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RECENSIONI

ROMEO

ENZO ROMEO, LE MIMOSE DEL PICCOLO PRINCIPE – ANCORA, MILANO 2018

Enzo Romeo ha pubblicato per le edizioni Ancora Le mimose del Piccolo Principe, un breve saggio illustrato su Antoine de Saint- Exupèry, di cui ha riletto la vita attraverso le figure femminili che su di essa hanno lasciato importanti tracce, commentandole con i brani più suggestivi del suo famosissimo libro.  Saint-Exupéry (1900-1944), scrittore e aviatore francese, scomparve con il suo aereo – abbattuto da un caccia tedesco durante una missione ricognitiva nel Mediterraneo: nel 1943 aveva pubblicato il suo capolavoro, tradotto in 253 lingue. Nella sua breve e intensa vita ebbe molte esperienze, non solo professionali e di guerra, ma anche sentimentali. Il matrimonio con la salvadoregna Consuelo fu tormentato dai frequenti tradimenti di lui; Enzo Romeo cita solo due delle sue numerose relazioni: nel 1943, in Algeria, con una crocerossina francese (“Il roseto mi ha trafitto mentre coglievo la rosa”), e poi con l’americana Silvia. Ammetteva le sue infedeltà, confessando umilmente la propria fragilità a sé stesso e alla moglie, cui continuava a proclamare il suo infinito ed eterno amore (“Consuelo cara, siate la mia protezione… Fatemi un mantello col vostro amore”), e utilizzando sempre la metafora della rosa, così spesso ribadita nella favola del Piccolo Principe: “Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo… È lei che ho innaffiato, che ho messo sotto la campana di vetro, che ho difeso col paravento… Perché è la mia rosa… Perché l’ho resa mia amica, e adesso è unica al mondo”.

Romeo così commenta il ménage tra i due: “Pur facendo una vita da celibe, senza di lei il pilota-scrittore si sentiva perso… Vivevano separati, ma li univa egualmente un sentimento profondo, simile a un fiume carsico”. E quando Consuelo, rifugiatasi nei Pirenei per sfuggire ai bombardamenti su Parigi, credendosi definitivamente abbandonata dal marito, stava per cedere alla corte di un ufficiale francese, lui la raggiunse, convincendola ad accompagnarlo al santuario di Lourdes, e addirittura componendo una preghiera per la moglie, da recitare con rinnovata fede di cristiana e di sposa: “Sono felice soltanto nella purezza. Signore, rendetemi somigliante sempre a quello che mio marito vede in me. Signore, Signore, salvate mio marito perché lui mi ama veramente. Senza di lui mi sentirei totalmente orfana. Ma fate, Signore, che lui muoia prima di me, perché lui sembra molto forte ma si angoscia terribilmente quando non mi sente fare rumore per casa”. La madre di Antoine Saint-Exupéry, Marie, fu l’altro suo grande amore, ed era convinta “dell’intimo sentimento cristiano del figlio”, che fondamentalmente in ogni sua esperienza cercava Dio, una rosa, una stella, l’infinito: “Se tu vuoi bene a un fiore che si trova su una stella, è dolce, la notte, guardare il cielo. Tutte le stelle sono fiorite”.

 

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https://www.sololibri.net/mimose-piccolo-principe-Romeo.html           24 febbraio 2018

 

 

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RONCHI

ERMES RONCHI, L’INFINITA PAZIENZA DI RICOMINCIARE – ROMENA, AREZZO 2016

Padre Ermes Ronchi è stato invitato dalla Fraternità di Romena a tenere un incontro sull’importanza del rinnovamento spirituale, e dal dialogo con la comunità è nato questo libriccino, intitolato L’infinita pazienza di ricominciare.
Due parole iniziali su cos’è Romena. Si tratta di una comunità ispirata dall’utopia del monaco Giovanni Vannucci e fondata nel 1991 da don Luigi Verdi, con l’intento di offrire uno spazio di relazione e meditazione a chiunque fosse alla ricerca di se stesso e di un rapporto più profondo con l’Altro e con gli altri.
È situata in un’antica pieve romanica in provincia di Arezzo, mette a disposizione degli ospiti una foresteria, una mensa e una sala convegni; organizza conferenze e dibattiti, e ha una propria casa editrice che pubblica testimonianze di vita e pensiero di credenti e non credenti interessati allo scavo interiore e alla ricerca di spiritualità.

Due parole anche su Padre Ermes Ronchi. Nato nel 1947 nella campagna friulana, in una terra contadina semplice e di intatta fede religiosa, sacerdote nel 1973, frate dei Servi di Maria, ha percorso fin da giovane strade di studio e lavoro non tradizionali, laureandosi alla Sorbona in Teologia e specializzandosi in antropologia e scienze religiose. Autore di numerose pubblicazioni, per cinque anni ha condotto la trasmissione Le ragioni della speranza su Rai Uno, e attualmente è priore del Convento di San Carlo e direttore del centro culturale Corsia dei Servi a Milano. In marzo è stato incaricato da Papa Francesco di condurre gli esercizi spirituali in Vaticano.
Nell’introduzione a questo volumetto viene definito dai prefatori “poeta della fede e della vita (…) tessitore di futuro”, e in effetti in queste poche pagine riesce a indurre il lettore a una riflessione positiva e carica di speranza sulle sue potenzialità inesplorate o soffocate dalle abitudini e dalle pigrizie quotidiane: “Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare. E quando sbagli strada, ripartire da capo. E là dove ti eri seduto, rialzarti. Salpare a ogni alba verso isole intatte. Ma non per giorni che siano fotocopie di altri giorni, bensì per giorni risorti”

Non accontentarsi di essere, quindi, fotocopie sbiadite di se stessi o di ciò che ci impongono mode e ideologie, ma recuperare la propria unicità, costruendo il vivere giornaliero pazientemente, senza affrettata superficialità. Tre sono le parole d’ordine suggerite da Ermes Ronchi ai suoi lettori per ricominciare: vedere, fermarsi, toccare. Aprire gli occhi per guardarsi attorno, meravigliandosi di tutto; fermarsi a riflettere e a contemplare; toccare chi ci sta vicino, anche l’intoccabile. E abbracciare l’infinito, sentendosi parte creaturale dell’universo, e alimentando cuore e cervello quando li sentiamo disidratati, rinsecchiti. Non ridursi ad accettare la realtà per quello che è, ma sognare ciò che essa può diventare. Con questa importante raccomandazione: “Le cose esterne fanno rumore e danno fastidio, ma sono fuori, e soltanto io posso aprire la porta e dire a uno: sì, tu entra e occupa spazio in me, e a un altro invece: no, tu resta fuori, so che mi farai un po’ di male e graffierai sulla mia vita, ma tu non siederai sul trono del mio cuore”.

 

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www.sololibri.net/pazienza-ricominciare-Ronchi.html    5 agosto 2016

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RONCHI

ERMES RONCHI, IL CANTO DEL PANE – SAN PAOLO EDIZIONI – MILANO 2010

Otto brevi capitoli che Padre Ermes Ronchi dedica al Padre Nostro: la più antica delle preghiere cristiane, tramandata da Matteo e Luca; certo la più conosciuta e recitata, la più amata, celebrata e cantata nelle assemblee liturgiche, o nell’intimità dei cuori credenti. “Una preghiera espropriata, in cui mai si dice -io-, mai -mio-. Ma attraverso la quale impariamo a pronunciare il -tu-, e i l-noi-, il -nostro-“. Una preghiera di relazione, che apre all’altro. E questo libro scandisce con meditazioni profonde, innamorate della Parola, e con nuove preghiere, con personali e struggenti componimenti poetici, ogni singola frase del Padre Nostro: dall’incipit, che tanto insiste sulla paternità amorevole e protettiva di Dio, alla supplica finale di liberare l’umanità dal male, con una poderosa riflessione sulla tentazione. Le esortazioni all’abbandono fiducioso nelle mani della divinità sono continue, con puntuali rimandi al Vecchio e Nuovo Testamento, ai Padri della Chiesa, ma anche alla cultura contemporanea: “Affidarsi, perché il vero centro dell’uomo non è l’io, ma il tu divino: un amore mite, umile e tenacissimo… Dio è il maestro del desiderio… Quando sentiremo Dio come spinta assolutamente necessaria per la crescita della nostra natura umana, allora crederemo veramente, e non avremo più paura, e la sua volontà sarà desiderio”. Il pane, quindi, cui è dedicato il libro di Padre Ronchi, non è solo quello di cui ci nutriamo materialmente: “L’uomo non vive di cose, anzi ne muore…  Dio è il nostro affamatore, che impedisce all’uomo di rimpicciolire nella misura delle sue piccole cose, Dio è il nostro affamatore che placa la fame e la suscita ancora, che accende la vera fame”. Un piccolo volume prezioso, abissalmente lontano dall’esegesi critica e filologica del Padre Nostro di Marc Philonenko, o di altri dottissimi studi sull’argomento, ma ispirato da una grazia particolare: chissà, forse, dalla Grazia.

IBS, 19 novembre 2010

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RONCHI

VALENTINO RONCHI, BUONGIORNO RAGAZZI – FAZI, ROMA 2019

Forse l’erede più interessante e originale (quindi, non solo un epigono) della lezione poetica di Elio Pagliarani è il milanese Valentino Ronchi, che con il suo Buongiorno ragazzi riprende atmosfere, scelte formali ed echi contenutistici dell’indimenticabile La ragazza Carla. Se quel poemetto pubblicato nel 1962, all’alba del boom economico e della nascente industrializzazione, era animato da un risentito sentimento di denuncia civile, e insieme da una indulgente pietas nei confronti dei protagonisti, proletari stretti tra lavoro inappagante e affetti striminziti, la narrazione in versi di Ronchi è invece priva di rivendicazioni politiche o sociali, circoscritta a un vissuto individuale, e più teneramente intimistica.

Il poeta rievoca con toni di affettuosa malinconia il periodo magico del liceo (libri letti e dischi ascoltati, amori esibiti o taciuti, compiti in classe e gite scolastiche, mattine “eterne e brevi”), vagando col ricordo tra edifici scolastici e zaini stracolmi, primi e ultimi della classe, professori detestati o amati. Proprio la morte di un insegnante diventa il pretesto per recuperare i rapporti tra ex compagni, e il ricordo del passato diventa subito pressante nostalgia, rimpianto per un tempo in cui l’attesa vaga del futuro non si tingeva ancora di amarezza o delusione: “Siamo troppo giovani, pensavi, per perdere / il professore di greco. Sono cose che dovrebbero / capitare più in là con gli anni quando / tanti intorno sono già partiti, e fa normale / che anche altri se ne partano”. Dal giorno dei funerali del docente, l’io narrante accoglie l’imperativo di recuperare voci e profili dimenticati, dando loro spazio nella memoria e sulla pagina: “E nel tempo / che resta invece ho deciso: andrò in cerca / di voi, vecchie immagini, vecchie realtà, / fantasmini da fotografia, belle creature / di un tempo, passeggere ancora e sempre / per le vie di questo mondo”.

La Milano di Giudici, di Raboni, Erba, Sereni (ma anche delle canzoni dei Gufi, di Gaber e Jannacci, e dei primi film urbani di Ermanno Olmi), la Milano dei tram, delle nebbie e dei Navigli, dei bar e dello stadio, di cantine e librerie antiquarie, riaffiora con tutta la sua struggente malinconia, nei quartieri periferici e nei personaggi che la abitano, segretarie e camerieri, pendolari e poliziotti: “Le sedie accatastate al muro, poggiate / a Mac Mahon deserta, il pizzaiolo nel cappotto / fuma, guarda dalla soglia i resti di Milano, / città che aspetta la fine di febbraio dietro / gli abbaini mezzi chiusi”.

Nomi di strade e piazze, nomi di tutte le ragazze baciate, scorrono nei versi con la stessa rapida e rapita successione del catalogo delle navi omerico (“l’impiegatina” dagli occhi azzurri, un avventore del bar cui confidare le proprie pene, l’amico fornaio con addosso sempre la stessa frusta giacca), nell’attenta premura riservata ai gesti e ai dialoghi di ogni figura raccontata, e nella ricostruzione del suo destino esistenziale, riassunto negli snodi fondamentali (matrimonio, figli, professione). E se uno degli interlocutori ritrovati dopo anni accusa il poeta “Hai fatto della nostalgia un oggetto”, ecco che la rivendicazione fiera e umile della propria scrittura arriva puntuale: “alla fine si sta bene scrivendo, / lo ammetto dev’essere per questo / che mi ostino, continuo. Dà una certa / pace, e passano così le epoche / e ancora mi piace”.

L’applicazione al contenuto, nei versi di Valentino Ronchi, prevale e mette in secondo piano quella rivolta alla forma, che assume decisamente un andamento narrativo e colloquiale, con frequenti inserti del parlato quotidiano (“Così, già che ci sono, en passant”, “E rido, sì che rido”, “Sia detto, mi è chiaro”, “pensaci bene”, “oh, ma guardati, sei tu”!). Chi legge rivive questo fascino di una giovinezza trascorsa, inutilmente rincorsa e ricomposta, più tipica degli anni ’60 che del ventennio successivo vissuto dall’autore. Sarà forse che si è ragazzi tutti allo stesso modo, con gli stessi turbamenti e aspettative, in ogni piega della storia: “le giovinezze nostre, di tutti, che belle / si somigliano”.

 

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https://www.sololibri.net/Buongiorno-ragazzi-Ronchi.html       15 novembre 2019

 

 

 

 

 

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RONDI-GAY DES COMBES

ELENA RONDI-GAY DES COMBES, DISSOLVENZE – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2014

Questo libro, secondo la prefatrice Maria Rosa Valentini, «non vanta una trama ossuta, ma piuttosto si avvale di un gioco di specchi, di giustapposizioni che pongono in evidenza ritratti e profili di molte donne risucchiate dalle ragnatele della quotidianità». Ambientato in una provinciale cittadina della Svizzera Italiana (l’autrice è ticinese), il romanzo intreccia le storie di cinque protagoniste femminili, diverse per età, carattere e condizione sociale, ma accomunate tutte dalla stessa attenzione verso lo sguardo: soggettivo od oggettivo, interiore o esterno. Quindi l’interesse è focalizzato su quegli oggetti che maggiormente si fanno interpreti dell’atto visivo: la macchina fotografica e lo specchio. La vicenda si apre nella boutique in cui Anna, commessa, offre i suoi competenti consigli alla signora Kramer, cliente assidua ed esitante. La prima, attenta ad interpretare la psicologia delle acquirenti, è una giovane donna appassionata di fiction televisive, pratica e senza particolari esigenze esistenziali: la seconda è una signora della buona borghesia, mediamente infelice e ingessata nel suo ruolo di moglie-madre incapace di ribellioni. Entrambe usano lo specchio, una in modo professionale e distaccato, l’altra come scrutatore dell’anima.
Anna ha una sorella più giovane, Chiara, in grado di muoversi con naturalezza solo nel suo giardino e nei rapporti umani che sa indagare con profonda sensibilità, ma privata della vista per una malattia infantile: cieca quindi verso l’esterno ma attenta osservatrice dell’interiorità.
Le altre due protagoniste sono Lucia e Eileen, legate da un misterioso rapporto di complicità iniziato casualmente da uno scatto fotografico rubato. Ognuna di loro vede nel ritratto fotografico ciò che desidera vedere: la felicità o l’angoscia dell’altra, le proprie proiezioni e aspettative di riconoscimento. Dunque le dissolvenze cui si allude nel titolo del romanzo sembrano soprattutto indicare una difesa dall’aggressione troppo esplicita dell’esistenza.
La fotografia non riproduce la realtà, ma tende a ricostruirla: «Di autentico c’è solo il nostro sguardo iniziale… se l’immagine non corrisponde alla realtà, tanto peggio per la realtà».
Lo stile con cui Elena Rondi-Gay del Combes racconta le vicende intrecciate delle sue protagoniste è curato ed elegante, i dialoghi credibili e funzionali.

 

«Leggendaria» n.105, maggio 2014

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ROSSANDA

ROSSANA ROSSANDA, UN VIAGGIO INUTILE – EINAUDI, TORINO 2008

Einaudi ha ripubblicato nel 2008 un volume che Rossana Rossanda aveva dato alle stampe con Bompiani nel 1981, rievocando un viaggio compiuto in Spagna diciannove anni prima, nel 1962: Un viaggio inutile. O della politica come educazione sentimentale.

A Rossanda interessava documentare allora come la Spagna stesse vivendo il suo “desencanto”, adagiata in un’illusione che non si era mai travestita da azione, e tanto meno da rivoluzione – come invece molti comunisti dell’epoca avevano sperato. Soprattutto si trattava di testimoniare l’inizio di una crisi, quando, in quel 1962, a Rossanda membro del Comitato Centrale del PCI, per la prima volta “i conti non tornarono”. Quella missione, progettata per raccogliere adesioni a una manifestazione per la libertà spagnola, diventò “la misura della propria incapacità ed errore”, in un momento in cui “l’impossibilità di capire in forme vecchie e l’inafferrabilità d’una qualsiasi forma nuova” si manifestava non solo in Spagna, ma anche nel PCI.

Il paese che la giornalista si trovava ad attraversare per sondare gli umori del franchismo e dell’antifranchismo, non corrispondeva alle logore categorie di una comunista militante formatasi sui dogmi della III Internazionale. Non si trattava già più, nel ’62, di constatare la fine del fascismo, bensì di immaginare le infinite possibilità di resistenza del capitalismo. La Spagna di quel viaggio “finiva di essere qualcosa e non era ancora qualcos’altro, una crisalide”, “non era una società politicamente azzittita, ma apparentemente una società non politica; non imbavagliata, ma vuota”. Viaggio, quindi, della disillusione o della delusione crescente, che la scrittrice comunicava al lettore, immobilizzandolo in una sospensione del giudizio prolungata fino alla fine del libro.

Chi legge ora quel resoconto si aspetta qualcosa che non succede: “un amore o una storia gialla”, ironizzava Rossanda. Invece si trova a contare spostamenti e appostamenti, incontri ambigui, tracce di un’opposizione impalpabile anche se concretissima, che “lavora tenace su margini stretti… come il rumore…  di talpe pazienti”. Intorno e sopra a questo muoversi a passettini dell’antifranchismo pesava come una cappa di piombo l’immobilità del regime, “perfettamente assente in tesi, idee, atti politici e perfettamente presente come controllo”. Non smargiasso e rozzo come il fascismo mussoliniano, più furbo nel mimetizzarsi, più sottile nel concedere spiragli apparentemente inutilizzabili, più feroce nella repressione: “Mi muovevo e i miei interlocutori si muovevano con maggiore o minore audacia come fra le zampe di una tigre sonnacchiosa: la tigre era presente, ma dormiva. E se fosse invece morta? O in mutazione, già diventata un grosso gatto rabbioso ma senza artigli?”.

L’incombere di tale “Cosa, il mostro”, la presenza silenziosa della tigre, non concedeva nessuno spazio agli avvenimenti, che dunque non avvenivano: il libro si nutre di luoghi e di persone, pretesti narrativi che costituiscono il vero viaggio di maturazione politica all’interno della coscienza. Primo ed essenziale spunto narrativo sono i luoghi, la Spagna che nemmeno fisicamente corrisponde a quella immaginata dall’autrice, “aspra all’interno, sanguigna come la terracotta”: Barcellona è grigia e impenetrabile, Madrid burocratica e stracca, Siviglia stucchevole. Sono città-specchio per le allodole, non servono a inquadrare né a capire di più chi le vive. “È che Barcellona mi doleva, Madrid mi doleva. Le ricordo attraverso il mio disagio; la mia testimonianza va tarata, respinta, cancellata con la matita blu”.

Anche i personaggi dolgono, sono fatti della stessa pasta delle città, esasperanti nella loro pazienza, imprevedibili nella loro straziante abilità di far rivivere le atrocità della guerra civile. Tutti, o quasi, intenti a contarsi le ferite di un fallimento passato e di un futuro fallimentare, dal misterioso Federico in impermeabile che dall’esilio controlla la situazione e sembra prevederne con onniscienza ogni sbocco (ma finirà espulso dal PCE), all’avvocato socialista Amàt che spera nell’Internazionale, ai tre operai anarchici che non sperano più in niente.

Ma soprattutto c’è lei, Rossana Rossanda, impaziente e imprudente, mai rassegnata, così in disaccordo sempre con tutto da costituire l’unica nota sopra le righe nel monotono spartito di quell’ opposizione. Era lei, con la sua memoria risentita, che scopriva una Spagna deludente e ce la restituiva calda e tesa. Se si potesse parlare di immediatezza della memoria, questo libro ce ne offrirebbe l’occasione, perché nel recupero degli avvenimenti c’è la stessa agitazione, la stessa “faziosità” che li avevano permeati nel ’62.

Le cinque pagine finali potrebbero valere, da sole, tutto il libro. Sferzanti come i migliori articoli scritti per Il Manifesto, esplicite nella loro durezza, indignate nel rigore logico, partono dalla constatazione che non si può vivere senza idee, e che una società che ha cessato di pensarsi (sia in termini di conservazione, sia in termini di mutamento) è una società incapace di vivere, che tuttavia non sa permettersi di morire. “Una società siamo noi proiettati in eterno, prima e dopo, e la malattia che la dissolve non può cessare nell’inesistente morte”.

Se la Spagna del ’62 “non si sapeva più pensare perché non poteva più pensare di cambiare”, l’Italia dell’81 non si analizzava perché non sapeva più progettare alcun cambiamento: depressa, noiosa, malata di “una appena addomesticata peste”. I responsabili? Quelli di sempre. Ma anche “gli araldi della rivoluzione subito e oggi”, gli stessi “che domandano la fine delle certezze, anzi la loro destrutturazione”. Una vera collera viene espressa verso i teorici della politica che impudicamente “si compiacciono nella contemplazione dell’errore”, in un processo al ’68 e alla povertà del suo pensato, dimostrando tra l’altro scarsa originalità, perché è risaputo che “ogni sconfitta ridimensiona i valori; chi vince sembra più intelligente, chi perde non ha scampo”.

Rossanda trovava presuntuoso e futile il parlare da sola, da fuori; si immergeva, recuperava, interpretava. E faceva in modo che i viaggi inutili (in Spagna, nel PCI…) fossero utilissimi a qualcuno, almeno, per il presente e nel futuro di tutti.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 21 settembre 2020

 

 

 

 

 

 

 

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ROSSI

TIZIANO ROSSI, IL BRUSÍO – EINAUDI, TORINO 2025

Nella Collezione bianca di Einaudi è uscito Brusìo, di Tiziano Rossi (Milano 1935), autore di numerosi libri di poesia confluiti in un unico volume garzantiano nel 2003, e di altri testi successivi in versi e prosa, fino a Gli affaccendati pubblicato lo scorso anno da Moretti & Vitali.

Critico letterario, a lungo professionalmente attivo nell’editoria, vincitore del Premio Viareggio nel 2019, Rossi ha fatto parte tra gli anni 60 e 80 della cosiddetta “scuola lombarda”, mantenendo un coerente e raffinato profilo letterario e culturale di attenzione alla realtà umana nei suoi molteplici aspetti relazionali: di famiglia, di ambienti lavorativi e urbani, di cronache diffuse, e più ampiamente di interesse alla situazione politica e sociale internazionale. In quest’ultima raccolta, le circa cento composizioni sono suddivise in quattro capitoli privi di titolo. Il primo è dedicato alla violenza che “colpisce regolare”, a partire dagli anni della guerra “porcheria mondiale”, ricostruiti recuperando i ricordi infantili, adesso che con la stanchezza dell’età “sparito è il superfluo / e dell’accadere / conta solo l’intero”. Protetto dall’affettuosa trepidazione dei parenti, il ragazzo di allora ubbidiva alle raccomandazioni del padre (“Mai fare lamento!”) e del nonno (“Quando bisogna ballare si balla”), se a luci oscurate aspettavano timorosi il nemico, balbettando “qualche fievole orazione”: il “modesto decoro” in cui viveva la famiglia fungeva da baluardo alla paura delle bombe, perché “occorre / resistere almeno in salute”. Intorno, tremavano i muri della casa, nel cortile erano sparite le galline, e lungo i binari della ferrovia giaceva insepolto per tre giorni il corpo di una ragazza uccisa.

“Miglioreremo? Miglioreremo”, cerca ora di convincersi il poeta, pensando a un futuro pacificato. Al desiderio di un domani più sereno risponde l’ultima sezione del libro, dedicata ai bambini che sono il potenziale dell’umanità, come suggerisce pomposamente un altro nonno osservando i nipotini al parco giochi. Il tempo dei piccoli è segnato dall’incanto, indifferente al “mondo bislacco” dei grandi, alle loro domande difficili e alla prudente esattezza dei calcoli. Le altalene, i tricicli, i peluche, le partite a pallone, le recite a scuola e il gioco della bandiera, descritto con affettuosa nostalgia. Tiziano Rossi novantenne affida ai “sopravvenienti” il germogliare di nuove attese: “Si spera nei loro tantissimi eccetera. / Noi qui restiamo / docile balbuzie”.

Nelle due parti centrali del volume, l’autore transita attraverso alcune allarmate e malinconiche considerazioni sui disastri ambientali degli ultimi decenni e sulla passiva rassegnazione delle persone comuni rispetto al degrado dei rapporti umani. Con più amarezza che sarcasmo così commenta l’attualità: “Avanzano sulla statale / mandrie d’automobili sbuffanti… // Di qua le genti / nel parcheggio deposte / girano in tondo a testa bassa / ansando appena, / poi deboline si disperdono / tra le fabbrichette”, “Il nostro pianeta fabbrica e disfa / e già comincia l’enorme baraonda”, “Svelare il presente? Ma è già / sorpassato… // l’oggi precipita, il cuore indugia, / circospezione, circospezione”.

L’augurio rivolto alla Terra è che dalla catastrofe climatica possa derivare una rigenerazione prepotente, fatta di nuove giungle selvatiche, lussureggiante vegetazione tropicale, risveglio di animalità “con palpitante vena salgariana”. Chi scrive sa che non potrà assistere all’alba di una nuova epoca di ottimistico riscatto: l’età avanzata indebolisce i sensi, e la lentezza nei movimenti va accettata con consapevole tranquillità. “Gli pareva di abitare da tempo / un pallido acquario / forse una bambagia / ma in fondo / sempre era stato il suo sogno / uno zitto dissolversi mite”. L’attesa della fine non provoca disperazione: “Fluire è la cosa che conta”, “E dunque noi con la nostra / stipata valigia / andremo altrove nell’aria: / un nuovo trasloco, come tanti”, perché “mica sei il centro, nessuno lo è”. Saggiamente e con un sorriso spiazzante il poeta ammette: “Esistere è un teso rinviare / e sono necessari un po’ di ghirigori. / Per intanto sulla tavola mi aspetta / una pagnotta”, “Purtroppo eravamo mortali / però la commedia / tanto vivace / non era male, non era male”.

Lo scarso ossequio tributato alla metrica e ad altre figure retoriche (rime, assonanze, anafore, ellissi ecc.), lo stile piano e colloquiale, il lessico mai ricercato, e l’utilizzo composto e intelligente del registro ironico, fanno della poesia di Tiziano Rossi un bell’esempio di originalità formale. A livello contenutistico appare poi rilevante il suo richiamo alle responsabilità individuali verso la storia collettiva nell’intrecciarsi a quella personale, riletta con affettuosa sensibilità.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese» n. IV, aprile 2025

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ROTH

JOSEPH ROTH, LA TELA DEL RAGNO – PASSIGLI, FIRENZE 2020

Alla sua prima prova narrativa di grande respiro, rimasta incompiuta, Joseph Roth (1894-1939) seppe imprimere una forza descrittiva e insieme profetica, con stile asciutto e incisivo, di assoluto rilievo. La tela del ragno, apparso a puntate nel 1923 sull’ “Arbeiter-Zeitung“, è stato pubblicato per la prima volta in Italia nel 1975 da Bompiani, e ora viene riproposto dall’editore Passigli, insieme ad altri volumi dello scrittore austriaco. Si è parlato di quest’opera in termini di profezia, perché sembra preconizzare gli orrori e il fanatismo del nazismo, nella descrizione dell’atmosfera violenta e ottusa della Repubblica di Weimar, in cui si muovono personaggi ambiziosi e crudeli, pronti a qualsiasi abiezione pur di raggiungere e mantenere il potere.

Il protagonista è Theodor Lhose, giovane sottotenente dell’esercito tedesco durante la Prima Guerra Mondiale. Di origine modesta, umiliato sia nell’ambiente familiare sia in quello lavorativo, si prefigge di ottenere successo, ricchezza e gloria con ogni mezzo possibile, anche abdicando alla propria dignità di uomo. Lasciato l’esercito, che gli garantiva riconoscibilità e considerazione, Theodor si riduce a fare il precettore in una ricca famiglia ebrea, covando in sé sentimenti di rancorosa invidia nei confronti del padrone di casa, e di morbosa attrazione per la raffinata moglie di lui. Animato da “un’ambizione eternamente viva e tormentosa”, arriva a concedersi sessualmente alle personalità più in vista dell’esercito e del regno, entra a far parte di un’organizzazione segreta, cambia nome, ruba, uccide, tradisce amicizie e ideali, assecondando il suo delirio di onnipotenza: “Io infrango il tempo in cui sono prigioniero, il carcere buio di quest’esistenza, scuoto via l’opprimente giogo dei miei giorni e salgo, sfondo porte che sono state chiuse, io, Theodor Lohse, uomo in pericolo, ma un pericolo io stesso, ben più di un sottotenente, più di un vincitore sul cavallo che trotta in mezzo alla folla acclamante, io, forse il salvatore della patria. Di questi tempi solo chi osa vince”.

I personaggi di cui si circonda, (il Principe Heinrich, il detective Klitsche, il dottor Trebitsch, la spia russa Benjamin Lenz) sono, se possibile, ancora più abietti di lui: ma abilmente Theodor se ne serve, annodando fili invisibili, e costruendo la sua tela di ragno per irretire vittime predestinate. Comunisti ed ebrei, soprattutto, verso cui nutre un odio viscerale. Finge di partecipare a complotti e attentati per poi denunciare i congiurati, stringe false amicizie per introdursi in ambienti politicamente eversivi, scrive articoli e organizza conferenze vagheggiando di guidare un potente partito nazionalista e antisemita, piccolo e misero emulo del Führer. Messosi a capo di un gruppo armato di giovani fanatici, li guida in una strage di braccianti polacchi in sciopero, sempre con l’obiettivo esplicito di rendersi gradito al nascente regime nazista. Nel giro di pochi mesi riesce a diventare uomo di spicco del Reich, guida l’assalto al quartiere ebreo di Berlino, viene nominato capo della sicurezza nazionale. Si sposa con un matrimonio sfarzoso, si arricchisce, viene celebrato dalla folla e dalla stampa. Tuttavia, poiché il male alla lunga si condanna da solo, Theodor Lohse finisce preda della propria paranoia, circondato da nemici concreti e immaginari.

Il giudizio di Joseph Roth sul suo protagonista è severo e definitivo: “La via che seguiva scendeva pendii e traversava bassure… Theodor: l’essere vile e crudele, ottuso e insidioso, ambizioso e inadeguato, avido di denaro e volubile, l’uomo medio, empio, superbo e servile, il calpestato, l’inappagato…senza fede, senza fedeltà, assetato di sangue e limitato d’ingegno”, mediocre rappresentante della follia che stava invadendo l’Europa. L’ultima puntata del romanzo, rimasto incompiuto, fu pubblicata proprio due giorni prima del putsch di Monaco di Hitler, di cui profeticamente aveva raccontato la minacciosa preparazione.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › La-tela-del-ragno-Roth      17 marzo 2021

RECENSIONI

ROTH

JOSEPH ROTH, HOTEL SAVOY – PASSIGLI, FIRENZE 2020

Ho voluto riprendere in questi giorni la lettura dei romanzi di Joseph Roth, che mi avevano incuriosito e coinvolto più di trent’anni fa, con il proposito di dedicarmici fino all’estate, proprio per verificare se l’impressione positiva di allora permaneva anche dopo tanto tempo, successivi approfondimenti letterari, e l’inevitabile affinamento o, al contrario, inaridimento emotivo. Prendendo spunto dalla recente riproposta delle edizioni Passigli, ho iniziato il mio percorso rothiano da un romanzo che mi aveva colpito per il suo disegno caleidoscopico, un vero e proprio microcosmo di caratteri particolari: Hotel Savoy. Di un altro libro di poco successivo, Fuga senza fine, si stagliava ancora nella mia memoria la sagoma del protagonista, il tenente dell’esercito austriaco Franz Tunda, uomo futile e inane, che la lapidaria frase conclusiva condannava a un inesorabile fallimento: “Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo”.

Di Hotel Savoy, invece, non ricordavo tanto la figura del personaggio principale, quanto la struttura rutilante dell’affresco. Apparso per la prima volta nel 1924, è la seconda prova narrativa di Roth e segna già il suo approdo a una piena maturità stilistica. Narra le vicende del giovane reduce Gabriel Dan, che dopo essere stato prigioniero e aver vagato nella Russia rivoluzionaria per tre anni, arriva in una cittadina dell’Impero asburgico, Lodz – oggi polacca – dove vivono alcuni membri della sua famiglia di origine ebraica. Si presenta, sporco e denutrito, alla reception del raffinato e austero Hotel Savoy, un edificio di sette piani, chiedendo di occupare una stanza, “Sono contento di togliermi di dosso una vecchia vita, come ho già fatto tante volte in questi anni. Vedo il soldato, l’omicida, il quasi ucciso, il risorto, l’incatenato, il viandante”.

Gli assegnano una stanza al sesto piano, e da subito comprende che il livello dei piani corrisponde al ruolo sociale ed economico degli ospiti. In basso la clientela più ricca e rispettabile, in alto i più poveri e screditati. Il proprietario dell’albergo è Kaleguropulos, un misterioso signore greco che sorveglia dal suo ufficio gli affari e il comportamento di tutti, senza mai farsi vedere, circondato da una fama di terribile severità. Factotum e addetto all’ascensore è il vecchio Ignatz, individuo losco e ambiguo, che ricatta gli ospiti debitori spogliandoli dei loro miseri averi in cambio di prestiti e dilazioni sul conto mensile. Intorno tutto un brulicare di esistenze e figuranti incredibili: ballerine, clown, ipnotizzatori, caricaturisti, ma anche medici, notai e affaristi, tutti “trattenuti da qualche sfortuna”, accomunati da un destino di sofferenza e umiliazione, con vite spezzate dalla guerra, fallimenti economici, malattie e voglia rabbiosa di riscatto.

Tra loro, Phöbus Böhlaug, lo zio di Gabriel ricco e avaro che gli rifiuta qualsiasi appoggio, con atteggiamenti di farisaico paternalismo, e il figlio di lui Alexander, vanesio e libertino, pago di umiliare gli altri vantando le sue conquiste sentimentali e finanziarie. Poi alcuni equivoci industriali e commercianti che la sera si riuniscono in una saletta sotterranea dell’albergo a bere e a godersi le esibizioni di spogliarelliste. E il plutocrate Bloomfield, tornato dall’America per rivedere la città natale e visitare la tomba del padre, ormai del tutto indifferente alle sorti politiche dell’Europa.

Esiste infine il sostanzioso gruppo dei falliti infelici, tra cui spicca la giovane e delicata Stasia, artista in varietà di terz’ordine, di cui il protagonista si innamora senza trovare mai il coraggio di dichiararsi. Il vecchio e mite pagliaccio Vladimir Sancin, che muore di tisi e viene sepolto in una fossa comune, accompagnato dal fedele asino con cui si esibiva negli avanspettacoli. Hirsch Fisch, che avendo perso il suo patrimonio, vende i numeri del lotto sognati di notte, e gira nei corridoi in mutande con il pitale in mano in cerca del gabinetto. L’amico croato Zvonimir, compagno d’armi di Gabriel Dan e come lui reduce dalla Russia, coraggioso fomentatore di scioperi e ribellioni sindacali. Intorno a questa variopinta umanità di senza Dio e senza patria, gravitante nell’albergo, cresce lo scontento e il rancore degli esclusi, dei disoccupati, degli emigrati dall’est, degli ex-combattenti, che infine esplode in una rivolta sanguinosa, culminata nell’incendio e nel successivo saccheggio del Savoy, simbolo di un mondo in disfacimento.

Joseph Roth (Brody 1894 – Parigi 1939) non è certo Thomas Mann, non è Schnitzler o Musil o Broch: non eccelle quanto i maestri novecenteschi della narrativa germanica, pur respirando la stessa atmosfera malinconica della finis Austriae. Forte della sua sofferta esperienza esistenziale (esule dalla nativa Galizia a Leopoli, da Vienna a Berlino, da Francoforte a Parigi; volontario nella prima guerra mondiale e prigioniero in Russia; affascinato sia dall’ideale monarchico sia da quello rivoluzionario; fiero delle radici ebraiche eppure fedele al messaggio evangelico), il mondo che amava ritrarre non è quello intellettuale e alto-borghese celebrato dai massimi letterati di lingua tedesca. Giornalista curioso e polemico, inquieto viaggiatore, incostante negli amori e nelle amicizie, tormentato dalle malattie mentali dei parenti, irrecuperabile alcolista, finì i suoi giorni a Parigi nell’ospizio dei poveri, in preda a una crisi di delirium tremens. Quello era il suo mondo, descritto con onestà e pudore in tutti i romanzi maggiori (La marcia di Radetzky, La cripta dei cappuccini, Giobbe, La leggenda del santo bevitore): le periferie delle grandi città europee e i villaggi orientali ebraici, le basiliche gotiche e le sinagoghe, le bettole e palazzi imperiali. I suoi affreschi narrativi hanno tratti corali e fiabeschi, sarcastici e disperati; i suoi personaggi sono criminali e santi, gran dame e prostitute, usurai e banchieri: tutti umanamente dolenti, sopraffatti da un destino di morte e sofferenza. Come scrive in un’appassionata pagina di Hotel Savoy: “Stanno male gli uomini, il dolore si erge di fronte e loro come una grande muraglia. Se ne stanno avviluppati nel grigiore polveroso dei loro affanni e si dibattono come mosche prigioniere”.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 7 aprile 2021

 

 

RECENSIONI

ROTH

JOSEPH ROTH, LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI – GARZANTI, MILANO 2022

La cripta dei cappuccini, uno dei romanzi più (giustamente) famosi di Joseph Roth (1894-1939), fu pubblicato nel 1938, anno dell’Anschluss dell’Austria alla Germania. Insieme all’altrettanto noto La marcia di Radetzky, appartiene al filone “imperiale” della narrativa rothiana, che dalla metà Ottocento attraversa tutta la fin de siècle e la prima guerra mondiale, arrivando all’invasione hitleriana. Ottant’anni di storia europea descritti attraverso i destini individuali dei membri di una nobile e ricca famiglia, i Von Trotta. Uno dei suoi avi, sottotenente di fanteria di origine slovena, aveva ricevuto il titolo di barone e la promozione a capitano durante la battaglia di Solferino (1859), in cui era rimasto ferito facendo scudo col suo corpo al giovane imperatore Francesco Giuseppe. Il titolo nobiliare era rimasto ai Trotta come segno distintivo di prestigio, eccellenza e dignità, di cui si fregiava anche il protagonista e voce narrante del romanzo, il ventitreenne Franz Ferdinand. Figlio unico di madre vedova, il rampollo dei Trotta godeva della sua privilegiata esistenza in un sontuoso palazzo del centro di Vienna: “Ero giovane e sciocco, per non dire sconsiderato. Frivolo, in ogni caso. Vivevo allora per così dire alla giornata. No! Non è esatto: io vivevo alla nottata; di giorno dormivo”. Frequentava il bel mondo della capitale, caffè, teatri, gallerie, dame eleganti e avventuriere, accompagnandosi a una cerchia di coetanei aristocratici: “Ne condividevo la scettica leggerezza, la malinconica presunzione, la colpevole ignavia, l’arrogante dissipazione, tutti sintomi della rovina, di cui non intuivamo l’approssimarsi”.

L’inaspettato incontro con il cugino sloveno Joseph Branco, contadino e caldarrostaio, produce in lui una svolta improvvisa: attratto dal comportamento genuino, grezzo ma esuberante del parente appena ritrovato, Franz Ferdinand mette in discussione il proprio stile di vita artificioso e improduttivo: deciso a sperimentare un’esistenza più autentica, lascia la capitale per trasferirsi in Galizia, ospite di un semplice vetturino ebreo, Manes Reisiger. Lo scoppio della guerra lo sorprende in uno sperduto villaggio orientale, convincendolo a lasciare il reparto del Ventunesimo Dragoni presso cui era alfiere della riserva, insieme ai raffinati amici dell’aristocrazia viennese, per arruolarsi nel più ordinario e plebeo reggimento della milizia territoriale in cui militano i nuovi compagni: “Volevo morire insieme con mio cugino Joseph Branco, il caldarrostaio, e con Manes Reisiger, il vetturino di Zlotogrod, e non con dei ballerini di valzer”, convinto che “una morte assurda era preferibile a una vita assurda”. Prende quindi congedo dall’alta società viennese e dalla severa madre, redige il testamento e decide senza alcun indugio di sposare la fidanzata Elizabeth, con cui tuttavia per una serie di contrattempi non riesce a trascorrere nemmeno la prima notte di nozze. Subito spedito al fronte, nel corso di una sanguinosa battaglia contro l’esercito russo viene fatto prigioniero, portato in Siberia insieme agli altri due commilitoni, e lì rimane per quattro anni.

Definisce la guerra “mondiale non già perché l’ha combattuta tutto il mondo, ma perché tutti noi, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo”. Distrutto nel morale e nella voglia di tornare a vivere, quando finalmente torna a casa trova la giovane sposa completamente trasformata, in totale dipendenza sentimentale, sessuale e culturale da un’artista ungherese che l’ha convinta ad aderire a iniziative sperimentali di artigianato applicato. L’incontro commovente con la vecchia madre, ormai sorda e malata, visibilmente estranea alla storia collettiva e però esperta di cose umane, lo aiuta a riscoprirsi figlio, più che marito e in seguito involontario padre.

La generazione di Franz Ferdinand, votata alla morte ma sdegnata dalla morte, assuefatta alla disperazione, era stata capace di sopportare meglio la sciagura devastatrice del conflitto rispetto agli affanni e alle disgrazie particolari. Risucchiato nell’abisso dei debiti creati dall’attività della moglie e della sua amica, il barone Von Trotta è costretto a trasformare il suo palazzo in una pensione per una decina di pigionanti impoveriti e rancorosi. La sua disfatta umana è racchiusa tutta tra l’incipit e la frase conclusiva del romanzo, tra l’altera asserzione iniziale e la sconfortata ammissione finale: “Il nostro nome è Trotta”, “Dove devo andare, ora, io, un Trotta?”

La  sensibilità cristiano-ebraica attenta alla situazione degli umili e degli sconfitti di Joseph Roth, così perspicace ne cogliere la psicologia dei personaggi e profonda nelle intuizioni etiche e sociali, il suo stile conciso e puntuale, originalmente creativo nelle metafore (il solitario lampione diventa un orfano lacrimevole, l’abete una vedova livida, la piccola stazione un gatto pigro sdraiato sulla neve…) e poetico nella descrizione intenerita della natura e degli sfondi urbani, fanno di questo romanzo non solo una fondamentale testimonianza storica della dissoluzione dell’Impero austroungarico, ma soprattutto un gioiello della narrativa europea del ’900.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 16 maggio 2022