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SPAGNOLETTI

GIACINTO SPAGNOLETTI, POESIE RACCOLTE – GARZANTI, MILANO 1990

«Quanto di storia mi è transitato addosso / a me che sono un privato», scriveva uno dei nostri migliori poeti, Giovanni Giudici, in un suo componimento di alcuni anni fa. E parafrasandolo, quanta storia è transitata addosso a uno dei nostri migliori critici letterari. Giacinto Spagnoletti: storia privata, pubblica e letteraria, di cui oggi egli ci dà generosa testimonianza, pubblicando i suoi versi scritti tra il 1940 e il 1990, e occultati, quasi, severamente centellinati nell’arco di questo cinquantennio. Spagnoletti critico militante, come si amava dire nel ’68 e dopo, ha accompagnato le nostre lettere con puntuali e coraggiosi commenti, non solo tramite la sua lunga attività di docente universitario e i suoi interventi giornalistici su autorevoli quotidiani e riviste specializzate, ma soprattutto attraverso fondamentali pubblicazioni saggistiche: dalla giustamente famosa Poesia italiana contemporanea (Guanda, 1959) fino alla Letteratura italiana del nostro secolo, in tre volumi, usciti negli Oscar Mondadori cinque anni fa. L’attività poetica di un critico risulta, per forza di cose, alquanto offuscata, addirittura penalizzata, dalla sua produzione più nota e ufficiale: e Spagnoletti non si sottrae a questa considerazione, ne è stato probabilmente sempre vittima consapevole, se solo negli ultimi anni ha accettato di sottoporsi al rito inevitabile ma un po’ crudele delle letture in pubblico e della divulgazione dei suoi versi su riviste a bassa tiratura per farsi leggere come poeta. Oggi finalmente Garzanti pubblica dunque queste Poesie raccolte, e Spagnoletti diventa antologista e critico di se stesso, con l’umiltà di chi si offre a un giudizio complessivo, ma anche con l’audacia di una sfida troppo a lungo rimandata. La sua produzione poetica si scandisce grosso modo in due periodi fondamentali: alla Prima parte appartengono le sezioni Passato remoto e Ancora passato remoto, che raccolgono i versi dal ’40 al ’53, mentre più articolata e abbondante risulta la Seconda parte, che dagli anni ’70 arriva ai nostri giorni.

Pasolini, in un suo saggio del ’53 qui riproposto, scrive, a proposito dei versi della guerra e del dopoguerra, di “crepuscolarismo meridionale”, facendo i nomi di Di Giacomo e di Gatto: ma se di meridionalità si può parlare, sembra che comunque Spagnoletti abbia abbondantemente risciacquato i suoi panni in Arno, nell’ambiente frequentato al Caffè delle Giubbe Rosse, con Montale e il giovane Luzi, di cui si risentono notevoli influssi. Lo sfondo è probabilmente quello nativo del poeta, Taranto, ma rivisitato in un’atmosfera fiabesca, di ««velieri che non partono» e «alberi inclinati dal vento», di cieli grigi e paradisi di nafta, di uccelli marini e castelli oscillanti, in una scrittura che sempre privilegia la verticalità, il volo, l’ariosità, il salmastro. La nostalgia, giustamente definita da Pasolini “senza memoria”, perché appunto immemore, disinteressata ai particolari più veritieri, si è ricostruita i suoi miti. Il padre, in primo luogo, ufficiale di marina, novello Ulisse «brusco e sdegnoso come il mare»; «Quando tornerà dal paradiso,  / Capitano, ai miei gridi di fanciullo / Stupefatto l’oro del tuo berretto?» Ma anche la guerra e la resistenza, con omaggi che superano l’evento per inquadrarlo in un affresco metastorico, con i partigiani «simili a frati in un convento», «con la cupa passione della guerra»», trasfigurati attraverso la lente affettuosa e deformante della poesia. Meno idilliaco, più angosciato e critico risulta invece il rapporto con il reale nelle poesie dell’ultimo ventennio: l’elegia allora stemperata adesso si condensa in immagini più forti e nitide, la fiaba si fa cronaca, la tenerezza passione, magari temperata dall’ironia, in una progressiva ricerca di lucidità e adesione al vero. Il passato è sfrangiato da ogni residuo romantico e favoloso (Un viaggio); gli ambienti, gli odori e i personaggi dell’infanzia recuperano i loro contorni più netti (Mi ricordo); perfino le numerose poesie private (Pensieri di casa) e le dediche familiari sforano in un quotidiano universale e simbolico. In questa ricerca di adesione al reale, trova una sua giustificazione l’ Omaggio a una serva amorosa, sorta di collage operato dall’autore sulle lettere di Francesca Buschini a Giacomo Casanova, e rielaborato con fedeltà alla lingua veneziana del ‘700, secondo un registro di giocosità linguistica nuovo in Spagnoletti: «Se non mi mandate più denaro si vole / pacienza, ma non mi private / ve ne suprico, de vostri bramosi carateri / che si saranno etternamente cari».

Anche se più tipici, propri di un timbro coltivato e riconosciuto attraverso «anni di appostamenti / critici e l’abitudine di parlare / di libri costretto da altri libri», sono i versi autobiografici e sofferti del Diario di Barcellona, e quelli amari e lievi dedicati a Sandro Penna o a L’amore da vecchi: «Ahimè, nulla si muove nell’inquieto / sopore dei vecchi, l’amore è una spina / che punge di rado //…Poco o nulla si può recuperare: /… solo nomi, nomi, nomi».

 

«Hortus» n.4, luglio-dicembre 1991

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SPARAPAN

GIANNI SPARAPAN, GRAN DE ROŞARI – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2021

Studioso di storia, cultura, costumi e linguaggio del Veneto, Gianni Sparapan (Villadose 1944), insegnante, pubblicista e autore teatrale, ha pubblicato un libro di poesie dedicate al suo Polesine, Gran de roşari. Centoquaranta composizioni in lingua rodigina, con testo italiano in calce e glossario conclusivo, che attraversano un secolo di vicende sociali e familiari, sporgendosi oltre i confini ristretti del paese nativo, con uno sguardo che si allarga su pianure, monti e fiumi della regione (“El se intristisse solo, / el Po, / cô cala la fumara, / pan e companàdego de la vita nostra”), lambendo anche la Venezia Giulia (“Zità de gloria / Trieste ventana / scanpana felizità”).

Appunto come i grani del rosario cui allude il titolo, si inanellano episodi tragici della storia e della cronaca veneta, dalle vicende migratorie del primo ’900, alle guerre mondiali, alla Resistenza con i giovani partigiani impiccati a Bassano: “Jera el so silenzio, Bassan, / fin che drento i buschi de nogara / i s-ciopetava / e fóje e żoventù cascava”. Ma è soprattutto la terribile alluvione del ’51 che campeggia come un incubo nella memoria del poeta, allora bambino testimone impaurito dello straripamento di un fiume vorticoso e travolgente, che provocò lutti, evacuazioni, povertà: “spaventi somenando / e canpane a martèlo / e desperazión: aqua alta – aqua forta – aqua marza – aqua morta / aqua sassina da strada! / aqua sporca – aqua negra – aqua tròja…”.

Il borgo di Villadose rivive in una galleria di personaggi tipici, bozzetti disegnati con complice nostalgia (il barbiere, l’orbo, il calzolaio, il cappellano, il pescatore), o con la pietà di chi visita il cimitero di una Spoon River domestica, prendendo nota di suicidi e omicidi, morti infantili e lunghe agonie, compendiando in pochi versi il percorso terrestre di medici becchini prostitute fioraie maestri: a nessuna creatura sepolta viene negata la grazia di un ricordo, di una preghiera laica, che la ripaghi dal “vivare male”.

Le prove più convincenti del volume sono quelle in cui Sparapan racconta la sofferenza che lega animali e piante nello stare al mondo, come in El lamento de le creature, in cui un ciliegio, un asino, un maiale e un merlo sembrano invidiare a vicenda l’uno la sorte dell’altro, per concludere infine che nessuno di loro può dichiararsi felice della propria, nell’amara constatazione della pena che accomuna ogni esistenza. In particolare, sembra essere proprio il porcellino a patire di più l’oltraggio della crudeltà umana, nella ferocia della macellazione descritta dalla poesia iniziale, La morte del boşegato: “I xe ’ndà driti in te’l so caşón / i ghe ga messo la mordécia in boca, / i lo ga tirà fòra de pèşo. // I so zighi i’ndava in zhièlo” (La sua disperazione arrivava al cielo. // L’hanno rovesciato sull’aia / accoltellato sotto la gola / scottato con l’acqua bollente / ripulito con le raspe della setola / alzato con corde e pali fino alla trave del porticato / sventrato da sopra a sotto / tenuto aperto da paletti appuntiti / come un povero crocefisso).

Il trascorrere di mesi e stagioni, l’avvicendarsi di realtà differenti a livello spazio-temporale, ma uguali nell’eco emotivo suscitato in chi scrive, induce la stessa trepidazione vissuta nell’infanzia: Natale con la neve, l’attesa sempre delusa dei regali della Befana, il risveglio di un’innocenza primaverile a Pasqua, e poi l’estate tormentata dalle zanzare e da temporali violenti, rinfrescata dalle angurie e da frutti succosi, per tornare infine a un autunno nebbioso e grigio di paludi. Il Polesine rivisitato di Gianni Sparapan, benché maledetto dal lavoro duro dei campi e da una miseria atavica, torna a pungere proprio perché morto. Irrecuperabile, se non scavando nella memoria: “A scarpiè de ricordi / a xe tacàle beate imàjini” (A ragnatele di ricordi / restano appese le immagini care).

 

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SoloLibri.net › Gran-de-rosari-poesie-polesane-Sparapan                 20 gennaio 2022

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SPINELLI

BARBARA SPINELLI, IL SOFFIO DEL MITE – QIQAJON, BOSE 2012

«Difficile dire cosa sia la mitezza, se questi sono tempi di collera, di intranquillità, di mali che si fanno forti della docilità, della passività cittadina». Così esordisce Barbara Spinelli in questo libro che è sia una meditazione sulla mitezza, sia un elogio del carattere mite, sia un excursus letterario e filosofico sulle rappresentazioni che questa particolare disposizione d’animo e atteggiamento comportamentale ha trovato nella cultura universale dalle sue origini. Se «’mite’ significa originariamente ‘maturo’ o ‘molle’: si dice della frutta…», è evidente che non sempre il termine ha avuto nell’immaginario collettivo un’accezione positiva. Per persona mite si intende abitualmente un perdente, una figura remissiva, mansueta, rinunciataria, umile, passiva, docile: insomma, «ammansita». Ma l’autrice sottolinea con veemenza l’energia «diversa ma ugualmente intensa» che anima i miti: «una forza concentrata, riluttante all’aggressione, ma non priva di ribellione». E si sofferma ad esaminare le più importanti incarnazioni di forza, convinta indipendenza di giudizio, capacità di resistenza, rifiuto di qualsiasi succube obbedienza al potere o adeguamento alla condotta dei più: da Mosè a Gesù a Gandhi… Solidali con l’altro, animati da spirito profetico, possessori di una letizia interiore che deriva dal consapevole dominio delle proprie virtù (pazienza, perseveranza, semplicità e misericordia, in primis), i miti non rifuggono dal mondo e dall’impegno civile o politico: solamente, non ne fanno un mezzo di dominio, sopraffazione e imposizione di sé. La loro «libertà consiste nel sopportare la necessità… non è apatia ma pathos e com-passione». Forse è eccessivo fare di loro degli estatici, dei dionisiaci danzanti, come suggerisce Spinelli. Ma è vero che essi «erediteranno la terra», secondo Mt 5,5: chiamati «ad agire qui in basso, ora», salvando persino la violenza da se stessa.

 

«Leggere Donna» n.97/98, gennaio 2013

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SPURK

JAN SPURK, E SE LE RANE RICHIEDESSERO UN RE? – MIMESIS, MILANO 2015

Il testo scritto da Sartre nel 1958, deplorante l’immobilismo politico francese che invocava un uomo della provvidenza in grado di salvare la nazione, sottolineava problematiche simili – secondo il filosofo Jan Spurk– a quelle vissute oggi da molti paesi occidentali. Anti-istituzionalismo, xenofobia, incessante successione di scandali, personalizzazione del potere, asservimento dei media alle direttive partitiche. A questo fallimento dei sistemi politici corrisponde uno stato di impotenza e rassegnazione dei cittadini, incapaci di mobilitarsi nello spazio pubblico, o non più motivati a farlo. Si assiste “al consenso all’eteronomia istituzionalmente installata”: i cittadini delegano a un’autorità di cui generalmente diffidano il dominio delle loro esistenze, “non vogliono e non possono che nuotare con la corrente di questa società”. Ambiscono solo alla loro realizzazione privata: “essere sposi, figli, impiegati, campioni di biliardo… e proprietari di macchine e di appartamenti”, convinti “della propria personale impotenza a modificare il destino del proprio paese”. Viviamo tutti un’apparenza di libertà, limitata spesso solo alla sfera sessuale o dei consumi (comunque eterodiretta), riducendoci “a un piccolo numero di rapporti ben stabiliti e considerati immutabili”, in una società che “non si è democratizzata, si è massificata”. La nostra vita appare ormai “determinata da potenze che si situano fuori dell’individuo, fuori della sua volontà e fuori dei suoi interessi”. Spurk rilegge Freud, Weber, Fromm, Habermas e ovviamente Sartre, quasi solo per rinforzare le loro analisi, e ribadire il presentimento negativo di una deriva sociale ed etica incapace di ribellione: “Si assiste a un ripiegamento angosciato e all’attesa di una soluzione a questa penosa situazione tramite l’azione di una forza esteriore ai soggetti… E oggi non mancano certo, a destra come a sinistra, autoproclamati candidati a divenire un nuovo uomo della provvidenza,”un re delle rane”.

IBS, 14 maggio 2015

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SQUIZZATO

GILBERTO SQUIZZATO, UN DIO CHE NON È “DIO” – GABRIELLI, VERONA 2014

Introdotto dalle empatiche prefazioni di Christian Raimo e Andrea Ponso (due tra i nostri più impegnati intellettuali quarantenni, credenti “non allineati” e critici nei riguardi di alcune derive del cattolicesimo contemporaneo), il volume di Gilberto Squizzato Un Dio che non è “Dio” è uscito nel 2014 per le edizioni veronesi Gabrielli, che qualche settimana fa hanno pubblicato un nuovo lavoro dello stesso autore, ancora di tema religioso: Se il cielo adesso è vuoto.

La ricerca teologica e spirituale di Squizzato (giornalista-sceneggiatore-regista laico) si distanzia da ogni saccente accademismo, per definirsi invece come appassionante percorso (mosso da interrogazioni, dubbi e incertezze) finalizzato a una conquista personale della fede, in coerenza con il proprio vissuto, e nella concretezza della quotidianità. Suffragata dalle testimonianze degli scrittori più amati (Turoldo, Bonhöffer, Dostoevskij) l’analisi di Squizzato si concentra sulle domande fondamentali poste da chiunque non voglia rifugiarsi in un credo acquiescente, devozionale e immaturo. Con coraggio rifiuta molti dogmi della dottrina ecclesiale, e ancora più temerariamente affronta le perplessità in cui ci dibattiamo tutti. Perché il dolore degli innocenti, quindi; perché il male e il suo impunito dominio; perché la preghiera inascoltata e inesaudita; perché l’insanabile contraddizione tra religione e scienza. Ammettendo senza ipocrisia di rifiutare l’idea di un Dio che permetta e giustifichi la sofferenza umana (“preferisco essere ateo che affidarmi a un Dio che vuole sangue innocente per convertire e salvare i malvagi”), l’autore confessa di sentire inadeguato anche il concetto di creazione divina, ritenuto troppo semplicistico e falsificante rispetto alle conquiste della biologia e dell’astrofisica.

Se tali teorie sono ormai tranquillamente ammesse e condivise da parte della teologia più evoluta, forse è un altro l’apporto originale che Squizzato fornisce alla speculazione attuale sul cristianesimo. Sulle orme di Bonhöffer esalta la dignità del soggetto umano, che non deve vivere in uno stato di subalternità e dipendenza infantile al cospetto di una divinità invasiva e oppressiva (“non sotto Dio, ma di fronte a Dio, con Dio”), né crearsi immagini mistificatorie del divino, ma deve invece liberarsi di tutte le idee sul sacro che hanno illuso l’umanità dai suoi albori. Per questo la sua indagine si concentra sull’errore commesso per secoli di attribuire alla divinità caratteri antropomorfi, come se Dio fosse stato creato a immagine dell’uomo, e non viceversa. Si tratta allora di emancipare sia il linguaggio sia l’arte da scorie ideologiche calcificatesi nel tempo.

La radice indeuropea del termine “Dio” rimanda infatti alla luce, a un evento luminoso in sé indicibile-ineffabile-indefinibile, non corporeo e non materiale, che poi l’istituzione ecclesiastica ha tentato di rendere comprensibile ricorrendo a una terminologia antropomorfico-metaforica, sebbene nell’Esodo Jahvè stesso rifiutasse di definirsi con un nome. Squizzato, sulla scia dei mistici (Eckhart, San Giovanni della Croce, Silesius) e dei nostri contemporanee Panikkar, Lombardi Vallauri, Vannini, suggerisce di arrivare alla comprensione del divino attraverso la via apofatica, la teologia negativa, la meditazione sul silenzio, sul tempo e sul vuoto. La stessa emendazione dovrebbe essere compiuta riguardo alle figurazioni di un Dio troppo fisicamente umano tramandateci dall’arte rinascimentale, che hanno condizionato l’immaginario dei credenti in modo illusorio e puerile. La proposta dell’autore (che rilegge criticamente anche molti episodi biblici, il peccato originale, la Trinità, l’incarnazione e la resurrezione) è dunque semplice e insieme rivoluzionaria. Chi si definisce cristiano dovrebbe attenersi alle parole di Gv. 1, 18 («Dio nessuno l’ha mai visto; ma il figlio unigenito di Dio, che è nel seno del Padre, è Lui che ce l’ha fatto conoscere»), affidandosi all’insegnamento evangelico di Gesù, senza mediazioni interpretative fuorvianti. Cristo figlio di Dio è Luce perché «in lui appare riconoscibile il mistero divino», reso operante e vitale attraverso le sue opere, negli atti d’amore in grado di scardinare le prigioni del dolore e del peccato. Come Gesù, anche chi crede in lui è in grado di esistere nella luce, operando per il bene.

Una tesi fuori dagli schemi dogmatici, quella di Gilberto Squizzato, che potrebbe scandalizzare tradizionalisti e ortodossi, ma offre un approdo salvifico a chi si relazioni con il messaggio cristiano senza paludamenti, gerarchie e ormeggi convenzionali.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 27 febbraio 2018

 

 

 

 

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STANESCU

NICHITA STANESCU, LA GUERRA DELLE PAROLE – LE LETTERE, FIRENZE 1999

Di Nichita Stanescu, in Italia sappiamo pochissimo. Nato a Ploiești, in Romania, nel 1933, compì i primi studi nella città natale, quindi si trasferì a Bucarest, dove si laureò in letteratura, sposandosi tre volte e collaborando per tutta la vita a varie testate giornalistiche. Come poeta debuttò nel 1960 con la raccolta di versi Sensul iubirii (Il senso dell’amore); il suo ultimo libro uscì nel 1982, un anno prima della morte, provocata dalla grave epatite di cui soffriva a causa dell’abuso di alcol. Vinse diversi premi letterari (Premio Herder nel 1976, Premio Struga nel 1982…): nonostante la diffidenza riservatagli dalla politica repressiva di Ceausescu e lo stigma sociale da cui veniva segnato per il suo inquieto anticonformismo, anche in patria si riconosceva e celebrava la forza innovativa e sperimentale dei suoi versi, lontani da ogni retorica e propaganda civile.

Stanescu è riuscito infatti a creare nella scrittura un universo immaginario in cui ideale e fantastico convivono con realismo e concretezza, utilizzando un linguaggio inedito e straniante, che sa prendersi gioco delle regole grammaticali, servendosi di neologismi e connessioni discordanti, di non semplice decifrazione, per raggiungere effetti di giocosa visionarietà. Se nelle sue liriche hanno una netta prevalenza i temi amorosi (ma sempre dirottati verso un simbolismo surreale e talvolta grottesco, nemico di ogni facile tono idilliaco), sono pure frequenti le rielaborazioni di concetti filosofici e teologici, il recupero di miti classici, l’interesse scientifico per la fisica e la matematica, l’invenzione costante di un’esistenza parallela (distopica, diremmo oggi), che si fa beffe della logica razionale, smontando la realtà in un insieme di fenomeni non ricomponibili, come in un puzzle impazzito, e accomunando i suoi testi all’arte astratta più labirintica e alienata. In molti versi, ad esempio, è evidente l’interesse per la mutazione delle forme, in un interscambio continuo tra mondo vegetale e animale, che confonde il piano mentale con l’ossessione di sentimenti perturbanti, in una metamorfosi costante di ciò che è materia in spirito, e viceversa.

L’unico volume di Nichita Stanescu pubblicato in Italia è La guerra delle parole (con testo a fronte), uscito nel 1999 da Le Lettere, curato da Fulvio Del Fabbro, e tradotto da Fulvio Del Fabbro e Alessia Tondini, e oggi introvabile. Possiamo tuttavia recuperare alcune poesie in antologie o in rete, proposte e commentate da studiosi di letteratura romena.

 

© Riproduzione riservata                        «Nazione Indiana», 15 agosto 2019

RECENSIONI

STASSI

FRANCESCA STASSI, CI SALVERÀ LA TENEREZZA – LA QUADRA, BRESCIA 2022

Nella lettera apostolica “Patris Corde” del dicembre 2020, Papa Francesco scriveva che “solo la tenerezza ci salverà… è la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi”. Non so se consapevolmente o meno, Francesca Stassi ha ripreso le parole del Pontefice, e soprattutto l’indicazione che ne deriva, nel suo libro di aforismi e poesie, intitolato appunto Ci salverà la tenerezza.

L’idea, o la speranza, che qualcosa di immateriale possa riuscire a riscattare la sofferenza e la crudeltà della storia umana, e delle piccole storie personali che tutti noi patiamo, era già stata espressa da Dostoevskij, che attribuiva invece alla bellezza il gravoso compito di guarire il mondo, di redimerlo dal male.

Ma la tenerezza a cui affida la sua utopia Francesca Stassi è puramente, completamente umana, e si esplica nel campo dei sentimenti più delicati e fugaci: quelli d’amore. Amore per l’amato, in primo luogo: atteso, desiderato, cui affidare pensieri confidenti e grati: “Non conosco chiesa / più grande del tuo abbraccio, / altare più sacro del tuo sguardo”, “Sei la spina / a cui il mio cuore / è appeso / ferito mille volte / e mille volte arreso”, “Ho bisogno del tuo raccolto / per affrontare il mio inverno / la mia dispensa è vuota”, “E se fosse vero che tu sei me / e io sono te / e voliamo con le stesse ali / cadendo senza farci male”, “Succedimi adesso / come per caso / senza che ne sappia niente / senza averti implorato”, “È una lunga attesa / di giorni di mesi / poi stare insieme / e non dirsi niente”.

Leggendo questi versi, ne percepiamo con immediatezza l’assoluta trasparenza, l’incapacità di finzione, e la volontà di abbandonarsi a una sonorità elementare che sappia rispecchiare entusiasmi e malinconie proprie della giovinezza. Francesca Stassi è nata a Catania nel 1963, ha iniziato a scrivere poesia in età matura, eppure ritroviamo nel suo modo di rivelarsi alla pagina la freschezza e l’ingenuità di chi crede nella scrittura senza infingimenti, senza filtri. Priva di artificiosità letteraria, la sua poesia è diretta espressione dei sentimenti, e mai meditata costruzione formale, studiata elaborazione strutturale.

Danno la stessa impressione anche i testi in cui l’autrice parla di sé, ritraendosi sia nei momenti di più convinta e vivace affermazione del proprio io, sia quando confessa una sconcertata esitazione, un turbamento nel non riuscire a trovare il proprio spazio di donna: “Ho voglia di colori / come se qui fosse un lungo inverno / deciso a rimanere per sempre”, “Ci sono giorni / che sul vestito / ho già le idee chiare / ma è sul volto / che non so cosa indossare”, “Stanno proiettando la mia vita / ed io fuori a cercarne un’altra”, “Ho mille volti, / età diverse, / scatole con altre vite / tra i capelli: / rossi, neri, castani, biondi. / Sono tante donne indefinite. / Sono antica”.

Nei versi di Francesca Stassi troviamo un’adesione spontanea e felice agli aspetti luminosi dell’esistenza, nella convinzione ribadita che ogni attimo, ogni ora, ogni giorno vada goduto nella sua pienezza: ma oltre a questo c’è la consapevolezza della fugacità della vita, del suo implacabile e severo scorrere verso la fine. Allora il timore di perdersi, e di perdere l’amore e la bellezza sognati, trova nella sapienza aforistica la sua manifestazione: “E quando avrò compreso quasi tutto / sarò casa abitata / perché nulla riempie più delle domande”, “Il buongiorno / è quella foglia stanca / che pur cadendo / non pensa di morire”.

Solo la tenerezza, recuperata nel tempo vissuto e da vivere, e nelle parole affidate al foglio bianco, può salvarci e salvare dal nulla quello che amiamo.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Ci-salvera-la-tenerezza-Stassi      1 giugno 2022

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STEFAN

VERENA STEFAN, OSPITI ESTRANEI – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2012

Il bel viso di Verena Stefan (Berna, 1947) si offre sorridente al lettore di questo libro in realtà drammatico e sofferto, pubblicato dalle eleganti edizioni di Luciana Tufani, da sempre intelligentemente schierate dalla parte delle donne e della loro scrittura. E femminista dichiaratamente lesbica si è definita con orgoglio sin dal suo esordio letterario questa autrice svizzera, trasferitasi presto a Berlino, e poi in Canada, sempre inseguendo con coerenza un suo impegno civile e politico di lotta per i diritti delle minoranze. Ospite estranea di tre diversi paesi (dapprima come cittadina elvetica di padre tedesco mai completamente accettato a Berna, quindi immigrata in Germania e infine a Montreal), Verena Stefan ha fatto del suo sentirsi “altra”, straniera, disorientata, un mezzo per meglio riuscire ad esplorare se stessa, le persone intorno, l’ambiente e soprattutto la lingua con cui rapportarsi al mondo. Così l’impatto con la natura sconfinata e affascinante del Quebec, con i suoi laghi e boschi, e lo sforzo di impadronirsi di diversi e stranianti vocabolari (francese e inglese), o di adeguarsi ad atteggiamenti e abitudini lontani dallo spirito europeo, avrebbe potuto indebolire il suo carattere naturalmente combattivo: se non fosse stato mediato dalla naturalezza espansiva della sua compagna canadese, Lou, e dalla tenera sensualità di lei: «Il suo corpo porta iscritti gesti di seduzione e di offerta, un inchino appena accennato nel quale si intrecciano richiesta e sfida». Verena, ospite estranea sebbene mai rifiutata di un paese straniero, si è trovata improvvisamente a lottare contro un malefico intruso che tentava di divorarle il corpo. La sua guerra contro il tumore, le lunghe sedute di chemioterapia, il cambiamento osservato nelle parole e nei gesti degli altri, vengono descritti dall’autrice con parole intrise di stupore e sofferenza, ma analiticamente lucide: «Una volta nominata, la parola “cancro” fa alla velocità della luce il giro delle teste e dei corpi dei presenti. Modifica il loro paesaggio interiore, come se il cancro fosse contagioso, come se la crescita incontrollata potesse trasmettersi e trascinare con sé anche quelli che vanno a tentoni nella luce, perché non sanno cosa succede nella luce».

La riscoperta della propria vulnerabilità fisica passa dunque per Verena attraverso un nuovo rapporto con l’altro da sé, con l’amata, con il paesaggio, con i ricordi dell’infanzia: «Si avverte urgente il bisogno di dire a voce alta: Io». Scrive nella postfazione Emanuela Cavallaro: «Per istinto di conservazione, per la disperata volontà di salvarsi ed evitare il dissolvimento completo, e insieme per sancire la riconquista del sé. La crisi è superata, il soggetto di nuovo uno con se stesso». Fare spazio a ciò che è estraneo, accettarlo per renderlo da nemico a complice del superamento di ogni negatività: e scriverne con coraggio. Una lezione che Verena Stefan ha imparato sulla sua pelle e saputo trasmettere a chi legge.

 

«criticaletteraria», 17 febbraio 2014

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STEINER

GEORGE STEINER, I LIBRI HANNO BISOGNO DI NOI – GARZANTI, MILANO 2013

Nel primo e nel terzo dei tre saggi che compongono questo volume di George Steiner, l’illustre critico (Parigi, 1929) esibisce una sua appassionata, vibrante, devota, apologia del libro, “oggetto” culturale e di culto a cui ha dedicato tutta la vita, da quando, a sei anni, suo padre iniziò a leggergli Omero, Shakespeare, Heine. E del libro indaga con arguta intelligenza teoremi e corollari, introducendo il lettore alle sottili distinzioni tra testo e percezione del testo, al mistero dell’incontro con la lettura (talvolta casuale) che può cambiare la vita, alla «neurochimica» dell’atto creativo: e poi al ruolo collaborativo del lettore, alla ottusa perfidia del potere che si esprime nella censura, alla vitalità eterna dei personaggi romanzeschi capaci di sopravvivere ai loro creatori, al destino futuro dell’editoria davanti all’implacabile avanzare di nuove tecniche informatiche, al declino inevitabile della lettura tradizionale, basata su memoria, concentrazione, silenzio, competenza letteraria. Ogni grande letteratura è sovversiva, afferma Steiner, perché «dice NO alla barbarie, alla stupidaggine, alla banalizzazione delle nostre attività e dei nostri giorni causata dall’etica consumistica del capitalismo tardivo». E ogni libro dimenticato «è sempre capace di resuscitare… un libro autentico non è mai impaziente». Se questi due saggi sono espressi in uno stile accattivante e con temi totalmente condivisibili, è invece il secondo testo del volume ad offrire al lettore spunti di riflessione più originali e polemici, capaci di suscitare permalosità e discussione. Con il titolo di  Il popolo del libro, Steiner esamina da ebreo il rapporto del popolo ebraico con la scrittura, che per due millenni si è totalmente identificata con Le Scritture: «La sinagoga è accecata dal ‘letteralismo’, dalla chiusura nelle immobili minuzie del testo e del commento, dell’idolatria per la lettera». Sottolineando «il valore morale, la dignità intellettuale della condizione ‘libresca’ dell’ebreo», Steiner ne mette però in luce anche la pericolosa ossessione per l’esegesi, che ha dato luogo a una «produzione interminabile, parassitaria, secondaria e, in definitiva, sterile, come un fiume di sabbia nel deserto della Namibia», e che ha immobilizzato la cultura ebraica in una sostanziale aridità letteraria e filosofica per molti secoli. Solo con Kafka e con i romanzieri contemporanei americani si è finalmente spezzato «il lungo monopolio della testualità rituale e giuridico-esegetica del giudaismo», producendo addirittura una sorta di rivolta edipica, tesa a «demolire il logocentrismo patriarcale» attraverso l’ironia dei media, o il decostruzionismo e il postmodernismo, o i contributi odierni alla logica formale. Molto interessante risulta poi la riflessione di Steiner sulla differenza tra la scrittura normativa, prescrittiva della cultura ebraica, essenzialmente filologica, e invece l’oralità dell’insegnamento di Socrate e di Gesù, basato sull’incontro con l’altro, sulla «vitalità metaforica della parola pronunciata»: quindi sulla distinzione fondamentale, istituita dal cristianesimo, tra “lettera” e “spirito”. Ma proprio in questa sua intransigente fedeltà alla “lettera” Steiner individua la particolare passione del popolo ebraico, che ne ha garantito la millenaria sopravvivenza a dispetto di ogni persecuzione: un popolo «krank an Gott, affetto dal cancro del pensiero», sopravvissuto grazie a «questa grande follia, questa irresistibile sete di conoscenza e di esercizio intellettuale». E la cui minaccia di estinzione può venire oggi non tanto da nuovi pogrom e guerre religiose, quanto dal suo desiderio di omologazione: «il giudaismo si esaurisce nella più distruttiva delle condizioni favorevoli: la normalità».

 

«incroci on line», 23 novembre 2013

RECENSIONI

STEINER

GEORGE STEINER, DIECI (POSSIBILI) RAGIONI DELLA TRISTEZZA DEL PENSIERO

GARZANTI, MILANO 2016

 

Uno dei maggiori critici e intellettuali al mondo, George Steiner (Parigi, 1929) ha pubblicato nel 2005 questo folgorante e incisivo saggio che oggi Garzanti ripropone in edizione economica. Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero si apre con una pregnante ed esplicita citazione da Schelling che, già agli inizi dell’800, sottolineava l’inevitabile malinconia derivante dalla consapevolezza della nostra precarietà di creature mortali, e dalla imprescindibile finitezza dell’esistenza umana.  Steiner parte quindi dall’affermazione del filosofo tedesco per elencare, in modo chiaro ed esemplificativo, dieci motivazioni che gravano sull’animo dell’uomo, rendendolo “pesante”. E queste motivazioni sono tutte collegate e dipendenti dal pensiero, cioè dal fatto che siamo – come scriveva Pascal – “canne pensanti”, fragili sì, esposti a qualsiasi incidente o fatalità fisica e psichica: ma pensiamo. Da ciò deriverebbe appunto, secondo Steiner, la nostra irrimediabile tristezza.

Perché il pensiero è illimitato (1): «possiamo pensare tutto e su tutto». Possiamo credere in Dio, nella resurrezione dei corpi, nella trasmigrazione delle anime, nell’inferno, così come nell’entropia, nel collasso dell’universo, nel nulla che ci aspetta. Ciò ci rende dubbiosi e frustrati. Pensiamo poi in modo incontrollato (2), raramente riuscendo ad astrarci dagli stimoli esterni, ancora più raramente concentrandoci in profondità; i nostri pensieri sono anarchici e ondeggianti, subiscono intrusioni e influenze, seguono impulsi irrazionali.

Quando pensiamo, pensiamo in noi stessi e a noi stessi, non ci è dato di conoscere profondamente la mente dell’altro, nemmeno di chi più amiamo. Ma questa unicità non ci rende unici (3), perché i prodotti della nostra intelligenza e creatività «sono stati pensati, sono pensati, saranno pensati milioni e milioni di volte da altri». Nessuna opera d’arte è davvero originale, nessuna forma di comunicazione può definirsi davvero nuova. «Pensare è il più comune, usurato, ripetitivo degli atti». Non esiste nessuna verità autoevidente, incontrovertibile, eterna (4). «Tutte le asserzioni di verità, che siano dottrinali, filosofiche, storiche o scientifiche, sono soggette a errore, falsificabilità, revisione e cancellazione». La maggior parte dei nostri processi di pensiero, consci o inconsci, in sonno o in veglia, taciti o articolati, sono pura e affaticante dispersione di energia, confusa e senza scopo, che svanisce nell’oblio dello scarto indifferenziato (5). Il pensiero non produce nessun effetto immediato, concreto: «non fa accadere nulla ‘direttamente’, eccetto se stesso», e la neurochimica contesta la consequenzialità intenzionale tra causa ed effetto. Pare, insomma, non ci sia nessuna libertà di coscienza (6), ma che viviamo eternamente condizionati da altro.

Possiamo trattenere il respiro, non il pensiero, che non si ferma nemmeno nel sonno: forse crea se stesso, forse crea la realtà esterna, ed è sempre modificato da qualche presupposizione psicologica, corporea, culturale o dogmatica. Non riuscirà mai ad approdare a una verità incontaminata, primigenia, condannato com’è all’incertezza e all’oscurità (7). La finzione, l’autocensura, il filtro mina i rapporti col prossimo, soprattutto nel sentimento amoroso, anche nei momenti di maggiore intimità e nella fusione erotica. Si è più sinceri nella paura, nell’odio e nel riso spontaneo che nell’amore. Pensare significa essere mendaci, e ci rende estranei l’uno all’altro (8). La grande massa dell’umanità pensa seguendo indicazioni e mode prestabilite o indotte, in modo superficiale e senza porsi domande, per approssimazione, seguendo un “rumore di fondo” indistinto: la creatività del genio è isolata e considerata pericolosa, asociale, antidemocratica (9).

L’oggetto del pensiero è autonomo o tributario dell’atto di pensare? Realismo o idealismo? Si può pensare l’essere, si può pensare il nulla, si riesce davvero a pensare la propria morte e la fine del proprio pensiero? Qui, sulla decima motivazione della nostra irrimediabile malinconia, il percorso di George Steiner si ferma: l’uomo è triste perché «estraneo a se stesso e all’enormità del mondo… Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell’enigma della natura – o dello scopo, se ce n’è uno – della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte e alla possibile presenza o assenza di Dio». Che tristezza.

 

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www.sololibri.net/ragioni-tristezza-pensiero-Steiner.html      13 novembre 2016