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INTERVISTE

NACCI

INTERVISTA AL PROFESSOR BRUNO NACCI

Bruno Nacci ha curato classici della letteratura francese, si è occupato in particolare di Blaise Pascal, di cui ha scritto il saggio biografico La quarta vigilia. Gli ultimi anni di Blaise Pascal (La Scuola di Pitagora, 2014). Ha scritto il noir storico L’assassinio della Signora di Praslin (Archinto, 2000), cronaca di un fatto di sangue che sconvolse l’aristocrazia parigina nella prima metà dell’Ottocento. Con Laura Bosio ha scritto i romanzi storici Per seguire la mia stella (Guanda, 2017), sulla vita della poetessa lucchese del Cinquecento Chiara Matraini, e La casa degli uccelli (Guanda, 2020), che racconta un fosco episodio avvenuto durante la Rivoluzione francese nel periodo del Grande Terrore. Ha pubblicato le raccolte di racconti La vita a pezzi (Solfanelli, 2018) e Dopo l’innocenza (Solfanelli, 2019), tranches de vie di inquiete solitudini urbane. Da fine settembre è in libreria con Destini. La fatalità del male (Ares, 2020).

  • Attraverso quale percorso di studi è arrivato a occuparsi di letteratura e in che modo l’ambiente familiare e sociale in cui è cresciuto ha assecondato i suoi interessi culturali?

Come molti, sono sempre stato attratto dalla letteratura fin da bambino, quando passavo interi pomeriggi ad ascoltare racconti recitati alla radio e poi li ripetevo a mia mamma. E ho trascorso ogni momento libero a leggere. Ecc. Niente di particolarmente originale. In casa mia non c’erano libri, o pochissimi. Ma mio padre ha sempre assecondato la mia inclinazione prendendo in prestito presso la società in cui lavorava le serie di Salgari. Anche in questo, credo di avere avuto una precoce attrazione per la letteratura, ma non poi così rara.

  • Quali autori hanno avuto un ruolo preponderante nel plasmare la sua disposizione intellettuale ed etica?

La letteratura greca ha avuto un peso predominante, e in seguito i grandi pensatori da Montaigne a Leopardi. Ho amato gli scrittori russi e francesi, che mi aprivano la mente sui temi dell’esistenza ma lasciavano anche trasparire l’esistenza di altri mondi, oltre a quello piccolo borghese in cui ero nato.

  • Cosa le ha lasciato in eredità la sua lunga esperienza di insegnante? Come giudica lo stato attuale delle istituzioni scolastiche italiane?

Sarebbe meglio chiedere se ho lasciato in eredità qualcosa io ai miei studenti… Ma sì, al di là delle banalità che si possono dire al proposito, credo di essermi fatto degli amici devoti nel corso degli anni. Ho sempre considerato la scuola come un luogo di amicizia, senza inutili confusioni di ruoli. Non voglio giudicare la scuola di oggi. Invecchiando si contrae una brutta malattia, che consiste nel cogliere del presente solo gli aspetti negativi paragonandoli a quelli positivi del passato. Finché ci saranno giovani e adulti che si occupano di loro, la scuola sarà sempre la scuola, cambieranno i modi, le leggi, i regolamenti, ma… Per il resto, gli incapaci c’erano una volta e ci sono anche adesso. Auguro a ogni ragazzo di trovare sulla sua strada un autentico maestro, come è capitato a me, che è il bene più prezioso che si possa desiderare.

  • In un volume del 2014 ha compiuto un’indagine sul carattere degli italiani, aldilà degli stereotipi e delle retoriche. Nel periodo difficile che stiamo vivendo, il suo giudizio sul nostro paese rimane ancora sostanzialmente positivo? E vale anche per ciò che riguarda la politica, la cultura, l’universo dei media?

Allora, con Laura Bosio, avevamo cercato di dare voce, dall’unità a oggi, all’Italia nascosta, quella che non ruba, che non vive di esibizioni pacchiane, il contraltare insomma dell’italiano furbo e cialtrone reso magistralmente da Alberto Sordi e tanti altri registi e attori della commedia all’italiana. Quell’Italia c’è, l’altra Italia appunto. Fatta di serietà, buon senso, capacità di guardare in modo costruttivo al bene comune. Se così non fosse, il nostro paese sarebbe scomparso da tempo. Purtroppo l’avvento dei cosiddetti social, la presenza ossessiva della televisione anche come veicolo di prodotti che vengono da lontano, e un certo degrado dei costumi, non in senso moralistico, ma morale, appanna lo sforzo di chi sa mantenere la schiena diritta e cercare soluzioni positive. Faccio mia la riflessione di Musil, secondo cui la differenza tra il mondo di ieri e quello di oggi non consiste nel fatto che in quello di ieri ci fossero meno stupidi che in quello di oggi, ma che un tempo a nessuno sarebbe venuto in mente di dire che uno stupido è una persona intelligente o di valore.

  • Nel passare dalla traduzione e curatela di classici alla scrittura personale, quali difficoltà o supporti ha trovato?

La domanda avrebbe senso se io avessi effettivamente seguito un percorso cronologico. Ma così non è. Ho sempre affiancato al lavoro letterario e editoriale la ricerca della scrittura, le due passioni sono andate parallelamente. Però è vero che la traduzione, in particolare, mi ha insegnato molte cose. Seguire passo passo i grandi scrittori, significa affinare la capacità di esprimere con precisione l’esperienza e i sentimenti, con la massima sobrietà. Ciò che mi colpiva e mi colpisce ancora, è l’economia di mezzi espressivi dei maestri. Non so bene cosa sia lo stile, ma ciascuno di loro trova la sua strada nel rigore e nel controllo assoluto della lingua, che vuol dire poi anche del pensiero.

  • Il suo ultimo libro affronta il problema del male nelle sue origini, scopi, conseguenze. Si tratta di un tema che ricorre anche in altre sue opere di narrativa? Unde malum, si chiedeva Agostino. E potremmo aggiungere, cur malum? A questa domanda che l’umanità si pone da sempre è riuscito a dare una risposta che esuli dal campo strettamente religioso?

 

Non ho alcuna pretesa di dare una risposta chiara ed esaustiva. Sia in La vita a pezzi che in Dopo l’innocenza, le precedenti raccolte di racconti, mi sono sforzato di comporre una specie di fenomenologia quotidiana del male, descrivendolo nelle minime pieghe di vite comuni, del tutto anonime. In quest’ultima raccolta ho scelto invece di prendere esempi grandi, noti, perché, come osservava Platone, nelle cose grandi puoi vedere meglio riflesse quelle piccole. E soprattutto volevo accostare il male senza attribuirlo a forze misteriose o che per lo più non ci riguardano, come la follia o la perversione. Parlando di grandi malvagi, prima o dopo il tempo in cui si distinsero per i loro crimini, volevo alludere al fatto che non esistono mostri, e che ciascuno corre costantemente il rischio di diventare come loro.

© Riproduzione riservata      9 dicembre 2020

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INTERVISTE

NOTA

Intervista a Davide Nota: editore, poeta, narratore
DAVIDE NOTA: POETA, EDITORE, CRITICO LETTERARIO

 

Davide Nota è nato nel 1981 a Cassano d’Adda, in provincia di Milano. Da sempre residente ad Ascoli Piceno, si è laureato in Lettere moderne a Perugia nel 2007. Nel 2011 ha fondato la casa editrice Sigismundus. Ha pubblicato i libri di poesia “Battesimo” (LietoColle, 2005), “Il non potere” (Zona, 2007) e “La rimozione” (Sigismundus, 2011), ora raccolti in unico volume rivisto e corretto sotto il titolo “Il non potere” (2014), e il libro di racconti “Gli orfani” (Oèdipus, 2016). Vive e lavora tra le Marche e Roma.

 

  • Entro quali orizzonti, familiari e ambientali, è avvenuta la tua formazione culturale?

Ho passato lʼinfanzia tra libri di avventura e fantasia, in una casa per lo più satura di volumi di storia e filosofia politica. Nella prima adolescenza, grazie a un magico insegnante di nome Tonino DʼIsidoro, ho amato Kafka, Edgar Allan Poe e Baudelaire, i primi custodi di un regno sotterraneo che avevo sete di scoprire. Qui inizia il labirinto e ogni labirinto conduce a una caverna. Così è arrivata infatti la poesia di Rimbaud, e lʼiniziazione ha raggiunto il suo vertice, vale a dire la vocazione e la trasfigurazione solitaria da adolescente a poeta.
Yeats, Ezra Pound, Trakl, Rilke, Keats, Joyce, sono a seguire. Così gli italiani: Foscolo, Pascoli, Corazzini, Campana, Roversi. Cito giusto i più determinanti in una formazione. Ma le influenze sono sempre frutto di una sovrapposizione di elementi discontinui. Dislivelli. Pasolini, Carmelo Bene, Burroughs, mi hanno abitato, sono rimasti. Umberto Saba e Jim Morrison, Don De Lillo e Céline, una raccolta di frammenti orfici, curata da Reale, e la poesia dei provenzali, fino alla scuola siciliana (Jacopo da Lentini!). Amelia Rosselli e Philip K. Dick oggi mi chiamano. Mi stanno parlando. Amo leggere opere di filosofia estetica, teologia e in maniera occasionale scienza e nuova fisica (divulgativa). Ma ormai non le considero più separazioni di genere, tutto mi appare come espressione e visione.
Ad ogni modo il polittico originario, la pala dʼaltare (rimanendo nella nostra metafora sacra) rimane così incisa: Poe, Baudelaire, Rimbaud, Kafka (con Rimbaud in alto, a corona).

  • Quali sono i poeti e gli scrittori che senti più vicini alla tua sensibilità, quelli a cui ritieni di dovere particolare gratitudine?

Devo gran parte della mia formazione a Gianni DʼElia, maestro di stile, di metro e di coscienza estetica e filosofica. Grazie a lui sono stato accolto nella Libreria Palmaverde di Roberto Roversi. Se DʼElia è infatti il maestro, Roversi è lʼantenato. Quando talvolta nella mia scrittura si incontra la figura ambigua dell’antenato (che quasi sempre parla, pronuncia parole, rivela) penso a unʼanima grande e antica che in parte ha il carattere di Roberto Roversi e in parte quello di mia nonna Maria Alboini, seconda elementare e una vasta saggezza. Lei mi ha insegnato a parlare con le piante attraverso il tatto, ad occhi chiusi, sotto il sole. Tra i viventi ascolto inoltre con profonda partecipazione lʼopera di Eugenio De Signoribus.

  • Quando e come hai deciso di fondare la casa editrice “Sigismundus” e perché l’hai chiamata così? Ci puoi illustrare brevemente la sua attività?

Sigismundus era unʼiscrizione latina che appariva sulla porta in travertino del piccolo negozio alimentari di mia nonna, nel centro di Ascoli Piceno. Un saluto, dunque, alla sua luminosa assenza. Unʼeredità spirituale, forse. Un continuare il cammino. La Sigismundus è una piccola officina editoriale di poesia, prosa dʼarte e pensiero estetico attraverso cui nel 2011 ho trasformato in un piccolo mestiere artigianale lʼattività che già svolgevo da anni con la rivista di poesia e realtà “La Gru”, vale a dire curare e diffondere una certa idea di poesia, che non abbia paura di essere filosofica né di essere sentimentale, che non si inchiodi alle estetiche egemoni di ricerca museale o di lirica domenicale e pensi piuttosto a spalancarsi come la rosa dei Sonetti a Orfeo di Rilke al sole feroce del giorno quanto allo sgomento orrore delle notti.

  • Quali sono le tue pubblicazioni e a cosa stai lavorando attualmente? Ti senti più attratto dalla produzione in versi o in prosa?

Ho pubblicato tre capitoli di poesia dal titolo Battesimo (2005), Il non potere (2007) e La rimozione (2011), ora gratuitamente consultabili dal mio blog (dadonota.wordpress.com). Recentemente per Oèdipus è uscito un libro di racconti, Gli orfani (2016). Dal 2015 sto lavorando invece a Endimione, un poema pluristilistico e che amo definire porno-teologico, in cui si alternano capitoli di prosa lirica, con personaggi, dialoghi e scene incisi nellʼordito semantico piuttosto fitto, e sezioni di poesia. Credo mi occuperà per anni. Ne consegue che non faccio alcuna distinzione fra i generi. In entrambi i casi si tratta di scrittura ritmica, di ispirazione musicale.

  • Cosa pensi del mondo letterario italiano? Ritieni ci sia possibilità per le voci più giovani e originali di emergere e a quali condizioni?

Oggi temo non vi sia possibilità per nessuno se non di attraversare il deserto storico trasportando con sé qualche vecchio baule tarlato. Forse piuttosto è questa la grande possibilità. Non essere invischiati in trame non nostre, in ambienti che ci deformano, in forme di stima ricattatorie. Dopo la traversata apriremo i bauli e vedremo quali saranno i tesori.

 

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/Intervista-a-DavideNota.html     6 maggio 2016

INTERVISTE

PALMA

5 domande a Leda Palma
LEDA PALMA: ATTRICE, REGISTA, POETA

 

Leda Palma ci parla del suo rapporto con la parola scritta e recitata, con la lingua popolare e colta, con i diversi ambienti in cui è cresciuta, si è formata intellettualmente e ha operato artisticamente.

  • In quale realtà familiare e ambientale è cresciuta e si è formata culturalmente?

Famiglia piccolissimo-borghese di 5 persone (genitori e tre sorelle) che arrancava con un solo stipendio, quello del padre impiegato comunale, in un paese contadino, di poche anime, dove l’orto era sudore e trepidazione, l’italiano una lingua da imparare a scuola. Borgo, parrocchia, lo spazio domestico. “Tre figlie, tre maestre”, sosteneva mio padre, che ha dato tutto se stesso perché potessimo diplomarci. L’università un sogno, troppe tasse; o lavori e studi, altrimenti fai la maestra in un paesino qualunque di montagna. Per le donne l’unica via d’uscita dalla casa oltre al matrimonio. Questa prospettiva non mi si addiceva, io amavo il teatro, a scuola mi chiamavano sempre a leggere poesie; da dove scaturiva questa passione, mistero. Forte il desiderio di evadere, di fuggire da quella realtà sonnolenta e arcaica. Per fortuna a Udine esisteva un nutrito e preparato gruppo teatrale, riuscii a infilarmici e lì mise radici forti e stabili la mia professione futura, che divise il mio paese in due: metà mi bollò, l’altra metà rimase a guardare. Primo contratto con il Teatro Stabile di Bolzano ovvero L’Ultimo Carro di Tespi, diretto da Fantasio Piccoli. Mi addentrai nella poesia durante una lettura al premio Cittadella dove conobbi e diedero inizio al mio “corpo a corpo” con essa, Luciano Erba, Sergio Solmi, Bino Rebellato e altri.

  • Cosa del suo Friuli nativo è rimasto nella sua attività lavorativa a Roma e in che modo riesce a recuperare la linfa vitale che ha nutrito la sua giovinezza quando torna al suo paese?

La lingua! Una volta lontana dal mio Friuli ho iniziato ad amare il friulano, quel friulano di cui mi vergognavo quando, per le scuole medie e superiori, ero costretta a percorrere in bicicletta quei chilometri che separavano Udine, la città, da un mondo contadino guardato con diffidenza e superiorità . A Udine si parlava l’italiano o l’udinese che io detestavo. Così il friulano rimaneva circoscritto alla famiglia e al paese. Oltrepassati i confini si trasformava all’istante in italiano, a volte storpiato.
A Roma mi impegnai allora a moltiplicare in teatro e in radio le letture di Pasolini, Leonardo Zanier, Bartolini, Giacomini, tutte rigorosamente in friulano e io ero l’unica a conoscerlo alla perfezione. Poi naturalmente Padre Turoldo di cui ricordo volentieri una lettura scenica insieme ad Achille Millo. Scrissi anche per la radio uno sceneggiato e un radiodramma dedicati al Friuli.
I miei numerosi ritorni in Friuli erano ritorni soprattutto alla natura, ai campi, agli alberi, ai torrenti, alle albe e ai tramonti che come lampi mi folgoravano e ancora oggi mi trascinano, per quel che ne è rimasto, in un mondo di silenzio, di purezza, un mondo che si va via via perdendo, con cui stabilire una relazione sensoriale e profondamente spirituale. Il paesaggio è un essere vivo.

  • Le sue esperienze teatrali quanto hanno inciso sulla sua produzione letteraria e viceversa?

Al teatro ho dedicato la vita, è la mia passione, ma fra teatro e poesia non vedo distinzioni così nette. Nel teatro le parole sono in azione. Posso vederle come profumo, colore, come entrata, uscita, come fatto fisico. Così la poesia, l’etimologia greca di poesia è – azione. Infatti in poesia la parola deve essere densa, contenere azione appunto. Si sente dire spesso: questa è una cosa poetica, non c’entra niente con la realtà mentre la poesia è quanto di più concreto ci possa essere. In teatro prendo a prestito parole d’altri, conflitti d’altri. In poesia le parole sono mie, è la mia coscienza a discorrere. Teatro e poesia sono momenti di verità e tutti e due contribuiscono a uno scavo interiore, a scandagliare i propri abissi. E’ un tornare a casa dentro di sé, dentro la propria interiorità. Cercare un punto di contatto con il proprio sé, con il divino che è in noi. Comunque si alimentano a vicenda.

  • Quali sono i poeti, classici o contemporanei, che più influenzano la sua scrittura in versi?

Naturalmente cerco di non farmi influenzare ma va da sé che certi poeti li abbiamo dentro, ce li portiamo ovunque, li respiriamo. Da ragazzina ero perdutamente innamorata di Leopardi e lo sono ancora. Ma ne ho aggiunti altri come Ungaretti, Quasimodo e ai nostri giorni o quasi: Marina Cvetaeva, Dickinson, Amelia Rosselli, Ripellino…

  • A quale personaggio che ha interpretato sul palcoscenico o in televisione si sente più vicina e ritiene di dover esprimere più riconoscenza?

In un primo tempo ho pensato a Giulia, la protagonista giovane di Mercadet, l’affarista di Balzac che ho interpretato a teatro insieme a Tino Buazzelli, poi, riflettendo, ho scelto un insieme di personaggi che ho raccolto sotto il titolo ORE 9 DEL SILENZIO. L’ora del terremoto in Friuli 40 anni fa. Questo monologo l’ho recitato nel ventennale di questo tremendo sisma e tutti i personaggi da me interpretati erano reali, vivi e morti, donne e uomini, tutti accomunati da questo orrore senza fine. Spunti per un richiamo al dialogo, a una comune riflessione sui valori etici e spirituali, per ritrovare un senso di umanità e di universale solidarietà, di giustizia sociale, rispetto dei diritti e dei doveri nei confronti di tutte le creature. Questa la condizione per continuare a parlare di umanità.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/5domande-a-LedaPalma.html

5 settembre 2016

INTERVISTE

PICCINI

INTERVISTE

PIERI

Intervista a Francesca Pieri, addetta stampa dell’editore Donzelli
FRANCESCA PIERI, RESPONSABILE UFFICIO STAMPA DELLA CASA EDITRICE DONZELLI

 

Forte di un’esperienza di oltre dieci anni nel mondo dell’editoria romana, Francesca Pieri, dopo aver lavorato, tra gli altri, per Gallucci e Newton Compton, ricopre attualmente il ruolo di responsabile dell’ufficio stampa presso Donzelli Editore. In quest’intervista, oltre a raccontare le peculiarità della sua professione e il suo percorso formativo e professionale, Francesca Pieri descrive quelli che sono gli aspetti più stimolanti e ricchi di soddisfazione del suo lavoro e riflette sul futuro dell’editoria italiana e del mercato del libro, cartaceo e digitale.

 

  • Quali sono le funzioni di un addetto stampa in una casa editrice?

La funzione principale di un addetto stampa in una casa editrice è la promozione del libro attraverso gli strumenti della comunicazione. I canali possono essere molteplici, più o meno diretti, ma diciamo che l’obiettivo fondamentale è rafforzare l’uscita del libro facendo in modo che, in coincidenza dell’arrivo in libreria, se ne parli attraverso i media. Questo può prendere avvio con una serie di azioni che vanno dalla tradizionale comunicazione rivolta alla stampa (giornali, radio, tv e web), a una efficace studiata campagna social, fino ad arrivare all’organizzazione di incontri pubblici (presentazioni, festival, rassegne, premi). In poche parole, l’ufficio stampa comunica l’uscita del libro. In questo senso si pone al punto di snodo tra il lavoro di redazione e quello del commerciale.

  • Attraverso quale formazione culturale e seguendo quali motivazioni personali si arriva a ricoprire questo ruolo professionale?

Posso raccontare la mia esperienza personale. Io ho studiato Lettere e in seguito mi sono specializzata in gestione delle attività culturali. Ho poi tenacemente intrapreso un percorso sempre limitrofo ai libri e all’editoria, prima sul fronte dell’organizzazione di grandi eventi (parlo di festival e fiere), poi approdando in una casa editrice dove ho imparato sul campo questo mestiere. Una casualità, potrei dire, ma anche una fortuna, perché mi è stata offerta l’occasione di un vero e proprio apprendistato, facendo esperienza diretta dell’intera filiera del lavoro editoriale, collaborando strettamente con la redazione e aprendomi a una professione che, con il tempo, ho ritagliato sempre di più intorno ai miei interessi e al mio temperamento.

  • Quali aspetti del tuo lavoro ti recano più soddisfazione, da un punto di vista umano?

Considero il mio lavoro circolare rispetto al percorso di studi e ai miei interessi personali. È indubbio che lavorare in questo ambiente ti permette di entrare in contatto con un mondo di relazioni interessanti, di portarti quotidianamente avanti nell’ambito delle tue conoscenze, di sperimentare il difficile equilibrio tra realtà e narrazione della realtà. Devo dire che, a distanza di tanto tempo, poter seguire l’intero percorso di ideazione e realizzazione di un libro rimane per me la parte più bella di questo lavoro, quella da cui tiro fuori le motivazioni più forti e l’energia che mi serve nel quotidiano. Non ho smesso mai, seppure nelle difficoltà e con le pressioni alle quali il mio ruolo mi sottopone, di sentirmi fortunata per essere riuscita a tradurre la mia passione, i miei studi, nella mia professione. Non c’è stato libro che non mi abbia lasciato qualcosa (e qui ci metto anche i rapporti con l’editore, gli autori, i giornalisti, i critici, i curatori dei volumi, coloro che, nell’insieme, fanno la storia e la fortuna di un progetto editoriale) e considero questa la mia grande soddisfazione: potermi identificare con il lavoro che faccio, sentirlo alla base della mia piena realizzazione, non soltanto professionale, ma anche umana.

  • Come giudichi l’attuale mercato del libro in Italia? Ci sono ancora prospettive di crescita, e in che ambito?

Esprimere un parere sul mercato editoriale attuale non è semplice, non lo certamente per me che sono molto presa dalla realtà della casa editrice per la quale lavoro, dal mondo che lo circonda e dalle prospettive che condividiamo ogni giorno. Posso giocare al rilancio e dire cosa mi aspetto invece, come operatrice del settore e come lettrice appassionata. Mi aspetto di assistere a una progressiva ripresa del settore, a un appianamento dei conflitti che lo lacerano e che si esprimono nel complesso riposizionamento di marchi e di gruppi sullo scenario nazionale, come anche nelle dispute attuali sugli eventi fieristici. Mi aspetto che il libro ritrovi la sua centralità e che la promozione della lettura diventi un tassello della crescita civile di questo paese, non l’oggetto di azioni sporadiche, prive di reali conseguenze. Mi aspetto che la scuola e le biblioteche rientrino nell’orbita di questa prospettiva, vedendosi restituito un ruolo di mediazione e di rilancio culturale all’interno del quale l’editore possa dialogare e trovare terreno fertile.

  • Pensi che i supporti elettronici soppianteranno il libro cartaceo?

Finora non ci sono dati che realisticamente fanno pensare a un passaggio prossimo venturo dal cartaceo al digitale. Le due dimensioni mi sembrano destinate a una lunga convivenza, quello che va discusso al momento e difeso è il libro nella sua dimensione totale. Gli strumenti di lettura possono aggiornarsi, ma se non si recupera il valore della lettura sarà difficile darsi prospettive.

  • Quali ritieni siano le caratteristiche più peculiari delle edizioni Donzelli?

La mia collaborazione con l’editore Donzelli non compie ancora due anni, ma il mio rapporto con la casa editrice è lungo. Li conosco e li seguo da anni con passione e assiduità. Arrivare a lavorare con loro è stato per me la felice realizzazione di un percorso, ma anche un buon punto di partenza da cui ricominciare e rilanciare la mia professione. Per Donzelli mi occupo di comunicazione e pubbliche relazioni. Qui ho trovato una dimensione stimolante e accogliente. Se dovessi individuare gli elementi peculiari della casa editrice direi senz’altro una forte dimensione identitaria, la cura del catalogo, la vocazione indipendente e un dialogo aperto con la nostra attualità culturale. A questo io cerco di rispondere ogni giorno interpretando il lavoro con chiarezza, visione e tenacia.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/IntervistaFrancescaPieri.html     4 ottobre 2016

INTERVISTE

POLESE


CINQUE DOMANDE A RANIERI POLESE

Ranieri Polese è nato nel 1946 a Pisa; ha studiato filosofia e, dalla fine degli anni Settanta, è membro del sindacato Critici cinematografici. Ha scritto per le pagine culturali di diversi giornali (La Nazione, L’Europeo). Dal 2006 ha curato l’Almanacco Guanda. È stato caporedattore cultura e inviato del Corriere della Sera, a cui ancora collabora. Tra i suoi libri: Il film della mia vita, Rizzoli 2005; Almanacco Guanda. La bugia: un’arte italiana, Guanda 2013; Per un bacio d’amor, Archinto 2017; Tu chiamale, se vuoi…, Archinto 2019.

 

  • Le origini familiari, gli studi, le passioni culturali. Firenze e poi Milano. Cosa ci può raccontare della sua formazione?

A Firenze mi laureai in Filosofia morale su un dimenticato filosofo hegeliano (Angelo Camillo De Meis), amico di De Sanctis ma politicamente molto conservatore. In quegli anni Sessanta, anche se davo esami sugli scritti giovanili di Marx, sulla Fenomenologia di Hegel ecc., cinema e canzoni erano ugualmente importanti. Al cinema si vedeva tutto: da Bergman alle farse italiane di Franco e Ciccio, da Godard e Fellini fino a 007. E il Festival di Sanremo era un’altra cosa da cui non si poteva prescindere. Erano anni che stimolavano la curiosità, tutto era cultura, passato e presente si intrecciavano (per il cinema c’era la funzione benefica dei Cineclub: lì si vedevano gli Espressionisti tedeschi, Renoir, Carné, Duvivier, i capolavori del cinema giapponese; oggi, su internet, si trova quasi tutto, ma chi dice ai ragazzi di oggi di cercarsi Murnau o Mizoguchi?).

  • Cinema, musica, costume. Quali tra questi tre importanti aspetti della cultura italiana ha segnato maggiormente il suo percorso intellettuale?

Come giornalista, ho lavorato sempre per le pagine spettacoli e cultura. Collaboratore e critico cinematografico (quando ancora il n. 2 doveva firmare: Vice), poi redattore, caposervizio e, a Milano, caporedattore della cultura al Corriere. Negli anni – tanti – sono cambiate molte cose, e non solo in cultura e spettacoli… Per esempio c’è stato un periodo in cui nessun argomento/personaggio si poteva trattare/intervistare se non desse adito alle polemiche. Oggi, fortunatamente, l’epoca della “Controversialità” mi sembra un po’ tramontata, ma restano sempre vecchi vizi: l’anteprima, l’esclusiva, il retroscena. Del resto, la politica è fatta ogni giorno così, e non mi sembra che le pagine di politica dei quotidiani servano a far capire molto il punto a cui siamo. Quando cominciai a scrivere di cinema, come Vice, era la grande stagione del cinema italiano di Serie B: Alvaro Vitali, Bombolo, Cannavale e le commedie sexy; e i poliziotteschi, con annessa parodia del sotto-genere con Tomas Milian, er Monnezza.

  • Ci può indicare almeno due nomi di elezione, suoi riferimenti mitici, per ognuno dei tre campi d’indagine citati?

CINEMA- A qualcuno piace caldo (ma in realtà tutto Billy Wilder); Otto e mezzo (ma anche La notte dei morti viventi, di Romero). MUSICA- Classica: Brahms, Ciaikovski, Puccini (decisamente romantico!). Pop rock: Rolling Stones; Ornella Vanoni. (Un solo cantautore: Gino Paoli). E tutti i songs di Brecht-Weill, magari cantati da Lotte Lenya, e molta Edith Piaf. DIVI E DIVE- Marlene Dietrich SÌ; Greta Garbo NO; Marilyn SÌ, Meryl Streep (bravissima) ma NO…

  • Com’è cambiato il giornalismo di costume dai suoi esordi professionali a oggi?
    Consiglierebbe a un giovane laureato di intraprendere la carriera di giornalista?

All’epoca, quando cominciai, c’era una grande attenzione ai titoli: spesso calembour, giochi con le parole, furti non sempre innocenti da canzoni e cinema. Era un esercizio molto divertente, poi tutto si è abbastanza appiattito. C’è solo Carlo Verdelli su Repubblica (e anche l’Espresso) a riprendere quel metodo, bravo! Cosa consigliare ai ragazzi di oggI? Leggere, studiare, guardare i grandi film di ieri, ascoltare canzoni e cantanti che oggi il rap/trap ha fatto scomparire, non fidarsi dei social, leggere quotidiani stranieri (Guardian; Le Monde; i grandi tedeschi), lasciar perdere gli/le influencer.

 

  • Nel suo ultimo volume indaga il rapporto tra poesia e canzone. Ci vuole illustrare in breve motivazioni e finalità di questa ricerca?

Continuando il libro sui baci, con l’attenzione per il grande patrimonio culturale/linguistico che la canzone rappresenta per l’Italia (i soli testi memorizzati in un’epoca, in una scuola che ha proibito lo studio a memoria dei poeti), ho voluto documentare quanto i testi di canzoni siano – quasi fino a oggi – debitori della cultura cosiddetta alta. Per scoprire che anche nelle “canzonette” si conservano echi di autori importanti.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Cinque-domande-Ranieri-Polese.html       3 dicembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

READERFORBLIND

Casa editrice Readerforblind: intervista alla redazione

Casa editrice Readerforblind: intervista alla redazione
La nostra collaboratrice Alida Airaghiha intervistato la redazione della giovane casa editrice romana Readerforblind, nata inizialmente come rivista online nel 2015 e specializzata nella narrativa breve. I fondatori del progetto sono Dario AntimiAdria Bonanno e il giornalista e scrittore Valerio Valentini. Ma dietro il nome di readerforblind si nasconde anche un intero team di persone preparate e appassionate: Margherita Macrì, in redazione; Roberta De Marchis, all’ufficio stampa e comunicazione; Emilio Fabio Torsello, alla gestione e ai contenuti Social; Valentina Russo che si occupa della grafica.

Ecco come nasce la casa editrice “readerforblind”: sapete che il nome si ispira a un famoso racconto di Raymond Carver? Il perché ce lo svela la redazione nell’intervista che segue.

  • Quando e dove è nata la vostra casa editrice, con quali programmi e finalità?

La casa editrice nasce ufficialmente nel dicembre del 2020 e nel marzo del 2021 esce la nostra prima pubblicazione, I superflui di Dante Arfelli. Abbiamo passato l’intero lockdown del 2020 a studiare e pensare il progetto. Nasciamo a Ladispoli; abbiamo pensato all’eventualità di spostarci a Roma, ma alla fine abbiamo deciso di restare in provincia. Amiamo il nostro territorio e qui una casa editrice neanche c’era. Quindi abbiamo pensato: “Perché no?”. Non ci siamo pentiti, in qualche modo è stato un atto d’amore.
Prima di allora, readerforblind era una rivista online di narrativa breve, insomma, avevamo un sito e pubblicavamo racconti. Lo facevamo dal 2015, ma con il passare degli anni sentivamo di volere di più. Quello della casa editrice è sempre stato un sogno; alla fine è arrivata la giusta motivazione per realizzarlo.

  • Avete scelto un nome originale per le vostre edizioni: potete spiegarcene origine e motivazione?

Readerforblind ce lo portiamo dietro dall’inizio, da quando il progetto era una rivista. È un omaggio a Raymond Carver; nel racconto Cattedrale c’è questo annuncio sul giornale: “Cercasi lettore per cieco” – Readerforblind. Viene da lì. Portare avanti per cinque anni una rivista di racconti significa che il racconto lo ami, e parte del nostro amore verso questa forma narrativa deriva proprio da Carver. Quando il progetto è mutato e da rivista è diventato casa editrice, abbiamo deciso di mantenere invariato il nome, un po’ anche per ricordarci da dove – e da cosa – veniamo.

  • Quante persone fanno parte della vostra redazione e in quante collane si suddivide la vostra produzione?

In redazione siamo circa una decina, e saltuariamente ci avvaliamo delle competenze di collaboratori esterni. La nostra produzione si suddivide attualmente in tre collane: le polverii superflui e le polveri black edition.
Le polveri è la nostra prima collana. Qui trattiamo titoli di narrativa pubblicati nel corso del Novecento e non più ristampati da allora. Nei Superflui ci concentriamo su nuove voci contemporanee e nelle Polveri black edition trattiamo invece opere di grandi autori e grandi traduttori della letteratura.

  • Quali sono le vostre pubblicazioni che hanno ottenuto più riconoscimenti e secondo voi per quali motivi? Quali sono i prossimi tre titoli che avete in cantiere?

Tra i titoli che hanno ottenuto più riconoscimenti troviamo sicuramente I superflui di Dante Arfelli e Cristo fra i muratori di Pietro Di Donato.
Arfelli è stata in parte una sorpresa, innanzitutto perché era il primo titolo e non ci aspettavamo una tale risposta da parte del pubblico e della critica. Abbiamo pubblicato I superflui, per un caso totalmente fortuito, nel centenario della nascita dell’autore; probabilmente c’era grande attesa circa il ritorno di Arfelli nelle librerie, quantomeno da parte di una nicchia affezionata di lettori.
Per quanto riguarda Pietro Di Donato, invece, il discorso è diverso: anche in questo caso c’era probabilmente una certa attesa, ma crediamo che il successo di Cristo fra i muratori sia dovuto al tema che il libro tratta: la storia è d’ispirazione autobiografica ed è raccontata da Paolo (personaggio appunto riconducibile a Pietro Di Donato), che all’età di dodici anni perde il padre per un incidente sul lavoro. Quello delle morti sul lavoroè un tema molto sentito nel nostro paese, ed è vergognoso che oggi come allora si muoia in tali circostanze. Dall’inizio dell’anno ci sono già state sette “morti bianche”. In soli tre giorni, e siamo all’11 di gennaio.

Nel nostro piccolo, pensiamo sia importante partire dalla sensibilizzazione per creare una sorta di consapevolezza generale, e crediamo che negli ultimi anni questo stia accadendo: sempre più persone non sono disposte ad accettare condizioni di lavoro che non garantiscono sicurezza e sempre più persone si stanno battendo per un cambiamento, perché morire di lavoro non è accettabile.
Circa i prossimi tre titoli che abbiamo in cantiere possiamo dirvi che il 27 gennaio uscirà Nella città l’inferno di Isa Mari per la collana Le polveri. A febbraio, nella collana I superflui, pubblicheremo Il corpo della medusa di Luca Martini, già autore, fra gli altri, di Manuale di sopravvivenza per bambini invisibili (Pequod, 2018) e Mio padre era comunista (Morellini Editore, 2019). Per il terzo titolo ci concentreremo nuovamente su Le polveri, ed è previsto per marzo. Su questa pubblicazione non possiamo dirvi di più, ma ne sentirete parlare presto!

  • Attraverso quali canali preferenziali riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti e che traguardi vi proponete di raggiungere, a livello di mercato e di incidenza culturale?

Fin da subito abbiamo improntato la comunicazione e la distribuzione su tutti i canali possibili, non trascurando nessuno e cercando di essere presenti tanto nel “reale” (con un rapporto diretto con le librerie indipendenti, con un rapporto diretto con la promozione e con un aggiornamento costante con i buyer delle centralizzate) quanto nel digitale, attraverso lo shop sul nostro sito, la presenza su tutte le piattaforme digitali e una gestione dei social dinamica, ma allo stesso tempo istituzionale. Tutto ciò ci ha permesso di interfacciarci con un pubblico composto da lettori giovani e meno giovani e da lettori occasionali e grandi lettori. Il mercato delle riscoperte, sulla carta, era focalizzato sul grande lettore che ricercava da anni libri oramai giudicati introvabili, ma grazie a questo mix di comunicazione reale e digitale abbiamo constatato che siamo riusciti ad arrivare a una fetta di lettori più giovani (anche anagraficamente) e, appunto, più occasionali; lettori che hanno dedicato ore di lettura a libri di cui magari non sarebbero mai venuti a conoscenza. Questo grazie al lavoro dei librai indipendenti ma anche di catena, che hanno sposato da subito le nostre scelte editoriali.
Questo è anche un po’ quello a cui aspiriamo con il nostro lavoro: far conoscere a più gente possibile grandi autori ingiustamente dimenticati nel tempo e nuove voci contemporanee valide che troppo spesso passano in sordina.

  • Vi ritenete più o meno ottimisti riguardo al futuro del libro (cartaceo o digitale) nel nostro paese, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione?

Ogni mezzo di comunicazione è a sé, e sono diversi. Che in Italia si legga poco purtroppo è una realtà, ma chi non legge non lo fa perché Netflix gli propina un numero indefinito di serie tv tutte insieme – probabilmente queste stesse persone non avrebbero letto o non leggevano nemmeno vent’anni fa. Crediamo che l’intrattenimento non sia solo intrattenimento fine a sé stesso – molte attività provengono da forme artistiche; c’è un tempo per tutto, ed è giusto sia così. In quanti nelle ultime settimane hanno chiuso un cerchio guardando l’ultima stagione di The Walking Dead? È difficile che questo abbia impedito alle persone di leggersi un libro se questo era ciò che volevano fare. Insomma, una cosa non esclude l’altra. Tra l’altro, durante il lockdown del 2020, ci fu una lieve inversione di tendenza. Durante quelle settimane molta gente aveva a disposizione diverse ore di tempo libero e questo tempo proveniva dal non lavorare o dal lavorare da casa, non dalla mancanza di altre forme di intrattenimento.
Anche l’utilizzo dei social, da questo punto di vista, non ci preoccupa più di tanto; nonostante il tempo speso sui social sia sempre maggiore, difficilmente immaginiamo che le persone smettano di seguire le proprie passioni per questo. Se usati bene, inoltre, possono essere un ottimo strumento per seguire case editrici e progetti editoriali validi, in un modo così diretto e interconnesso che è sorprendente, e di certo non auspicabile fino a qualche anno fa.

Concludiamo con un altro spunto di riflessione: alcuni lettori hanno il brutto vizio di giudicare malamente chi legge meno, e questo è il miglior modo per allontanare le persone dalla lettura, anziché avvicinarle.

 

SoloLibri.net › Intervista-redazione-Readerforblind       12 gennaio 2023

 

INTERVISTE

RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, FILOSOFA E DOCENTE UNIVERSITARIA

Filosofa, saggista e docente universitaria, Francesca Rigotti ha insegnato a Göttingen e Zurigo e dal 1996 insegna all’Università della Svizzera italiana a Lugano. La sua ricerca è caratterizzata dalla decifrazione e dall’interpretazione delle procedure metaforiche e simboliche sedimentate nel pensiero filosofico, nel ragionamento politico, nella pratica culturale e nell’esperienza quotidiana. Ha ricevuto nel 2016 lo Standing Woman Award.

I suoi libri sono tradotti in tredici lingue. Tra le sue pubblicazioni più recenti, andando all’indietro: “Una donna per amico” (con Anna Longo, Napoli-Salerno, 2016), “Manifesto del cibo liscio” (Novara, 2015); “Onestà” (Milano, 2014); “Senza figli” (con Duccio Demetrio, Milano, 2012); “Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità” (Torino, 2010), “Gola. La passione dell’ingordigia” (Bologna, 2008); “Il pensiero delle cose” (Milano, 2007; Premio Capalbio); “Il pensiero pendolare” (Bologna, 2006); “La filosofia delle piccole cose” (Roma, 2004) e “Il filo del pensiero” (Bologna, 2002, Premio di Filosofia Viaggio a Siracusa). Il suo ultimo libro è “De senectute” (Einaudi, 2018).

  • L’ambiente familiare e culturale in cui è nata e cresciuta come ha contribuito alla sua formazione intellettuale?

Sono cresciuta in una famiglia meridionale trapiantata a Milano, di alto rigore morale ma di scarsi impulsi intellettuali. In casa mia c’erano forse tre libri. Però grazie a mia sorella maggiore scoprii ben presto il piacere della lettura (le regalarono l’Enciclopedia dei Ragazzi Mondadori alla quale potevo attingere, che miniera!); in qualche modo individuai anche l’esistenza della biblioteca di quartiere, nello stesso edificio della scuola, e allora lì fu una immersione totale. E poi, altra benedizione, il liceo classico.

  • Quali sono stati gli autori classici e contemporanei che più hanno inciso nella configurazione del suo profilo filosofico?

Tra coloro che ho potuto frequentare di persona, citerei senz’altro Mario Dal Pra, mio docente all’Università, Salvatore Veca, Remo Bodei. Tra gli autori contemporanei, sicuramente e sopra ogni altro Hans Blumenberg e tutti i suoi straordinari studi di metaforologia e di storia culturale; ma anche Jacques Derrida e Martin Heidegger, e il modo che avevano entrambi di estrarre saggezza dalle parole. Tra i classici, Kant, sia il Kant morale sia il Kant gnoseologico.

  • In che modo il femminismo ha influenzato le sue scelte esistenziali, lavorative e intellettuali?

Sono diventata femminista a tre anni, quando è nato il mio fratellino minore, nel constatare che della sua nascita tutti gioivano mentre della mia (seconda femmina…) tutti – raccontava la saga familiare – si erano rammaricati. Poi a lui venne regalata l’automobilina rossa a pedali che io avevo sempre sognato. Per fortuna è comunque diventato una bravissima persona. Ho pagato alcune scelte femministe piuttosto duramente, allorché per esempio si pensava che avrei dovuto scegliere una professione da donna che mi permettesse di assistere e coadiuvare la carriera dell’uomo, cosa alla quale mi opposi con tutte le mie forze.

  • Le è stato difficile conciliare la sua vita familiare con il suo impegno di studiosa?

Tenendo presente che i figli sono venuti in quattro (maschio, femmina più due gemelli maschi nel giro di cinque anni) non è stata proprio una passeggiata, in più in un paese straniero. Però il compito è stato equamente ripartito con il loro padre e mio compagno (straniero) e questo ha semplificato ogni cosa.

  • A quale tra i suoi libri si sente più legata emotivamente, e quale l’ha più gratificata dal punto di vista del successo editoriale?

Il libro che amo di più è “Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare”, che uscì con Il Mulino di Bologna nel 2002. È incondizionatamente il mio preferito, anche se non ha avuto il successo editoriale de “La filosofia in cucina”, ristampato varie volte e tradotto in moltissime lingue, l’ultima il portoghese per l’edizione brasiliana, pochi mesi fa. Un testo che parla dell’uso, nel linguaggio filosofico, delle metafore derivate dalla preparazione del cibo, del tipo impastare i pensieri, per intenderci.

  • Nel suo ruolo di docente universitaria, trova che i giovani con cui si confronta quotidianamente siano più o meno motivati nei riguardi del sapere di quanto lo fosse la sua generazione? E cosa teme o spera per il loro futuro?

Noi avevamo soltanto la lettura, anche come svago, mentre i ragazzi di oggi hanno molti più stimoli e possibilità. Spero che li usino bene. Quando vedo a lezione i loro occhi interessati (non di tutti, diciamocelo, tanti li puntano soltanto sullo smartphone) penso che ce la faranno, nonostante il fatto che le de-formazioni (chiamate impropriamente ri-forme) introdotte nella scuola – non solo italiana, io insegno in Svizzera e abito in Germania – facciano di tutto per soffocarne gli slanci.

 

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https://www.sololibri.net/Sei-domande-a-Francesca-Rigotti.html       23 febbraio 2018

INTERVISTE

RIMI

Poesia e scienza: sei domande a Margherita Rimi
POESIA E SCIENZA: SEI DOMANDE A MARGHERITA RIMI

 

Margherita Rimi è nata a Prizzi (PA) e risiede in provincia di Agrigento. Poetessa, medico e neuropsichiatra infantile, svolge da anni una intensa attività di prima linea per la cura e la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, lavorando in particolare contro le violenze e gli abusi sui minori e a favore dei bambini portatori di handicap. Tra le sue raccolte in versi, sono da segnalare: “Per non inventarmi” (Kepos, 2002), “La cura degli assenti” (LietoColle, 2007), “Era farsi. Autoantologia 1974-2011”, (Marsilio, 2012; Premio Laurentum, 2012 e Premio Brancati Zafferana, 2013; Segnalazione Speciale Stefano Giovanardi, 2013); “Nomi di cosa. Nomi di persona” (Marsilio, 2015). Nel 2014 le è stato conferito il Premio Città di Sassari alla carriera, e nel 2016 ha ricevuto un riconoscimento dall’Unicef-Italia.

  • Nella sua formazione culturale è nato prima l’interesse per la poesia o quello per la scienza?

Non c’è un prima e un dopo: la curiosità per la scienza (intesa come bisogno di esplorazione della natura, degli animali e dell’uomo) e quella per la letteratura (come passione per le parole, interesse per la lettura) sono nate quasi incrociandosi, legate alla curiosità della conoscenza e del mondo. Alle Elementari sottolineavo parole, frasi e scrivevo, nei margini bianchi dei libri, delle parole chiavi, che richiamavano l’argomento: per me utili per imparare meglio e prima. I libri che dovevano tenersi per disciplina puliti, io li imbrattavo e di questo mi vergognavo: quelli dei miei compagni erano lindi. In adolescenza, grazie alle lezioni di validi professori del Liceo Classico (ad Agrigento) sono stata più consapevole della grande passione sia per la letteratura, che per gli argomenti scientifici. Nella scelta universitaria, poi, tra Lettere e Medicina ha prevalso la Medicina, l’aspetto umano della cura e del prendersi cura dei malati. Pensavo nella mia giovinezza di salvare tante vite umane, ed è capitato qualche volta nella pratica del mio lavoro in Pronto Soccorso. Ma la letteratura era là, non mi lasciava. Insieme ai libri di medicina leggevo tanti testi letterari, e testi di psicologia che, per tipologia e contenuti, si avvicinavano alla conoscenza dell’animo umano.

  • Quali sono i poeti e i narratori che hanno avuto un ruolo più rilevante nell’avvicinarla alla scrittura?

Mi hanno avvicinato alla scrittura, prima di tutto, i libri scolastici e qualche classico per l’infanzia (“Giannettino”, “Pinocchio”, “Alice nel paese delle meraviglie”). Successivamente i classici greci e latini, la Divina Commedia, la Bibbia, la letteratura russa (Gogol’, Čechov, Tolstoj, Dostoevskij). Tra le autrici ho trovato molto particolare la scrittura di Ágota Kristóf e Herta Müller. Letture fondamentali sono state le “Operette morali” di Leopardi, le opere di Pirandello, Sciascia, Vittorini, Giuseppe Pontiggia. Tra i poeti Bacchini, Porta, Enzensberger, Birgitta Trotzig, Ana Blandiana, solo per citarne alcuni.
Ad avvicinarmi alla scrittura non sono stati solo i testi di letteratura, ma anche di argomenti medico-scientifici e anche diversi autori psichiatri e psicoanalisti (Winnicott, Alice Miller, Ferenczi).

  • In che modo la sua professione medica e la sua produzione letteraria si influenzano reciprocamente?

Penso che in tutti e due ci sia un primario bisogno di verità e di conoscenza, una ricerca di bellezza. Nel mio lavoro c’è la bellezza di prendersi cura dell’altro, nell’ascolto e nello scambio, nella costruzione di una relazione e nella conoscenza reciproca; e c’è anche un andare verso la verità attraverso la parola. Non si procede, però, solo con tecniche medico-scientifiche e psichiatriche, si tratta di un processo che coinvolge anche l’aspetto umano. E nella mia produzione letteraria è lo stesso, vi è la ricerca di una verità umana e della bellezza: nella scelta della parola, nella disposizione dei versi, nell’ascolto del sentimento e del pensiero, del suono, nella costruzione di significati e di senso. È così che, nella creazione poetica, avviene pure una forma di conoscenza, non solo di se stessi, ma anche di un sapere che va oltre il dato di circostanza. Penso che l’arte e la poesia vadano oltre la scienza stessa, oltre la contingenza, perché tendono a cogliere aspetti di eternità e universalità dell’essere umano. Ma lo spirito con cui mi pongo di fronte a tutti e due è lo stesso. Il lavoro con i bambini malati ha affinato la mia sensibilità anche linguistica e la mia capacità di comprensione sia razionale che emotiva. I bambini stessi hanno rappresentato una guida nella mia ricerca di verità. Imparando ad interagire con loro, ho imparato come una nuova lingua, che è divenuta parte della mia ricerca poetica. C’è un dialogo continuo tra poesia e scienza: parte del linguaggio medico-scientifico e psichiatrico viene assunto dalla parte poetica, viene integrato alla lingua e al sapere della poesia. Ma lo scambio non è meramente linguistico o di trasferimenti di parole settoriali e tecnicismi vari dall’uno all’altro campo, sic et simpliciter dalla medicina alla poesia; sarebbe solo un abbellimento, un vezzo, un artefatto, una ostentazione del sapere scientifico, sfruttando la poesia. Tra il sapere medico-scientifico, psichiatrico e la poesia c’è uno scambio attraverso cui passano valori umani e sentimenti, studi, conoscenze e tecnica, esperienze e percezioni, scelte etiche e di pensiero, consapevolezza di libertà. E, lo ripeto, una comune spinta verso la verità. La medicina impara dalla poesia e la poesia dalla medicina. La poesia ha fatto suo un dialogo tra il sapere letterario e quello scientifico, ma alla fine è la poesia stessa che assorbe gli altri linguaggi per farne una creazione artistica.

  • Ritiene che la poesia abbia una funzione non solo didattica e culturale, ma anche qualche utilità terapeutica nella sua attività di neuropsichiatra infantile?

Non uso la poesia come strumento tecnico nella terapia con i bambini. Ma le parole, poiché fanno parte del processo terapeutico, possono, nell’interazione e nel dialogo con il bambino, assumere una struttura e valenza poetica e artistica. Succede che tra me e il bambino nasca, a tratti, una vera e propria lingua poetica come una lingua comune, la quale sembra potenziare l’effetto terapeutico. Penso comunque che l’arte, in tutte le sue forme, possa giovare al trattamento di tante malattie. Del percorso terapeutico, dunque, possono far parte anche tecniche che appartengono all’arte (musica, poesia, narrazione, pittura, teatro) oltre che, naturalmente, i trattamenti psicoterapici delle diverse scuole.

  • Come vive il rapporto tra lingua scritta e parlata, tra italiano e dialetto? Secondo quali direttive trova più facile e arricchente esprimersi?

Non penso alla scissione tra lingua scritta e lingua parlata, né tra italiano e lingua siciliana o altre lingue. Li sento e li vivo insieme, come a dire che una sola forma non basta e che una sola lingua non basta. La poesia ha bisogno di tutto questo. Mi affascina molto la lingua parlata la parola parlata, parlata da chiunque, che sono spesso fonte di ispirazione: di parole o frasi, di suoni, da cui, attraverso una rielaborazione artistica, può svilupparsi un componimento poetico. Ricordiamoci che prima di imparare a scrivere abbiamo impariamo a parlare.
Nell’ultimo mio libro di poesia “Nomi di cosa. Nomi di persona” (edito da Marsilio, con risvolto di Amedeo Anelli e foto di copertina donata da Letizia Battaglia che ringrazio entrambi) ho utilizzato anche parole e frasi, oltre che in siciliano, in francese e inglese, come un’incisione, un innesto sull’italiano. Penso di avere potenziato e arricchito la mia lingua poetica. Questo non l’ho fatto per abbellire, per ornare o per esercizio estetizzante, ma per una necessità di ricerca linguistica, di sperimentazione; per dare più forza, più bellezza e varietà di suono alla mia poesia. Appunto quando una lingua non basta. Così accade anche con il linguaggio scientifico: il suo utilizzo è piegato alla poesia, alla sua arte della parola. È la poesia che comanda.

  • Quali sono i problemi che più la coinvolgono nel suo relazionarsi con i piccoli pazienti e con le loro famiglie? Ritiene che la medicina e la situazione sanitaria in Italia e in particolare in Sicilia godano di sufficiente attenzione da parte del potere politico? In che maniera si potrebbe rendere più efficienti ospedali e ricerca?

I problemi sono la carenza di figure professionali: l’assistente sociale, il pedagogista, con i quali si dovrebbe lavorare in equipe e nell’ottica di una integrazione multidisciplinare. In particolare nel caso della cura dei bambini è indispensabile anche un lavoro con i genitori. Nonostante la carenza di personale e altro, la situazione sanitaria italiana regge. Nel riordino del sistema sanitario, si sono introdotte delle regole proprie delle aziende private (l’attenzione ai costi e ai risultati). Mi auguro che la politica e i governi non dimentichino mai che la salute è un valore umano inestimabile e non un prodotto commerciale.

 

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www.sololibri.net/Poesia-scienza-MargheritaRimi.html       2 settembre 2016

 

 

 

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