasquale Di Palmo e Marco Munaro)

 

  • In che modo promuovete le vostre pubblicazioni? Credete nell’utilità dei festival, delle kermesse, dei social, o vi appoggiate a metodi più tradizionali di comunicazione, quali le recensioni, le presentazioni nelle librerie, il passaparola tra i lettori?

La promozione della poesia avviene principalmente attraverso due canali: la distribuzione in libreria, on line o diretta (per singole librerie indipendenti o lettori) e la lettura col pubblico in festival, presentazioni, oltre che sui giornali (la rete di cui parlavo prima: critici, traduttori, poeti). La partecipazione a festival o rassegne in varie parti d’Italia e anche all’estero non ci ha impedito di costruire proprio in Polesine, per alcuni anni, un festival di poesia musica e arte particolarmente apprezzato (Verso il solstizio d’estate) e a Rovigo numerose occasioni di incontro: ricordo una memorabile Cittàpoesia con la partecipazione di 40 poeti e i nostri libri esposti nelle vetrine del centro. Abbiamo realizzato con giovani artisti alcuni book-trailer e cerchiamo di comunicare attraverso i social le nostre iniziative. Tanto ancora ci resterebbe da fare. La via è lunga e il cammino resta malvagio.

  • Quale aspetto particolare dei vostri prodotti librari vi rende maggiormente riconoscibili al pubblico: la qualità dei testi selezionati, la grafica, i contributi critici?

Abbiamo fin da subito puntato sull’eccellenza, a una bella poesia dare la veste più acconcia, la scena più propria. E non sono mancati anche qui i riconoscimenti. Un libro del Ponte del Sale si riconosce per la cura dei particolari. Abbiamo voluto portare nell’editoria contemporanea la sapienza e la tenacia dell’artigiano che tramanda nella sua bottega l’amore per la cosa ben fatta. Una bottega senza la quale non sarebbe stato possibile l’Umanesimo, il Rinascimento e nessuna opera del Duomo.

  • Come vi muovete in ambito regionale e cittadino? Potete contare su appoggi da parte delle amministrazioni pubbliche, e in che modo riuscite a mantenere attivo il vostro bilancio?

Fin da subito, oltre al fondamentale sostegno dei soci, ci siamo resi conto che non sarebbe stato possibile continuare nella nostra opera senza la collaborazione delle principali istituzioni del nostro territorio (ma anche di altre città), il Comune, la Provincia, la Regione, i Conservatori, le Accademie, le Università, le Fondazioni e le associazioni culturali più dinamiche e attive con le quali di volta in volta siamo venuti in contatto per singoli progetti. Il bilancio resta attivo grazie alla generosa condivisone di tanti che hanno creduto e credono nella bontà della parola di Hölderlin: riportare i poeti in città. E di Petrarca editore di se stesso: Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia Poresti arditamente Uscir del boscho, et gir in fra la gente.

 

 

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https://www.sololibri.net/Intervista-editori-Il-Ponte-del-Sale.html      6 agosto 2019

 

 

 

INTERVISTE

L’ORMA

L’orma Editore si racconta in un’intervista

INTERVISTA AGLI EDITORI

La casa editrice romana L’Orma in pochi anni è riuscita a ritagliare un suo spazio di riconosciuto valore, grazie all’eleganza e all’originalità delle sue pubblicazioni: ci racconta in quest’intervista i tratti principali della sua linea editoriale, le collane, i riferimenti culturali e i maggiori successi messi a segno sul difficile mercato italiano.

  • Quando e dove è nata la vostra casa editrice, e sulla base di quali motivazioni e finalità?

L’orma Editore approda in libreria il 4 ottobre 2012, ma nasce almeno due anni prima nelle idee, nelle aspirazioni e nei bisogni dei suoi due fondatori, Lorenzo Flabbi e Marco Federici Solari. Nasce in particolare su un divano in un appartamento berlinese dove, da felici espatriati, abbiamo deciso di dare una forma più stabile, esterna e intellegibile a un’amicizia e a un sodalizio intellettuale che duravano da oltre dieci anni. Ci siamo detti che c’era spazio per portare in Italia grandi libri provenienti dai mondi culturali che, per competenze di studio ed esperienze di vita, conoscevamo meglio – le letterature di lingua francese e tedesca – cercando di elaborare un discorso culturale che rispondesse a una sete di «benfatto» e di complessità, e al contempo di chiarezza e di levità, che noi stessi provavamo.

  • Quante persone collaborano al vostro progetto all’interno della casa editrice, e a quali appoggi esterni vi affidate nelle proposte, nelle traduzioni e nei commenti dei vostri libri?

L’organico interno della casa editrice è costituito da cinque persone, con un’idea trasversale e comunitaria del lavoro in cui molte mansioni sono condivise: ci sono i due editori, la nostra caporedattrice Elena Vozzi con funzioni anche di social media manager e addetta alla produzione, l’ufficio stampa Chiara Di Domenico, che tra le altre cose ha curato per noi una splendida raccolta di lettere di Dino Campana, e Massimiliano Borelli, redattore e curatore, che è anche un inventivo e appassionato commerciale. La ricerca dei titoli costituisce uno dei grandi piaceri del mestiere di editore, che permette di alternare scoperte in proprio e scelte tra le tante belle proposte che ci arrivano dalle fonti più diverse: studiosi, agenti, traduttori, amici ecc.

  • Quante collane avete in catalogo? Pubblicate anche ebook? Che tipo di narrativa, di saggistica e di poesia intendete proporre?

Siamo una casa editrice che ragiona per collane, proprio nel senso che per noi questi spazi editoriali sono strumenti di pensiero che ci aiutano a costruire un percorso e un discorso attraverso i titoli che pubblichiamo. Ne abbiamo all’attivo cinque. Kreuzville e Kreuzville Aleph, le collane di letteratura francese e tedesca, il nome è una crasi di Kreuzberg e Belleville due quartieri, uno berlinese e l’altro parigino, che ci sembrano ben rappresentare la stratificata e complessa vitalità dell’Europa di oggi. I Pacchetti, libri pronti per essere spediti dove raccogliamo selezioni e traduzioni inedite degli epistolari di grandi autori, pensatori e personaggi storici cercando di raccontarli con un taglio particolare e talvolta iconoclasta. L’Hoffmanniana dove stiamo presentando in nuove traduzioni e con ampli apparati critici l’opera completa del grande narratore romantico tedesco E.T.A. Hoffmann sotto la direzione del germanista Matteo Galli e fuoriformato, dove si pubblicano, con le parole del suo direttore Andrea Cortellessa

“testi italiani irriducibili a convenzioni di genere, impaginazione, stile”.

Fatte salve le collane inevitabilmente legate alla materialità dell’oggetto libro (I Pacchetti e fuoriformato), tutte le altre sono presenti anche in ebook.
Come recitano le descrizioni programmatiche della Kreuzville e della Kreuzville Aleph, cerchiamo di proporre

«testi a picco sul reale che attingono alle enormi fucine di Francia e Germania, romanzi che incalzano il mondo con le armi dello stile e della lingua» e «libri che contengono in nuce tradizioni, ragioni e furori»

al cuore del contemporaneo per illuminare e rivelare le tendenze e le derive dell’Europa che siamo e che saremo.

  • Qual è stato il vostro libro che ha riscosso più successo, di pubblico e di critica?

Sicuramente Gli anni di Annie Ernaux, un romanzo straordinario, un’autobiografia impersonale, come la definisce l’autrice, capace di restituire la vita di una donna, di una nazione e dell’Europa tutta dal dopoguerra ai nostri giorni. È un libro che interpella il lettore interrogandolo sulla coerenza della propria vita. È una di quelle opere d’arte per cui valgono le parole di Rilke in Torso arcaico di Apollo:

“perché là non c’è punto che non veda / te, la tua vita. Tu devi mutarla”.

In Francia è considerato un classico contemporaneo e anche in Italia Annie Ernaux è stata accolta come una lettura imprescindibile.

  • Che difficoltà incontrate nel diffondere la vostra attività, e cosa vi augurate per il vostro futuro di editori?

La casa editrice sta andando bene e a pochi anni dalla fondazione abbiamo una visibilità e una diffusione davvero sorprendenti. Non sono pochi però i libri che hanno una vita difficile, riuscendo a raggiungere solo una parte limitata dei loro lettori potenziali, anche quando ricevono un’ottima accoglienza da critica e stampa. Siamo grati alle tante libraie e ai tanti librai che propongono con competenza ed entusiasmo i nostri titoli spesso scegliendoli, e così salvandoli, tra la legione di altre proposte che quotidianamente bussano per affollare i loro scaffali.
Per il futuro speriamo di riuscire a proseguire per un cammino di coerenza, un cammino, come diciamo noi, «a baricentro interno»: è un’espressione che usiamo per definire ciò che si fa per ragioni intrinseche, per convinzione, per piacere, per necessità interiore. Vorremmo continuare a condividere libri che, coinvolgendo e cambiando le nostre vite, ci auguriamo arricchiscano anche quelle degli altri.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Intervista-a-L-Orma-Editore.html     24 giugno 2016

INTERVISTE

LAGOMARSINI

SEI DOMANDE A CLAUDIO LAGOMARSINI

 

Claudio Lagomarsini (Carrara, 1984) si è laureato in Letterature e Filologie Europee all’Università degli Studi di Pisa (2008) e ha ottenuto il Dottorato di ricerca europeo in Filologia romanza all’Università di Siena (2012). Attualmente è ricercatore di Filologia romanza all’Università di Siena. Oltre a diverse pubblicazioni accademiche, suoi articoli di approfondimento sono usciti per Il Postminima&moraliaLe parole e le cose. Come narratore, ha pubblicato diversi racconti per Nuovi ArgomentiColla e retabloid, vincendo un contest organizzato dal Premio Calvino nel 2019. Da Fazi ha appena pubblicato il suo primo romanzo Ai sopravvissuti spareremo ancora.

Che peso ha avuto nella tua formazione culturale l’ambiente sociale e familiare di provenienza, e in particolare la tradizione letteraria toscana?


Ricordo che mio nonno recitava a memoria qualche verso di Dante. Non era un umanista ma un operaio, un omone spesso e duro come il marmo che lavorava, e il suo Dante era quello popolareggiante, diffuso tra i lavoratori di un’Italia arcadica che è morta o sta morendo con quella generazione. In casa sua non ricordo libri se non, appunto, una Divina Commedia che lui teneva nel comò. In casa dei miei, invece, c’erano molti libri, soprattutto classici, anche se mancava una curiosità letteraria propriamente detta. Da bambino sono stato spinto a impegnarmi a scuola, ma sempre nell’ottica di concretizzare gli studi in un lavoro. In effetti credo di aver sviluppato una passione autonoma per la letteratura piuttosto tardi, al primo anno di università. Mi ero iscritto a Ingegneria (vedi sopra alle voci “concretizzare” e “lavoro”) e nei ritagli tra una lezione e l’altra leggevo romanzi con una passione che a un certo punto mi è sembrata sospetta, quasi fosse un sintomo preoccupante. Alla fine del primo anno sono passato a Lettere, non senza che questo abbia causato conflitti in famiglia che solo adesso capisco e perdono fino in fondo. Per quanto riguarda la tradizione letteraria toscana, penso che abbia contato poco, prima di tutto perché sono cresciuto a Carrara, sul confine con la Liguria e non lontano dall’Emilia, motivo per cui, pur essendo toscano, non sento dentro di me tutta questa toscanità travolgente. E poi perché, almeno in una prima fase di ubriacatura, ho letto soprattutto autori stranieri. Forse il fatto di non avere alle spalle una tradizione regionale o locale è il limite ma anche il privilegio di crescere nell’orbita anziché nel centro di qualcosa.


Qual è stata la tua formazione universitaria, e di cosa ti occupi attualmente?


Quando mi sono iscritto a Lettere avevo l’intenzione un po’ vaga di fare l’insegnante. Via via ho messo a fuoco un interesse specifico per la ricerca. Questa cosa di poter fare ricerca in ambito letterario è stata sconvolgente, nel senso che non era per niente scontata per me, dato che non vengo da una famiglia di professori o di umanisti. Quando ho capito che cosa significava fare ricerca intorno ai problemi posti dal testo letterario e soprattutto quando, scrivendo la tesi, mi sono reso conto di quanto fosse appassionante, ho continuato su quella strada. Vale a dire che ho fatto un dottorato in Filologia Romanza e ho seguito l’iter più o meno accidentato (nel mio caso abbastanza veloce, in verità) che aspetta chi sceglie questo percorso. Tra borse e contratti vari ho abitato per sei mesi a Parigi e per quasi un anno a Losanna. Dal 2018 sono ricercatore all’Università di Siena, dove insegno Filologia Romanza. Mi occupo soprattutto di narrativa medievale francese e, più nel dettaglio, studio i cosiddetti romanzi arturiani. Al momento collaboro a un progetto di traduzione del ciclo di Lancillotto e del Graal, di cui Einaudi sta per stampare il primo volume. Oltre a questo sto per pubblicare l’edizione di una parte del ciclo di Guiron le Courtois, che oggi è un testo sconosciuto ai più, ma nel Medioevo ebbe una grande fortuna e un’enorme circolazione, tanto da essere tra le fonti privilegiate di Ariosto.

Quali sono stati gli autori italiani e stranieri che più hanno influenzato la tua scrittura?

Se si lasciano da parte i primissimi esperimenti (ad esempio un racconto che scimmiottava I nostri antenati di Italo Calvino), ho capito di volermi mettere a scrivere sul serio dopo aver letto i romanzi di Philip Roth. Mentre scrivevo le prime cose, ho percorso le tappe principali di ogni pellegrino a stelle e strisce, passando da Saul Bellow e Don DeLillo a David Foster Wallace e Jonathan Franzen. Se togliamo i romanzi medievali, tutto sommato mi considero un lettore mainstream: dopo la sbornia USA è stata la volta di Houellebecq, Bolaño, Marías, Murakami. Nessun autore di nicchia, insomma. Venendo agli italiani, i primi nomi a cui penso sono Walter Siti, Domenico Starnone, Sandro Veronesi e Alessandro Piperno. Non so in che misura queste letture mi abbiano “influenzato”. Per come percepisco io la cosa, è tutto un gran frullatore, alla fine si può essere influenzati senza saperlo anche da libri che non ci piacciono e, cercando la propria voce nella scrittura, si può scoprire di non avere niente in comune con autori molto amati. A me, ad esempio, piace moltissimo lo stile di Piperno, ma quando ho scritto cose alla Piperno mi sono reso conto che quello non era il mio passo.


I racconti che hai pubblicato prima del romanzo ne hanno costituito in qualche modo un prodromo?

Nei racconti pubblicati finora, che poi saranno una dozzina, ho fatto esperimenti di vario tipo, in alcuni casi molto distanti dall’atmosfera e dal mondo del romanzo. Ma ce ne sono due in cui in effetti riconosco un seme di quello che più tardi è diventato il mio esordio. Uno si intitolava Il grande Alessandro ed era il monologo di un ragazzo un po’ esaurito, che parlava del suo rapporto complicato con il compagno della madre, un uomo rozzo e cavernicolo, molto diverso da lui ma anche capace di esercitare un fascino misterioso. Nell’altro, che si chiamava Jenny, compariva una nonna bizzarra e sopra le righe, lontanissima dal modello della nonnina premurosa che prepara la merenda ai nipoti. Sia Alessandro sia la nonna sono rimasti in lievitazione per un po’ e, alla fine, li ho accolti nel romanzo, anche se li ho inseriti in un contesto nuovo e li ho fatti reagire con personaggi che non avevano incontrato nei racconti.

Di solito i lettori cercano riferimenti autobiografici nella produzione di un autore, spesso arbitrariamente. Quanto della tua storia personale è entrato nella composizione di Ai sopravvissuti spareremo ancora?

Nel protagonista, Marcello, c’è senz’altro qualcosa del ragazzo che ero io a diciassette o diciotto anni, e che in parte sono ancora: disorientato, insicuro ma a tratti altezzoso, timido e goffo ma capace di gesti coraggiosi. E il suo mondo ricorda quello in cui sono cresciuto, perché il comune di Carrara è frammentato in diverse aree residenziali che si sviluppano a valle del centro storico. La famiglia di Marcello vive appunto in una di queste schegge urbane, una bolla che è quasi una provincia nella provincia. Ecco, questo scenario è senz’altro un elemento autobiografico, ma allo stesso tempo ha una valenza più ampia. Anche altre province (si dice che l’Italia sia tutta una grande provincia…) hanno la stessa struttura, e anche le grandi città sono frammentate in zone o quartieri che hanno ciascuno una propria identità, oppure una non-identità rispetto a quella dominante del centro, sicché ogni condominio, ogni aggregato urbano fa storia a sé. Infine, come capita a Marcello, anch’io sono cresciuto in una famiglia divisa, anche se non disfunzionale, bizzarra e violenta come la sua. Questi ingredienti − crisi adolescenziale, provincia, conflitti familiari − mi sembravano allo stesso tempo abbastanza universali per essere raccontati e sufficientemente personali perché a raccontarli fossi proprio io.

Formalmente, in che modo il linguaggio cinematografico e dei media ha influenzato il tuo stile narrativo?


Qui si torna al discorso delle influenze e al problema del frullatore. Per fare un esempio, nel romanzo il film preferito di Wayne (il personaggio ereditato dal “grande Alessandro”) è un western contemporaneo con Terence Hill, intitolato Renegade − Un osso troppo duro (1987). Quel film l’ho visto davvero, non mi è piaciuto per niente e tuttavia mi ha indubbiamente “influenzato” se ci ho costruito intorno una scena del romanzo. Come molte persone, sono un consumatore onnivoro di forme narrative, perché oltre ai romanzi guardo film e serie di ogni tipo. A volte guardo anche cose che non mi piacciono ma che per qualche ragione trovo interessanti, specialmente nella costruzione dell’intreccio. Qualche giorno fa ho visto un episodio di Law & Order che aveva una sceneggiatura degna di Hitchcock. Peccato che fosse diretto male e recitato peggio. Per quanto riguarda le influenze formali, terrei conto anche di un’altra questione: a partire dalla prima metà del Novecento molta letteratura è direttamente o indirettamente influenzata dal linguaggio cinematografico. Leggere letteratura, allora, significa ricevere anche influenze cinematografiche filtrate nella letteratura stessa. Detto questo, alcune persone che hanno letto il mio romanzo hanno trovato delle analogie con Dogville di Lars von Trier,che in effetti avevo visto e apprezzato, anche se non ci stavo pensando mentre scrivevo. Poi ci sono tocchi di giallo, un genere che mi incuriosisce sia sulla pagina che sullo schermo. Negli scambi conflittuali tra i personaggi spero di essere stato efficacemente influenzato da Carnage, che non ho visto a teatro ma nella versione cinematografica di Polanski, e che considero un capolavoro: per più di un’ora quattro personaggi parlano in una stanza, senza che succeda niente di significativo e, nonostante questo, è impossibile distogliere l’attenzione da quello che si dicono e da come se lo dicono. Se nel mio romanzo − che appunto non è un romanzo costruito sulla trama ma sulle relazioni e sulla scrittura − avessi ottenuto anche un centesimo di quell’effetto, potrei dirmi molto soddisfatto.

 

© Riproduzione riservata                    «Il Pickwick», 3 febbraio 2020

 

INTERVISTE

LAMBERTI

Intervista al poeta Angelo Lamberti

 

ANGELO LAMBERTI, POETA E DRAMMATURGO 

  • Ci può parlare brevemente della sua infanzia, degli studi che ha fatto e di come è arrivato a occuparsi di letteratura?

Sono nato nel 1942, da sfollato, nel cimitero di Castel d’Ario. Al ritorno di mio padre dalla guerra, sono venute al mondo altre tre sorelline. Sono vissuto per sedici anni, con la mia famiglia, in due stanze di quel cimitero, che all’epoca era del tutto privo dei servizi idrico-sanitari. Ho conseguito il diploma di 3° avviamento (con indirizzo agrario). Sono un autodidatta. La letteratura era il mezzo più nobile per dare corpo all’immaginazione e sconfiggere la realtà.

  • Di cosa si è occupato, materialmente, per mantenere se stesso e la sua famiglia?

Mio padre era un barbiere, ma non aveva i mezzi per acquistare una bottega sua: per dignità e per principio, non ha mai richiesto la tessera di un partito. Oltre a tagliare barbe e capelli a domicilio, si ingegnava a svolgere disparati lavori occasionali: cameriere, stradino, manovale, ecc… Da parte mia, già all’età di dodici anni ho cominciato a dare il mio contributo per la sopravvivenza della famiglia, come “uomo” di fatica presso una fabbrica di zoccoli di legno (con un impegno lavorativo di 10-12 ore al giorno). All’età di trent’anni ho avviato un’attività in proprio, portando la mia ditta ad essere una delle più qualificate in campo europeo.

  • Qual è il rapporto con l’ambiente fisico e culturale in cui vive?

Vivo (anonimamente, da emarginato) a Porto Mantovano, paese di circa quindicimila abitanti. Pochissimi mi conoscono, e quasi nessuno sa del mio amore per la letteratura. E posso affermare, senza timore di smentita, che negli scaffali della biblioteca comunale non c’è neppure l’ombra di un mio libro.

  • Citi i nomi dei poeti e degli scrittori che hanno più influenzato la sua produzione…

Franz Kafka, Umberto Bellintani, Carlo Collodi, Eugenio Montale, Gesualdo Bufalino, Giorgio Caproni, Giampiero Neri, William Shakespeare, Edgard Allan Poe, Bertolt Brecht, Albert Camus, Samuel Beckett, Luis Borges, Harold Pinter, Boris Vian…

  • Quale incisività sociale e politica ritiene possa avere ancora la letteratura?

In questa vita terrena, la letteratura ha per l’uomo la stessa importanza che ha il pane. Esempio: quando l’innamorato, semianalfabeta, scrive all’amorosa dicendole: «Te voio ben…», tra lui e Petrarca, a livello di batticuore poetico e sentimentale, non c’è nessuna differenza. Colgo l’occasione per dire che la forma di scrittura più difficile è quella teatrale. Mentre la scrittura che può favorire la crescita del conto in banca (il thrilling, il noir), io non l’ho mai esercitata.

  • Quanti volumi ha pubblicato, quanti testi teatrali ha portato sulle scene e a quali di essi tiene maggiormente?

Ho cominciato tardi a pubblicare poesia, cedendo alle insistenze di Umberto Bellintani: la mia intenzione era di tenere gli scritti chiusi nel buio e nel silenzio di un cassetto. Ho pubblicato otto volumi di versi, l’ultimo, recentemente, ha come titolo Il signor Franz K.

In teatro sono state rappresentate nove mie commedie: Risciò (con Roberto Herlitzka, al teatro Sangenesio di Roma); Descrizione di una rivolta (regia di Ruggero Jacobbi); Sonnambulismo; Sicario a domicilio; Rottami; Il risveglio... (Teatro Out-Off di Milano); Boxando-boxando (Teatro Arsenale di Milano); La strategia dello scorpione (con Cosimo Cinieri e Angiola Baggi); Un gorgo di terra (Teatro Al Valle di Roma). Non ho preferenze: ogni verso, ogni poesia, ogni battuta, ogni dramma, ogni commedia sono per me un figlio al quale ho dato vita con la parola scritta.

  • Concluda questa breve intervista con un suo verso, a cui delega un particolare messaggio da comunicare a chi legge

Un sentimento simile alla felicità / mi ha trascinato al largo, / disperso in un silenzio di dune. / Col pane rimasto intatto nelle tasche…

 

© Riproduzione riservata           www.sololibri.net/intervista-poeta-angelolamberti.html

4 ottobre 2015

INTERVISTE

LANARO

Leggere di poesia: Paolo Lanaro racconta la sua esperienza di scrittore
PAOLO LANARO,
POETA E NARRATORE

 

Paolo Lanaro, nato a Schio nel 1948, vive a Vicenza. Ha insegnato filosofia nei licei e ha pubblicato sei raccolte di versi: “L’anno del secco” (1981); “Il lavoro della malinconia” (1989); “Luce del pomeriggio e altre poesie” (1997); “Giorni abitati” (2002); “Diario con la lampada accesa” (2005). La sua penultima raccolta, “Poesie dalla scala C” (L’Obliquo, 2011) è stata finalista al Premio Viareggio, al Premio Diego Valeri e ha vinto il premio Contini Bonacossi 2012.
Lanaro ha curato l’antologia “Forme del mistico” (1988) e nel 2007 ha dato alle stampe “In tondo e in corsivo”, un’antologia di saggi e interventi critici su scrittori veneti del ‘900. Da poco è uscito il suo libro di poesia “Rubrica degli inverni” presso l’editore Marcos y Marcos.

 

  • Da quale realtà ambientale proviene, e in che modo tale realtà ha influenzato le sue scelte culturali? Che influenza ha avuto nella sua formazione la tradizione letteraria veneta, e in particolare quella vicentina?

Sono nato a Schio, ho trascorso l’infanzia e la prima adolescenza a Malo (il paese di Meneghello), poi mi sono trasferito a Vicenza dove risiedo tuttora. Ho avuto un lungo rapporto di amicizia con Fernando Bandini e credo che nelle cose che scrivo ci sia qualche traccia della sua poesia, anche se, a dire il vero, chi mi ha dato il coraggio e qualche motivo fondato per scrivere poesie è stato Roberto Roversi, che conobbi nel lontano 1977. Non so quanto abbiano pesato gli autori vicentini nella mia formazione, essenzialmente Piovene, Parise e Meneghello, forse poco, forse di più di quanto io non creda. Ma non bisogna dimenticare o tacere il fatto che le letture che facciamo sono le più diverse. Nel mio caso non conta poco l’interesse e l’ammirazione che ho sempre avuto per la poesia anglosassone.

  • Attraverso quali percorsi di studio e di lettura si è avvicinato alla poesia, e quali sono i poeti classici e contemporanei a cui ritiene di essere più debitore?

Ho già parzialmente risposto, ma sarò più preciso. Intanto Orazio e un po’ il Virgilio delle “Georgiche” e delle “Bucoliche”. Poi lo Shakespeare dei “Sonetti”, Leopardi e Foscolo. E poi Montale, Sereni, Caproni, Roversi, Zanzotto. Tra gli stranieri Eliot, Auden, Larkin, Lowell, Milosz, Enzensberger.

  • Quali sono le sue pubblicazioni più recenti? Verso quale direzione si sta dirigendo la sua ricerca creativa?

Ho pubblicato nel 2014 un breve romanzo di formazione, “Una tazza di polvere”, e nel 2015 una serie di racconti-saggio sugli scrittori vicentini del ’900, “La città delle parole”. Da qualche giorno è in libreria la mia ultima raccolta di poesie “Rubrica degli inverni”, edita da Marcos y Marcos. Sto lavorando da qualche tempo a un memoir che riguarda i miei ultimi anni di servizio come insegnante.

  • Che opinione nutre della produzione poetica contemporanea nel nostro Paese? Quali sono i nomi che considera più rilevanti, e in che modo pensa si possa aiutare maggiormente a diffondere l’interesse per la poesia?

Non la conosco dettagliatamente, ma mi vengono in mente subito i nomi di Magrelli, di Pusterla, di Scarabicchi, di Cucchi, di De Angelis, di Anedda. Riuscire a moltiplicare l’interesse, oggi scarsissimo, per la poesia, non saprei proprio come si fa. Forse aveva ragione Brodskij che proponeva di andarla a vendere porta a porta, come gli aspirapolveri o le spazzole.

  • Nello scrivere versi, ritiene incidano di più le esperienze esistenziali, con i loro contraccolpi emotivi, o invece la riflessione teorica, l’ideologia, il lavoro sui testi?

No, niente ideologia. A sostenere l’importanza di questo fattore era Edoardo Sanguineti che, poi, nell’esecuzione, lo tradiva regolarmente. La poesia ha fondamentalmente, credo, dei generatori psichici e può nascere perfino dal malumore, dalla paura, dall’incoscienza. Poi c’è la costruzione, l’intervento razionale. Altrimenti non si va più in là del grido, del singhiozzo, della risata. Insomma «il dittar dentro e l’andar significando».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Leggere-di-poesia-PaoloLanaro.html

13 luglio 2016

 

INTERVISTE

LE PLURALI

INTERVISTA ALLE REDATTRICI DELLA CASA EDITRICE LE PLURALI

Come e quando sono nate “Le Plurali”, con quali finalità e prospettive?  Perché avete deciso di chiamarvi così?

Il progetto de Le plurali è nato ufficialmente a Marzo 2021 ma noi quattro ci conoscevamo già da un anno e mezzo, perché scrivevamo su uno stesso blog. Entusiaste di intraprendere un percorso nostro ci siamo guardate negli occhi di uno schermo (anche prima della pandemia eravamo infatti abituate al digitale vivendo sparse nel continente) e abbiamo pensato… perché non fondare una casa editrice nostra, femminista e indipendente? L’obiettivo era ed è grande: vogliamo pubblicare libri di autrici che alimentino il dibattito femminista, con un’ottica inclusiva e intersezionale. Vogliamo che sia un progetto che diventi sempre più grande e per fare ciò abbiamo deciso di investire le nostre competenze per tre anni durante i quali ci bilanceremo tra primi, secondi e terzi lavori. Vogliamo cercare di rendere la nostra passione un vero e proprio lavoro di cui vivere, anche in un momento in cui si parla molto di crisi del settore editoriale. Eravamo convinte del nostro progetto e ci siamo prese tempo per crearlo dalla a alla zeta, studiando, informandoci e capendo come riuscire a distinguerci per qualità del contenuto e bellezza dell’oggetto. Perché ci chiamiamo plurali? Beh, perché l’unicità di ogni storia risalta ancora di più nella pluralità delle voci delle altre donne che stanno attorno ad ognuna di noi. Ci riconosciamo del tutto nel motto “uniche ma plurali” e abbiamo anche un simbolo che vedete stampato nelle copertine dei libri: la macchia. La macchia è qualcosa che nasce magari per caso, ma che si fa notare, è quel tanto di inchiostro che dilaga sulla pagina e basta a generare parole nuove; la macchia coinvolge altre macchie per creare storie e sconvolgere i fogli su cui si è posata.

Quante persone lavorano nella vostra casa editrice, con quali compiti e ruoli, e dopo aver seguito quale percorso formativo?

Attualmente siamo in quattro: Beatrice (traduttrice ed editor letteratura straniera), Clara (editor sezione italiana, ricezione manoscritti), Hanna (grafica e impaginazione) e Valentina (ufficio stampa e comunicazione). Abbiamo compiti e ruoli diversi ma condividiamo ogni decisione, e ognuna sta infatti imparando poco per volta a sostituire l’altra quando c’è bisogno. Prima di essere colleghe siamo amiche, e questo è un elemento di coesione che ci rende il lavoro più piacevole, facile e veloce da affrontare: ci sentiamo unite e sappiamo che ognuna vuole il bene dell’altra e del progetto. E pensa te che c’è chi ancora è convinto che le donne non riescano a lavorare insieme… pazzesco! Abbiamo un background umanistico, grafico e linguistico: Bea è traduttrice professionista, Clara una ricercatrice di letteratura femminile rinascimentale, Hanna una super grafica con tanti anni di esperienza nel settore e Valentina è esperta di marketing e cinematografia. Le nostre competenze si intrecciano e hanno dato forma alle collane della nostra casa editrice: le sagge (saggistica italiana e straniera), le bussole (agili guide femministe su temi specifici), le cantastorie (narrativa contemporanea italiana e straniera) e le radici (libri di grandi autrici del passato non più ristampati o ancora inediti in Italia). La formazione è fondamentale e ognuna segue dei corsi specifici per ampliare le proprie conoscenze e metterle al servizio della casa editrice: dal digital marketing, all’organizzazione di un magazzino, all’editing.

Quanti titoli pubblicate ogni anno, quali volumi hanno avuto più successo di vendita e di critica, quali saranno le vostre prossime uscite? Credete che l’e-book possa rappresentare un’alternativa vincente rispetto al libro cartaceo?

Per ora abbiamo due titoli usciti, Girls will be girls e Lady Cinema per le collane delle Sagge e Bussole rispettivamente. Quest’anno usciranno altri due libri: Muoviamo le montagne, per la collana Radici, e Come volano le api di un’autrice emergente, per Cantastorie, e che speriamo faccia tanta strada! Girls will be girls ha avuto un bel successo, è stata tra le letture consigliate da Internazionale, menzionata ne la Repubblica e siamo già alla seconda ristampa… probabilmente dovremo procedere alla terza in poco tempo! Lady Cinema, con prefazione di Marina Pierri, pure è piaciuta moltissimo e abbiamo organizzato varie presentazioni del libro: a settembre saremo a Firenze e poi a Roma per Feminism 4, la fiera dell’editoria delle donne, e ci stiamo organizzando anche per un incontro a Milano durante Bookcity, insieme a Marina Pierri. Muoviamo le montagne promette molto bene, ci sono già molti preordini e lo porteremo al festival di Firenze Eredità delle donne del prossimo 22 ottobre. Per il 2022 abbiamo in mano tre bei romanzi inediti di autrici emergenti e non, una guida al sesso femminista, un libro che ci porterà nel mondo di una ragazza diversamente abile, canadese, e per la collana delle Radici vorremo proporre una maestra dell’horror italiana purtroppo dimenticata dalla critica. Vorremmo pubblicare almeno 8 libri il prossimo anno e abbiamo tanta carne al fuoco! Tutti i nostri libri escono sia in formato cartaceo sia in formato ebook: vogliamo andare incontro alle esigenze e le preferenze di tutt* per poter agevolare la circolazione delle idee che proponiamo. Non pensiamo che l’ebook sia un’alternativa “vincente” ma solamente un’alternativa pratica e necessaria per chi, per vari motivi, non vuole comprare cartaceo e si trova meglio ad avere le sue letture in un comodo dispositivo digitale per il quale abbiamo anche creato le portali: dei porta dispositivi in stoffa riciclata unici e plurali!

Che importanza ritenete abbiano i festival letterari, le letture pubbliche, gli incontri con gli autori nell’incoraggiare la sensibilità femminista, nel far crescere una coscienza civile responsabile e democratica, nel favorire l’interesse per l’“oggetto libro”?

I festival, gli incontri e le letture pubbliche sono fondamentali: cerchiamo di bilanciare la presenza online, pressoché costante, e incontri in presenza con le autrici e le prefatrici dei libri che pubblichiamo. Valentina, ad esempio, avrà un bel po’ di impegni nel presentare Lady Cinema e già si parla di incontri mensili e di un cineforum nel quale la nostra Vale metterà in pratica ciò che propone nella sua bussola sul cinema femminista. Metterci la faccia, discutere, fare gruppo ci unisce e alimenta la pluralità che ricerchiamo per un femminismo inclusivo, pluricromatico, con le ovaie o senza! Portare fisicamente l’attenzione al libro, anche come oggetto, che curiamo nei minimi dettagli, punta l’accento sulla bellezza della carta stampata, qualcosa che rimane per sempre e non si perde nell’onda informatica.

Come pensate di poter raggiungere un pubblico più vasto, in futuro, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione?

Con la scelta di contenuti intelligenti, accattivanti e con libri che, oltre ad una bella copertina, portino anche dei temi sostanziosi, impegnativi ma in modo ironico e leggero. Nel mare magnum vogliamo distinguerci stimolando la curiosità, proponendo autrici talentuose e anche testi e saggi accademici. Tutto ciò ci riporta all’importanza di ascoltare chi ha qualcosa da dire, anche se diverso dal nostro modo di pensare.

 

(Per la redazione ha risposto Clara Stella)   info@lepluralieditrice.net

«Gli Stati Generali», 10 settembre 2021

INTERVISTE

LEARDINI

Promuovere la poesia nel 2015: intervista a Isabella Leardini

ISABELLA LEARDINI, POETESSA E OPERATRICE CULTURALE

Isabella Leardini, nata a Rimini nel 1978, ha vinto nel 2002 per la sezione inediti il Premio Montale. Inclusa in diverse e importanti antologie, ha pubblicato nel 2004 «La coinquilina scalza» per le edizioni «La Vita Felice» di Milano. Ha creato il Festival Parco Poesia, di cui è tuttora direttore artistico, con il lodevole intento di promuovere la diffusione della poesia tra i giovani.

  • Qual è stata la tua formazione culturale e secondo quali modalità ti sei avvicinata alla poesia?

Dopo il classico ho studiato lettere all’Università di Bologna. Alla fine degli anni ’90 molti tra i migliori professori dell’ateneo dedicavano proprio alla poesia del ‘900 il loro corso. La mia scelta è stata frequentarli tutti, mi interessavano la critica e la storia della poesia del ‘900 italiano: Alberto Bertoni e Roberto Galaverni in questo sono stati punti di rifermento per me. Nello stesso tempo frequentavo tutte le iniziative e i laboratori del Centro di Poesia Contemporanea, avevo la possibilità di incontrare molti poeti italiani e internazionali. La poesia però era arrivata molto prima, si può dire che sia stata la prima cosa che sono riuscita a leggere e a scrivere.

  • Quali sono i tuoi riferimenti letterari e i percorsi di scrittura che più ti hanno influenzato? Quali tra i poeti italiani, più e meno giovani, senti più vicino alla tua sensibilità?

In fatto di letteratura come nella vita sono una di pochi ossessivi amori. Nella mia strana mania poetica infantile c’era Pascoli, nell’adolescenza Pavese. Sereni è stato l’ autore più amato, e nella scrittura del mio primo libro è entrato in cortocircuito con la Achmatova e con Milo De Angelis, che ne è stato l’interlocutore principale. Edna St. Vincent Millay, Elizabeth Barrett Browning, Cristina Campo, Emily Dickinson sono state determinanti per il mio secondo libro, Marianne Moore e anche Antonio Riccardi per quello appena iniziato che sto scrivendo. Tra i coetanei ho notato che trovo molta più affinità con poeti che lavorano anche con la narrativa.

  • Puoi raccontare brevemente la tua esperienza di organizzatrice di eventi poetici? In quali difficoltà ti sei imbattuta e quante soddisfazioni hai avuto nella progettazione di Parco poesia?

Ho iniziato ad organizzare a 23 anni con un ideale: portare i maestri e i coetanei che avevo incontrato in un festival che fosse anche un po’ una festa, ma che diventasse un servizio per i giovani che come me scrivevano, un luogo in cui iniziare un percorso serio e sfuggire dall’editoria a pagamento. Credevo di fare qualcosa di innocuo, una specie di gita scolastica, invece ho scoperto presto la vasta gamma delle meschinità letterarie. Le conosco quasi tutte, le so interpretare, dimenticare e ricordare al momento giusto. A me però piace perfino l’aspetto marziale del mondo della poesia, sono un po’ artemidea in questo; e mi appassiona la sociologia della letteratura.
Ballare come una salamandra nel fuoco – mi sono sempre vista un po’ così, perché la mia scrittura per me è in un altrove intoccabile, poesia e organizzazione sono due polarità separate.
Se mi chiedi perciò quali sono le difficoltà te ne dico due: la prima è quando ti accorgi che per te non è una festa ma un lavoro e che anche gli amici si dimenticano di dirti dove vanno a bere, mentre tu sistemi ancora le cose. La seconda è quando non avere i fondi ti toglie la libertà di fare una cosa bella in cui credi e ti costringe a fare una qualcosa che non ti convince: questa è la cosa più dolorosa.
Oggi dopo 13 anni ho realizzato il sogno iniziale; le soddisfazioni sono poche ma profonde: il realizzare un luogo che per i ragazzi ha qualcosa di magico e che getta dei semi, fa nascere cose durature. L’amicizia con cui i poeti che stimo di più si sono messi in gioco accanto a me. E poi anche la consapevolezza di aver creato qualcosa che in qualche modo ha influito sulla poesia contemporanea.

  • Perché ritieni che in Italia si legga poco la poesia e come rimediare a questa mancanza?

Perché i poeti credono che il problema non siano i pochi lettori ma i troppi poeti: considerano fastidiosi dilettanti quelli che invece sono i loro potenziali lettori. Tre milioni di potenziali lettori salverebbero il mercato editoriale della poesia se iniziassero a leggerla. Credo che il rimedio sia nel trasformare in lettori di poesia contemporanea coloro che si dilettano a scrivere anche nel modo più amatoriale. Lo si può fare solo incontrandoli, mostrando loro che la poesia contemporanea ha a che fare con quello che scrivono e che leggendola potrebbero perfino scrivere meglio. E farlo con le nuove generazioni è un’esperienza bellissima.

  • Ci parli delle tue pubblicazioni e di quello che hai in cantiere, magari concludendo con qualche tuo verso che ti sta particolarmente a cuore?

Il mio primo libro è uscito nel 2004 per la collana Niebo, che in quegli anni Milo De Angelis curava per La Vita Felice. Racconta la giovinezza attraverso un amore non rivelato che ha le sue radici nell’adolescenza. Cercavo di raccontare l’amore non corrisposto come atto conoscitivo nella quotidianità, e volevo farlo con un libro che non temesse il più lirico dei temi, in cui ogni singolo testo fosse autonomo, ma con una struttura narrativa dell’insieme. La coinquilina scalza è stato un libro fortunatissimo, si è creato quasi subito un pubblico anche al di fuori del circuito di chi legge poesia. Era già alla seconda edizione quando nel 2007 una poesia è stata pubblicata sulla rivista femminile più letta in Italia. Dopo pochi giorni quel testo rimbalzava online su blog e forum e tutt’ora non smette di diffondersi da sé su tutti i social network. Le ragazze che hanno amato quella poesia hanno cercato il libro e lo hanno comprato, dimostrando che quando la poesia esce dai suoi confini, incontra anche nuovi lettori capaci di diventare fedeli. Dopo 12 anni dall’uscita il libro è stato ristampato molte volte e le persone non smettono di scrivermi, mi sono arrivate lettere bellissime, in tanti mi hanno raccontato come la mia poesia abbia attraversato le loro vite. Uno di questi lettori è stato il cantautore Vasco Brondi, che ha citato i miei versi in alcune canzoni dell’ultimo album delle Luci della centrale elettrica. Nella prima settimana il disco era già primo in classifica, e così la fortuna della coinquilina sembra continuare a incontrare lettori. Nel frattempo sono uscite diverse poesie in due antologie molto importanti, Les Poètes de la Méditerranée per Gallimard, in cui sono la più giovane dell’intero libro accanto a grandi nomi della poesia internazionale e Nuovi Poeti Italiani 6 di Einaudi. In questi anni ho lavorato al mio secondo libro  Una stagione d’aria, che considero il mio più importante: è finito già da un po’ e spero di poterlo presto pubblicare. Nel frattempo, dopo un lungo silenzio, ho iniziato a scrivere anche qualcosa di nuovo, sono solo pochi testi ma già di un altro passo.

 

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1 dicembre 2015

 

INTERVISTE

LECOMTE

MIA LECOMTE, FONDATRICE DELLA “COMPAGNIA DELLE POETE”
INTERVISTE

MACCARI

Alida Airaghi intervista Paolo Maccari

 

PAOLO MACCARI, POETA E CRITICO LETTERARIO

Paolo Maccari è nato a Colle Val d’Elsa (Siena) nel 1975. Ha pubblicato Ospiti (Manni 2000, con prefazione di Luigi Baldacci – Premio Bagutta Opera Prima), Fuoco amico (Passigli, 2009) e Contromosse (Con-fine, 2013). Suoi testi poetici sono apparsi in riviste e antologie. Come critico letterario è autore di una monografia su Bartolo Cattafi, Spalle al muro (Sef, 2003) e di un volume su Dino Campana, Il poeta sotto esame (Passigli, 2012). Dirige con Valerio Nardoni la sezione poesia Valigie rosse del Premio Piero Ciampi.

  • Qual è stata l’importanza, per la sua scrittura, dell’ambiente toscano in cui è nato e cresciuto?

È oggettivamente difficile stabilirlo. Intanto bisognerebbe restringere il significato di “ambiente”. Se si intende quello culturale, la Toscana, e segnatamente Firenze, sono stati per me importantissime. La nozione di toscanità – laddove significhi bozzettismo, arguzia bonaria, religione del ricordo addomesticato e ben composto ecc… – mi repelle. Repelleva, d’altronde, anche agli scrittori toscani che più mi piacciono e ammiro: Tozzi e Pea, per esempio, o certo Bilenchi, o Bianciardi. E quella stessa nozione, per arrivare all’oggi, ha indubbi avversari in toscani come Giacomo Trinci, poeta che unisce una sua assolutezza di canto con interferenze umorali della nostra contemporaneità, e in Attilio Lolini, che secondo me è uno dei più grandi poeti viventi.

  • Attraverso lo studio di quali poeti e narratori si è avvicinato alla letteratura?

Non ho un percorso originale. Ho iniziato a leggere seriamente verso i quattordici anni, iniziando, come tanti, dall’Ottocento: Poe, Baudelaire, i Russi ecc…

  • In che modo la sua attività di critico letterario influenza la sua produzione poetica?

Chi lo sa: non è lo stesso leggere liberamente o leggere con la prospettiva di rendere conto pubblicamente della propria lettura. Sono, si sa, due livelli diversi e non è detto che uno sia più profondo dell’altro. Come si depositi una certa modalità di lettura nella nostra memoria e nella nostra sensibilità è difficile stabilirlo. Poi, ho avuto la fortuna di impegnarmi professionalmente quasi soltanto su autori che mi piacevano, in alcuni casi – come Cattafi o Raboni – che amavo molto. A volte mi dispiaceva quasi doverne scrivere perché mi pareva di dover definire emozioni che avrei preferito lasciare in uno stato felicemente informe, come è spesso la sincera ammirazione, che lascia perdere le proprie ragioni e si contenta di se stessa.

  • Di cosa si sta occupando attualmente, sia a livello professionale, sia creativamente?

Sul piano professionale, e dopo molti anni, di niente. Leggo quel che mi pare (se interessa, al momento Chiamalo sonno di Henry Roth: un grande romanzo che non conoscevo), prendo appunti che non mi serviranno. Non so quanto continuerà questa condizione, che in un certo senso mi spaventa perché asseconda uno dei miei peggiori e più disperanti tratti caratteriali, cioè la pigrizia. In astratto, mi attira l’idea di tornare a recensire o a scrivere brevi saggi sulla letteratura contemporanea. Per un periodo l’ho fatto: è stancante, ma restituisce un po’ il senso di un interesse autentico per l’esistenza, nel suo farsi e primo apparire, che è comunque vitale, al di là del panorama su cui il destino ci impone di posare gli occhi.

  • Qual è la sua opinione sul panorama letterario italiano contemporaneo, e quali autori in prosa e in versi predilige tra i più giovani? Ritiene che i vari festival e saloni del libro abbiano una funzione positiva nel promuovere la lettura?

La prosa la conosco pochissimo e non so giudicarla. Vado un po’ meglio con la poesia, ma le poche volte che mi capita di parlare con amici informati davvero mi rendo conto che il mio è uno sguardo parziale e lacunoso. In ogni modo, posso dire che leggo volentieri alcuni miei più o meno coetanei, che tra l’altro sono risultati vincitori del Premio Ciampi poesia: Matteo Marchesini (di cui ammiro anche la produzione critica e narrativa), Andrea Inglese, Italo Testa, Francesco Targhetta, Azzurra D’Agostino. Molti altri poeti, anche qui a Firenze, scrivono cose interessanti (mi viene in mente tra gli altri, anche perché è uscito di recente con un nuovo libro, Marco Simonelli). Tra i più giovani, recentemente ho letto alcune poesie molto belle di Lorenzo Mari. Tra i cinquantenni, Paolo Febbraro, di cui sta per uscire un libro di racconti da Pendragon, lo seguo con partecipazione da molti anni.
In quanto ai festival e ai saloni del libro: non sono mai stato a un salone del libro, e non so valutare la sua efficacia nel promuovere la lettura, mentre quella dei festival mi pare limitata e soprattutto impegnata a evangelizzare chi è già un fedele devoto.
Siccome insegno a scuola, dovrei ora dire che decisiva è la scuola. Ma non sono sicuro nemmeno di questo. Vedo ragazzini che non leggono anche a fronte di grandi sforzi del professore e altri che leggono nonostante gli sforzi involontariamente contrari di un altro professore. Inoltre, guardo con sospetto al pregiudizio per cui l’importante è leggere, avvicinare alla lettura, abituare alla lettura, perché il lettore abitudinario dopo aver accumulato una libreria di paccottiglia finirà per avventurarsi nella lettura di Joyce o di Pound. Come non è vero che i consumatori di droghe leggere prima o poi passeranno a quelle pesanti, non è vero nemmeno che, in questo caso, debba avvenire il salto di qualità. Anzi, il più delle volte chi inizia male – se non è stornato da motivi di studio o da incontri fortunati – continua beatamente male.

  • Crede esista un pubblico della poesia, oggi, o i poeti sono letti solo dai poeti?

Ogni tanto mi capita di incontrare qualche lettore di poesia innocente, che non la scrive e non ne scrive. Sono creature quasi leggendarie, che quando vengono avvistate sono cinte da uno stupore ammirato e incredulo. Si pensa che, sotto sotto, la loro immacolata scrivania abbia un cassetto con il doppiofondo, e lì riposino le prove peccaminose del vizio: fogli scritti andando a capo. Invece no: esistono, sono pochissimi ma esistono. E probabilmente ne esisterebbero molti di più se fosse incrementata la forma meno elitaria e autoreferenziale di diffusione della poesia, vale a dire la pubblicazione seria di opere poetiche, in collane accreditare, con un buon ritmo di uscita, con un’adeguata distribuzione e un investimento promozionale abbastanza convinto. Certo, detta così sembra un’utopia, ma ricordo un articolo di Raboni – uno che le regole del gioco editoriale le conosceva benissimo e dall’interno – in cui si diceva all’incirca questo: gli editori non credono nella poesia e per lei non si prendono nessun rischio, ne deriva che la poesia non si vende, pertanto gli editori ci credono ancora meno ecc… Sicuramente a invertire la rotta non bastano gli editori piccoli o medi che rappresentano le proverbiali eccezioni, né le operazioni strombazzate dei grandi che ciclicamente scaraventano in edicola i soliti classici. Ci vorrebbe un’operazione in forze, che contempli tempi medio-lunghi. Tempi completamente sfasati rispetto al nostro, ed ecco che si torna a una prospettiva utopica che non promette avveramenti. Ma non saremmo uomini di oggi se non lamentassimo la decadenza della poesia, il suo poco seguito, la sordità dei nostri contemporanei.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/PaoloMaccariintervista.html     21 marzo 2016

INTERVISTE

MADERA

ROMANO MÁDERA, FILOSOFO E PSICANALISTA

Romano Màdera è stato professore ordinario di Filosofia morale e di Pratiche filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fa parte delle associazioni di Psicologia Analitica italiana e internazionale, del Lai (Laboratorio analitico delle immagini, associazione per lo studio del Gioco della sabbia nella pratica analitica) e della redazione della Rivista di psicologia analitica. Ha chiamato la sua proposta nel campo della ricerca e della cura del senso analisi biografica a orientamento filosofico e ha fondato la Società degli Analisti Filosofi (Sabof).
Tra le sue pubblicazioni: “L’animale visionario” (Il Saggiatore, 1999); “Il nudo piacere di vivere” (Mondadori, 2006); “La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica” (Raffaello Cortina, 2012); “Carl Gustav Jung”, (Feltrinelli, 2016); “Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche” (Mimesis, 2018).

  • I suoi interessi culturali erano rivolti alla filosofia già ai tempi del liceo, nutriti da quali letture, e indirizzati verso quali obiettivi?

Al liceo ho incontrato Cesare Revelli, il mio professore di filosofia e storia. È lui all’origine della mia vocazione alla filosofia, ad una filosofia capace di farci capire il mondo cercando di cambiarne le strutture materiali e culturali che contrastano le possibilità di espressione e di sviluppo delle qualità umane di solidarietà e di ricerca di senso.

  • Quali sono stati gli incontri a livello personale e intellettuale che più hanno segnato il suo carattere e le sue scelte esistenziali e professionali?

Cesare Revelli, come ho già detto, Giovanni Arrighi, amico e studioso di macrosociologia storica, Paolo Aite, il mio primo analista, Carlo Enzo, un grande e misconosciuto esegeta delle Scritture ebraiche e cristiane. Sul piano delle letture, anche se con Pierre Hadot ci siamo scambiati qualche lettera, direi Karl Marx, Nietzsche, Jung, Hadot appunto, Lucrezio, Epicuro, Leopardi, Dostoevskij, Tolstoj… Ovviamente per me la “Bibbia”, Merton, Thich Nhat Hahn…. Potrei continuare per molto, il mio motto è: “imparare da tutto, imparare da tutti”.

  • Quando e in che modo le strade della filosofia e della psicanalisi si sono incrociate nella sua formazione?

Da molto giovane. Ero l’ultimo figlio di quattro. Ho imparato molto dai miei fratelli e da mia sorella. Già a sedici-diciassette anni avevo scelto filosofia perché volevo fare psicoanalisi, poi la militanza politica ha interrotto per un po’ la sequenza, infine la crisi esistenziale e politica intorno al 1973-75 mi ha dato la spinta decisiva a incominciare l’analisi e, cinque anni dopo, il training analitico.

  • La sua è una ricerca non solo filosofica, ma anche spirituale. In che maniera l’ha nutrita e continua ad approfondirla?

La mia è una filosofia come modo di vivere, implica esercizi spirituali quotidiani, quelli antichi e quelli nuovi. La mia sensibilità è sempre stata fortemente religioso-spirituale, a un certo punto sono entrato nella Chiesa Valdese, però frequento i monaci camaldolesi e altri amici cattolici. Ho visitato monasteri buddisti come quello in Francia di Thich Nath Hahn e ho imparato e seguo tuttora alcune delle meditazioni che ho imparato, per due anni ho seguito le pratiche dello Dzogchen insegnate da N. C. Norbu. Ma in definitiva ho piano piano dato forma a una disciplina tagliata su misura – come teorizzo per altri che vogliano inserirsi in questo modo di realizzare una spiritualità laica, cioè aperta a variazioni sulla base di scelte di fondo individuali – e fatta da diversi esercizi filosofici, da pratiche meditative, dalla preghiera e dalla lettura, da momenti di riflessione e di pratica autoanalitica.

  • Tra il suo lavoro di psicanalista e quello di studioso e docente universitario quali sono i maggiori punti di incontro e di attrito?

Considero l’insegnamento solo una parte di un esercizio, la lezione e parzialmente qualcosa del dialogo, ai quali manca il contesto della filosofia come pratica di vita. Comunque studiare accademicamente può essere un buon esercizio se lo si fa cercando di servire la ricerca della verità e non la propria ambizione di riuscire e di apparire. Può essere anche una scuola di umiltà e di pazienza. Poi ho sempre provato a far entrare in università un diverso modo di concepire e di praticare lo studio e il confronto, per esempio con la formazione dei seminari aperti di pratiche filosofiche che non hanno alcuna funzione curriculare. Ho sempre avuto difficoltà nel momento degli esami, ho cercato di sperimentare forme diverse, ma ci sono riuscito solo all’Università della Calabria dal 1978 al 1982, quando era un vero campus. Anche nel lavoro di tesi avevo sperimentato nuove forme, poi le ho raffinate e trasportate nella prova finale della scuola in analisi biografica a orientamento filosofico che dal 2006 vive a Philo a Milano. E adesso qualcosa del genere proviamo anche nella scuola Mitobiografica, un tentativo di cercare il senso della vita e del sapere in un gruppo di sodali, senza altro scopo che l’espressione e la comunicazione di questa esperienza di ricerca.

  • Di quale tra i suoi libri si sente più soddisfatto e orgoglioso, e a cosa sta dedicando attualmente la sua ricerca?

Il mio preferito è “Dio il Mondo” uscito per Coliseum nel 1989 allora diretta da Nanni Cagnone, del quale sono poi diventato amico, uno dei più intensi poeti italiani contemporanei. L’ho scritto dal 1980 al 1985, l’ho dovuto accorciare di molto per renderlo pubblicabile, ma è un primo tentativo di mia Mitobiografia. Poi “La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica” che è ad oggi la sintesi più riuscita del mio tentativo di pensiero e di pratica.
Da trenta anni cerco di trovare il varco e il tempo per scrivere un testo che parli della mia analisi, delle immagini delle sabbie di allora soprattutto, dentro il contesto storico biografico e con una rilettura del mito cristiano… e poi anche qualche nota teorica su psicoanalisi e analisi biografica a orientamento filosofico dopo “La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica”. Come si vede è troppo e per questo chissà se riuscirò mai a scriverlo.

 

 

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Intervista-a-Romano-Madera.html            23 marzo 2018