Mostra: 1201 - 1210 of 1.382 RISULTATI
RECENSIONI

SIMENON

GEORGES SIMENON, PIOGGIA NERA – ADELPHI, MILANO 2002

Georges Simenon, autore non solo di gialli e di noir che hanno segnato un’epoca, ma anche di straordinari romanzi di atmosfera, scrisse Pioggia nera nel 1939, alle soglie del luttuoso evento bellico: di quell’epoca tragica e oscura rimangono in questo racconto il senso opprimente di un grigiore non solo atmosferico, ma anche politico, sociale, familiare. Come sempre maestro nella descrizione di ambienti e personaggi, Simenon tratteggia qui una storia circoscritta nell’ambito ristretto di un nucleo parentale, letta attraverso gli occhi di un bambino di sette anni, Jérôme Lecoeur, figlio di piccoli commercianti di tessuti, proprietari di un negozio di stoffe in una cittadina della Normandia. Jérôme vive nel soppalco dell’appartamento dei genitori, osservando dalla finestra con ostinata curiosità la pioggia sporca che batte sulla tettoia di zinco sottostante, la piazzetta del mercato animata da personaggi folcloristici o patetici, e soprattutto il piccolo dirimpettaio Albert, silenzioso e malaticcio, con cui scambia sguardi di muta solidarietà. Improvvisamente, la sua tranquilla esistenza di figlio unico, affettuosamente protetta dai due genitori indaffarati nel loro lavoro ma premurosi e attenti, viene sconvolta dall’arrivo della settantaquattrenne zia del padre, una megera strabordante di cattiveria e adipe, baffuta, ansimante e sporca, che impone la sua ingombrante presenza in cambio dell’aleatoria promessa di un futuro lascito ereditario. Zia Valérie tormenta il nipotino con sadismo, costringendolo ad ascoltare le sue lamentele e i suoi negativi apprezzamenti su ogni accadimento esterno ed interno alla famiglia: “Lei odiava me e io detestavo lei… Per certi aspetti aveva la mia stessa età. Quando litigavamo, per esempio, lei non litigava con me come un adulto con un bambino, ma come un bambino con un altro bambino. E anche a tavola sbirciava il mio piatto per assicurarsi che mia madre non mi avesse servito un pezzo migliore del suo!”. Il rapporto tra la “vecchia foca” e Jérôme si nutre di dispetti e sadismi reciproci, sfociando addirittura in una insofferenza ideologica, quando il bambino prende istintivamente le parti dei compaesani più umili, costretti a vivere di piccoli espedienti, o dei rivoltosi che con le loro proteste e gli scioperi reclamano una maggiore giustizia sociale. Il contrasto tra la mamma, dolce e laboriosa, continuamente umiliata dalle pretese domestiche della zia e dai suoi maligni commenti sulla cucina e sull’arredamento della casa, si acuisce quando tutto il quartiere rimane coinvolto nella spietata caccia a un terrorista anarchico da parte della polizia. L’intimorito sentimento di pietà umana di Jérôme e dei genitori per il fuggiasco si scontra con il crudele rigore dell’anziana Valérie, ferocemente ostile a qualsiasi rivendicazione politica, al punto da esibire la sua trionfante soddisfazione per la cattura dell’uomo, e per la sua futura decapitazione. «Non provavo né tristezza né collera, le mie lacrime erano l’espressione tiepida e liquida di un grande vuoto, di un immenso avvilimento… Mia madre smise di mangiare e mi guardò anche lei: poi il suo sguardo si posò su zia Valérie e io capii che era finita, che quella schifosa se ne sarebbe andata”.

 

© Riproduzione riservata    

https://www.sololibri.net/Pioggia-nera-Georges-Simenon.html      15 marzo 2018

 

RECENSIONI

SIMENON

GEORGES SIMENON, IL TRENO – ADELPHI, MILANO 2020

Non è stato solo uno dei massimi giallisti del’900, Georges Simenon (1903-1989): è stato anche un grande romanziere, che proprio dal suo scrivere centinaia di libri noir e polizieschi ha saputo trarre abilità particolari: l’attenzione all’indagine psicologica dei personaggi, l’intelligenza nella costruzione degli ambienti e delle situazioni in cui essi si muovono, la sapienza nel condurre dialoghi credibili, la capacità di creare nel lettore il senso di un’attesa curiosa ma non impaziente dello svolgersi degli avvenimenti. Non ultima, poi, la padronanza di uno stile asciutto ed elegante, senza indulgere alla retorica o a una troppo scaltra condiscendenza verso i gusti del pubblico. Penso che chiunque abbia letto La neve era sporca, Lettera al mio giudice o quel piccolo gioiello di perfidia e dedizione che è Lettera a mia madre possa confermarlo.

Il treno, pubblicato nel 1961, vent’anni dopo lo svolgimento dei fatti che vi sono raccontati, è uno dei libri più noti e ammirati del romanziere belga. Il famoso filosofo e sinologo François Jullien, nel suo intenso volume Sull’intimità, gli dedica addirittura un capitolo intero di ammirato commento.

In centocinquanta pagine Simenon racconta una vicenda sentimentale iscritta all’interno della tragedia dell’invasione tedesca della Francia all’inizio della seconda guerra mondiale. Il protagonista e voce narrante è Marcel Féron, un radiotecnico trentaduenne, sposato con Jeanne, incinta al settimo mese. I due hanno già una bambina, Sophie, e vivono in una casetta con un cortile, un cane, un piccolo pollaio, adiacente al laboratorio in cui l’uomo trascorre con regolarità le sue giornate dedicate al lavoro e alla famiglia. L’avviso diramato per radio dell’avanzare delle truppe del Reich getta l’intero paese di Fumay, sul fiume Mosa, ai confini con il Belgio, nel più totale trambusto: è venerdì 10 maggio, Danimarca, Norvegia e Olanda sono già state occupate.

Marcel, che aveva trascorso l’adolescenza in sanatorio e soffriva di una miopia invalidante, è stato riformato e non teme l’arruolamento, tuttavia accorgendosi che intere famiglie del vicinato si apprestano a lasciare le loro abitazioni, decide di porsi in salvo insieme alla moglie e alla figlia. Affida agli anziani vicini le chiavi di casa e gli animali, riempie due valigie di vestiti e cibo, e con un carretto a mano si precipita alla stazione. Qui una folla di persone di tutte le età, impazienti e smarrite, aspetta l’arrivo del primo treno diretto verso ovest. All’arrivo del convoglio, le infermiere e i gendarmi smistano il gruppo, facendo salire sulle prime carrozze le donne e i bambini, mentre ammassano gli uomini negli ultimi vagoni merci. Quello su cui sale Marcel, dopo aver lasciato i bagagli alla moglie, puzza di stalla, perché adibito in precedenza al trasporto di bestiame: vi si pigiano perlopiù anziani del paese, impauriti e zitti, indifferenti gli uni alla sorte degli altri.  Lui stesso si lascia trascinare dagli eventi, senza opporre resistenza, con rassegnato fatalismo: “Fino al giorno prima ero io a dirigere la mia vita e quella dei miei cari… Ora non più. Non avevo più radici. Non ero più Marcel Féron… ma un uomo fra milioni di altri uomini in balìa di forze superiori”.

Inizia il viaggio, estenuante e gravoso, del convoglio, che spesso è costretto a fermarsi su binari morti, cambiando direzione per l’improvviso intensificarsi dei combattimenti e le incursioni degli aerei tedeschi. Marcel ha la netta sensazione di trovarsi a una svolta importante della sua vita, a un appuntamento con il destino cui non può né vuole sottrarsi: “Non mi dispiaceva affatto, anzi, provavo una sorta di gioia torbida, come quando si distrugge qualcosa che si è pazientemente costruito con le proprie mani”.

La promiscuità all’interno del vagone crea imbarazzo in alcuni, diffidenza e circospezione in altri, sfrontata esibizione delle proprie voglie sessuali e dei bisogni fisiologici nei più disinibiti. Marcel è attratto dalla vista di una giovane donna vestita di nero, che lo osserva con uno sguardo sospeso tra timidezza e pietà. Inevitabile che i loro corpi si avvicinino, si sfiorino, e poi nella notte si accoppino con naturalezza innocente e ingorda insieme, “silenziosi entrambi come due serpenti”. Simenon racconta l’attrazione erotica tra i due profughi con delicata e solidale indulgenza, la stessa con cui descrive la serena e placida bellezza delle campagne attraversate dal treno, mentre dal cielo cadono le bombe e raffiche di mitragliatrice si abbattono su chi incautamente scende dai vagoni.

Con pudore la donna rivela la sua identità: si chiama Anna, ed è un’ebrea di origine cecoslovacca, fuoriuscita da un carcere del nord. Mentre il treno attraversa una Francia irreale, lambendo Reims, Bourges, Nantes, diretto verso Bordeaux, Marcel e Anna approfittano di ogni sosta per fare l’amore, sui prati, sull’argine di un fiume, nascosti agli altri e sempre più coinvolti emotivamente, pur consapevoli che la loro storia non può avere futuro.

“Ma era poi lei che amavo, o la vita? Non so spiegarmi: io ero nella sua vita; avrei voluto rimanerci per ore, non pensare più a nient’altro, diventare come un albero al sole… Si era prodotta una frattura. Ciò non significa che il passato non esistesse più, né tanto meno che rinnegassi la mia famiglia e avessi smesso di amarla. Semplicemente, per un tempo indeterminato, vivevo in un’altra dimensione, i cui valori non avevano nulla in comune con i valori della mia vecchia vita… Se dovessi descrivere il posto, potrei parlare soltanto delle chiazze di ombra e di sole, del colore rosato di quel giorno, del verde della vigna e dei cespugli di ribes, del mio torpore, una sorta di benessere animalesco, e mi chiedo se quel giorno io non sia arrivato il più vicino possibile alla perfetta felicità”.

Arrivati al centro di accoglienza di La Rochelle (che Simenon descrive con cognizione di causa, essendovisi trasferito nel 1940 per occuparsi dei profughi belgi), i due amanti trascorrono un mese lavorando e fingendo uno scampolo di routine matrimoniale, finché Marcel viene raggiunto dalla notizia che sua moglie Jeanne ha partorito in un ospedale della Vandea. Con Anna si mette fortunosamente in viaggio per ricongiungersi alla sua famiglia, separandosi dall’amata sul portone del reparto di maternità, con consapevole e malinconica ragionevolezza.

Si incontreranno di nuovo anni dopo, per pochi minuti e in un’occasione tragica, quando già Marcel è tornato a Formay: “Ripresi la mia vita dal punto in cui l’avevo lasciata, com’era mio dovere, com’era destino, perché era la sola soluzione possibile e non avevo mai pensato che ce ne potesse essere un’altra…”. Simenon fa concludere il racconto al protagonista con scarne parole: “Non sono mai ritornato a La Rochelle. Non ci tornerò mai. Ho una moglie, tre bambini, un’attività commerciale in rue du Château”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali»      5 ottobre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SIMENON

GEORGES SIMENON, GLI ALTRI – ADELPHI, MILANO 2023

L’ultimo libro di Georges Simenon uscito da Adelphi, che da anni ristampa con successo l’opera omnia dell’autore belga, si intitola Gli altri, ed è stato pubblicato in Francia nel 1961. Non si tratta di un giallo, genere di cui lo scrittore è celebrato maestro, ma di un romanzo psicologico, ambientato nel secondo dopoguerra in una cittadina francese di provincia, pettegola e conformista, e circoscritto alla storia della numerosa ed eclettica famiglia Huet.

Utilizzando la formula del diario, l’io narrante Blaise – ventottenne docente di disegno all’Accademia di Belle Arti, sposato con Irène – scandisce la propria narrazione suddividendola nelle sette giornate seguite alla morte dell’anziano zio Antoine. Blaise ed Irène conducono una vita matrimoniale monotona ma appagante per entrambi, tradendosi vicendevolmente senza alcun sotterfugio o senso di colpa. D’altra parte, tutti i membri della dinastia degli Huet (fatta eccezione per il fratello di Blaise, Lucien, modesto giornalista cattolicamente ligio ai propri doveri di marito-padre-cittadino, e per alcune figure femminili, dignitose nella loro fragilità) non esitano a mostrare il loro lato peggiore, si tratti di smodate ambizioni per ottenere successi economici e professionali, o di condotte sessuali che oscillano tra la superficiale disinvoltura e la depravazione. In particolare il cugino Édouard, tornato in città dopo un’assenza di molti anni, collaborazionista e spia dei nazisti, truffatore più volte finito in carcere, catalizza su di sé l’ostile imbarazzo di tutto il nucleo familiare, restio a perdonarlo e ad accoglierlo nuovamente tra le mura domestiche.

Blaise si riconosce pusillanime nei confronti della moglie adultera, frustrato socialmente e culturalmente (“Sono solo un mediocre, lo so, ma un mediocre lucido, direi persino, senza esagerare troppo, un mediocre soddisfatto”), ma sa anche di essere il solo in grado di registrare lucidamente ciò che accade intorno, tentando di rinsaldare i logori rapporti che negli anni hanno allontanato genitori e figli, fratelli e cugini, coniugi e amanti. La città in cui vive gli assomiglia, gli è estranea e insopportabie: “città della mia infanzia, della mia adolescenza, dove la vita non aveva sbocchi e dove non restava che cercare di vincere la noia”.

Il funerale dello zio Antoine, il cui suicidio viene raccontato ad apertura del romanzo, scatena una guerra sotterranea tra tutti i parenti in vista della divisione ereditaria. Giurista potente e rispettato, oculato amministratore del suo ricco patrimonio, innamorato della giovanissima moglie Colette -donna affascinante e inquieta, psichicamente instabile, sospetta ninfomane -, Antoine Huet viveva in una signorile palazzo in Quai Notre-Dame, frequentato raramente e con reverenziale timore da tutto il vasto consorzio parentale. Le sue esequie diventano un avvenimento rivelatore cui tutta la famiglia si sottopone con ansia e turbamento, come se l’evento “morte” mettesse ciascuno di fronte alla propria meschinità di piccola, insignificante ed egoista creatura umana. La cerimonia nella cattedrale gremita di personalità importanti e semplici curiosi, vede i consanguinei a disagio, sospettosi e indaganti le intenzioni e aspettative altrui riguardo alle decisioni testamentarie del caro estinto. “Mi chiedevo che cosa ci facevamo lì, tutti quanti, a seguire dei riti che comprendevamo solo in modo approssimativo… Il tutto assomigliava a una grande, spettacolare liquidazione… Ce l’eravamo cavata con canti, paramenti, canonici, insomma una sfarzosa messinscena sproporzionata ai personaggi che eravamo”.

Neppure la notifica dell’eredità dello zio Antoine, con un più che dignitoso vitalizio alla giovane moglie, e le restanti proprietà divise tra i tre nipoti maschi Blaise, Lucien ed Édouard, cambia qualcosa nell’esistenza di chi è rimasto. In particolare, non modifica in alcun modo l’atteggiamento dell’io narrante Blaise, sempre più apatico e indifferente nei riguardi di sé stesso e degli altri. Quegli altri che Simenon ha lapidariamente omaggiato nell’essenziale  titolo del suo romanzo.

“La vita continua… Fuori, i lampioni si erano appena accesi. Ho camminato lungo rue de la Cathédrale, poi lungo rue des Chartreux, guardando le stesse vetrine di quando avevo sedici anni”.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 21 dicembre 2023

 

RECENSIONI

SIMIC

CHARLES SIMIC, CLUB MIDNIGHT – ADELPHI, MILANO 2008

Leggendo Club Midnight l’antologia di versi dell’ americano Charles Simic, che Adelphi gli ha dedicato definendolo “uno dei maggiori poeti contemporanei”, caratterizzato da “un inconfondibile impasto di mistero e quotidianità” e dalla “trasparenza della parola”, balzano alla mente le sacrosante parole che il critico Alfonso Berardinelli ha coraggiosamente scritto in un suo saggio (“Leggere è un rischio”): “Anche per la poesia è poi arrivato dagli Stati Uniti lo stile da ’creative writing’, che permette di produrre diligentemente una poesia al giorno buttando l’occhio sulle pareti della propria stanza, sul bricco del tè, sui movimenti dei vicini di casa: niente rime, meglio evitare la punteggiatura, il verso venga indicato dal semplice andare a capo, usare molto gli spazi bianchi che sono sempre suggestivi”.

Quindi, scrittura piana, immediata, che nasce da uno sguardo impassibile ma puntuale su esterni e interni fisici e mentali. Berardinelli pensava anche a Charles Simic scrivendo quello che ha scritto? Gli interni ci sono: “La lampada sul comodino / si impegnava a conferire / alla stanza un’aria di mistero”, “Quanti minuti / in un bicchier d’acqua / accanto al letto?”; “Parlami dei granelli di polvere / posati sul mio comodino”; “e le voci / difficili da distinguere all’inizio / anche se premo l’orecchio contro la parete”. E gli esterni: “Alcune case appena pignorate / con finestre color delle pozzanghere / che stanno per gelare, i cortili soffocati / di erbacce e auto arrugginite”.

E tanta, tanta America desolata: tavole calde deserte, ubriaconi e giocatori d’azzardo, strade polverose osservate con disincantato occhio fotografico. Come nella poesia più bella del libro, Autostoppisti, un po’ Easy Rider un po’ Simon and Garfunkel: “Lei lavorerà come domestica o cameriera, / lui farà il benzinaio o assalterà banche. / Compreranno una macchina grande come un carro funebre / per fuggire lontano veloci, / ma non si scorderanno di tirarti su, amico, / se anche a te non andrà tanto bene”.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Club-midnight-Charles-Simic.html   3 ottobre 2016

RECENSIONI

SIMONCELLI

STEFANO SIMONCELLI, PROVE DEL DILUVIO – ITALIC PEQUOD, ANCONA 2017

Nato a Cesenatico nel 1950, Stefano Simoncelli è poeta appartato che però ha al suo attivo pluripremiate raccolte di versi e una lunga militanza letteraria, soprattutto come redattore della rivista Sul porto, che negli anni 70 raccolse intorno a sé prestigiose firme culturali italiane ed europee. Da poco ha pubblicato presso l’editore marchigiano Italic Pequod un elegante libro di poesie e prose intitolato Prove del diluvio, sulla cui copertina di un azzurro acceso campeggiano tre orme di gatto, evidentemente amputato della quarta zampetta, a indicare una traccia labile, disorientata, che si avventura prudente nel campo minato della scrittura. In effetti, lo stile di Simoncelli si rivela da subito come particolarmente curato, attento a evitare qualsiasi ridondanza retorica nella forma e nella sostanza; ma anche cauto, sommesso, tendenzialmente felino come suggeriscono l’allusione al gattino zoppicante e il titolo stesso del libro: “Prove”, in attesa di qualcosa che sta per arrivare, e incombe incontenibile quasi fosse un nubifragio. La memoria, forse? Un passato di affetti familiari perduti e rimpianti, come nelle sezioni dedicate al padre, alla madre e alla moglie morta più di dieci anni fa?

Così scrive in Elenio Wagner Debiase, una delle tre notevoli prove narrative antologizzate, cammei di amare biografie di uomini perdenti: «ognuno, ha imparato col tempo, si aggrappa dove può se sta attraversando la corrente di un fiume in piena. I guadi li trovano i più fortunati e lui non è mai stato tra quelli. È uno da tralicci, uccelli migratori e fulmini». Qui un Elenio, impiegato dell’Enel in pensione, vive su una squinternata palafitta ai confini del porto, in preda a malinconie e fantasmi che si incarnano imprevedibilmente in un petulante ed istrionico invasore, giudice spietato dei suoi fallimenti e delle sue paure, forse allucinazione o alter-ego inventato per farsi compagnia.

Nelle venti poesie dedicate al padre (Un lungo brivido di freddo) è ancora in primo piano il rapporto controverso tra due uomini, legati indissolubilmente non solo dal vincolo di sangue, ma da una odiosamata dipendenza reciproca. Il poeta bambino guarda al padre come a un esempio da imitare («la fragile eleganza / trasognata con cui saliva le scale»; «Possedeva il formidabile talento / di trasmutare l’incredibile in credibile»; «Con quello strampalato arsenale del niente / inventava e costruiva…»), insieme con il rancore di chi teme l’esplosione di un’improvvisa violenza dovuta all’ubriachezza. Un bambino che si fa carico delle debolezze paterne, al punto da perdonargli anche la disattenzione nei suoi confronti, e che persino da adulto è costretto ad ammettere: «Sto sempre ritornando a casa di mio padre». Ne Il talento che era mia madre e in Cartoline al tuo silenzio Stefano Simoncelli rende omaggio alle donne più importanti della sua vita: la madre (nella logora vestaglia rossa dei tanti ricoveri ospedalieri, nelle due gocce di profumo di mughetto spruzzato sulla tunica di lino prima di uscire, negli umili gesti da casalinga operosa), e la moglie: la cui assenza incombe come un’eterna condanna per un irragionevole rimorso da sopravvissuto («Mi sento un ladro con le chiavi / in questa casa troppo piena / di ogni cosa e vuota»; «non sei più raggiungibile / e non puoi telefonare da nessuna cabina, // o almeno è quello che molti credono»).

Il pensiero della morte – la propria avvertita con rassegnato presentimento, quella altrui dolorante nel ricordo – anima anche l’epilogo del volume, nell’attesa di un dopo sentito quasi come una liberazione, per la stanchezza fisica e per l’irrimediabile abbandono delle persone amate: «voglio farmi trovare pronto: / ho il nécessaire per la notte e la pila», «penso che ho fatto il mio tempo, // dato tutto il peggio e il meglio. / Tiro il freno d’emergenza, / saluto tutti e scendo». Il tono discreto, l’elegante equilibrio della poesia di Simoncelli non si manifesta solo nei temi della raccolta, ma soprattutto nella sua fedeltà alla tradizione letteraria del nostro novecento, nei versi rispettosi di una metrica e di un ritmo musicale mai ostentato, eppure sapiente e rigoroso.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Prove-del-diluvio-Simoncelli.html;       31 marzo 2017

RECENSIONI

SIMONELLI

MARCO SIMONELLI, IL PIANTO DELL’ARAGOSTA – D’IF, NAPOLI 2015

Di Marco Simonelli, giovane poeta-performer-traduttore fiorentino, la casa editrice napoletana D’If ha pubblicato lo scorso anno una raccolta di versi dal titolo insolito e intrigante: Il pianto dell’aragosta. Le tre sezioni di cui si compone il suo libro sono comprese tra due poesie, in apertura e conclusione, che suggerendo e paventando ipotetiche e minacciose persecuzioni o condanne (proprie e altrui, private e sociali), ne irridono sarcasticamente gli effetti: «levar non sai / quel ghigno rosso fisso sulla faccia / che beffa e burla l’ombra dei tuoi guai», «è tempo di occhi cerchiati di nero / è tempo d’arrendersi, accendere un cero». Già da subito mettendo in campo le armi formali e di contenuto che caratterizzano il poetare dell’autore, intelligentemente allusive all’eredità dal suo più illustre concittadino, Aldo Palazzeschi: l’ironia e l’uso ribadito e spiazzante della rima.

Già da una prima veloce lettura del testo, si viene colpiti dalla franchezza esibita con cui Marco Simonelli si apre a tutto ciò che lo circonda, a qualsiasi cosa riveli un’anima pulsante: personaggi e paesaggi, animali e abitudini quotidiane, amori e delusioni. Raccontando un “noi” coinvolgente e solidale, anche nella critica e nello sbeffeggiamento, con una comprensione canzonatoria ma clemente di tutto quello che è “altro”. Così nella prima parte, un “Bestiario” descrive in otto componimenti l’affanno sofferente degli animali, torturati dall’indifferenza umana: chiocciole, roditori, gatti moribondi, coniglietti, cuccioli di cinghiali, e appunto l’aragosta («L’aragosta va bollita viva. / Stordita dall’ossigeno boccheggia / sul marmo di cucina. //… Si dice che al contatto con la morte / emetta un grido, strilli, / un pianto disperato, stile supplica»). Il confronto tra il dolore innocente e la crudeltà impassibile non dà adito a giudizi recriminatori, ma viene semplicemente inquadrato visivamente in immagini esplicite, che hanno un impatto quasi cinematografico.

La seconda e la terza sezione ci introducono in ambientazioni decisamente più umane, nei rapporti che si instaurano tra amici, nei paesi, in villeggiatura, nei condomini o nei bar. In “Cortesie per gli ospiti” e ne “Il settimo anno”, la gentilezza rimane comunque da salvare anche quando le relazioni sono improntate all’interesse, alla vanità, a un’inaspettata invidia, al tradimento. Lo stile scelto per raccontare episodi di vita ha un impianto narrativo e teatrale (che forse manifesta qualche debito al Giudici de La vita in versi, e al Luzi di Nel magma), ma addolcito da cantabilissimi endecasillabi, e attualizzato da espressioni idiomatiche («Vacci tranqui», «Ecchecazzo s’è rotto l’ascensore»).

Raccontati nei loro gesti, tic, atteggiamenti e propensioni morali possono essere i pazienti chemioterapizzati di una clinica asettica, nei loro rimpianti per l’ospedalizzazione più umana del passato («erano altri tempi quelli lì / si stava male stando tutti insieme»), la compagnia di amiconi che si rivela improvvisamente aggressiva («Beviamo vino, parliamo dell’amore, / il nostro sciocchezzaio aumenta di volume»), la straripante matrona versiliana che troneggia in spiaggia e nei locali a la page, ma viene tradita dal marito vanesio («E molle s’affloscia caliente la pelle abbrustolita / croccante panatura un tempo di fanciulla / ormai sfiorita»). Un caravanserraglio di varia umanità, disperata o gaudente, la cui osservazione e descrizione non mette tuttavia al riparo da crisi sentimentali, da rancori riaffioranti come fantasmi del passato, dalle strazianti separazioni dall’amato: «Sarà come voltarsi all’improvviso / e vedere un totale sconosciuto / là dove poco fa c’era il tuo viso», «Adesso puoi permetterti di piangere. / Puoi farlo in santa pace, è tuo diritto». Una poesia, quella di Marco Simonelli, che non teme di essere dichiarativa, estroversa, antidogmatica e, perché no?, anche sentimentale.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/pianto-aragosta-Simonelli.html      10 novembre 2016

 

 

 

RECENSIONI

SIMONELLI

MARCO SIMONELLI, L’ESTATE STA FINENDO – LECONTE, ROMA 2011

Marco Simonelli (Firenze 1979), poeta, critico e traduttore, pubblica questo libriccino di originali poesie, dai versi lunghi e dalle cadenze narrative, ma animate da una musicalità discreta e catturante, in cui riesce a intrecciare il suo privato (la scoperta adolescenziale della propria omosessualità: non ostentandola polemicamente, ma sottolineandola con sensibile ironia) alla deludente storia collettiva di un recente passato italiano. Dopo una breve intervista iniziale, in cui rimarca cos’è oggi necessario a chi scrive (“tenersi sempre pronti… ascoltare il ritmo, le pause, i tentennamenti… essere curiosi… essere eretici”), Simonelli da subito esplicita la sua cultura impastata di musica (Soft Cell, Cure e Bauhaus) e di internet (“e questo è confermabile, lo dice wikipedia, è un fatto vero”). La “prova schiacciante” della sua diversità è il ricordo di quando bambino si esibiva ballando “davanti ai grandi”. Ma l’infanzia è anche il condominio abitato da esistenze disagiate, inquiline pazze e casalinghe suicide, o gite al mare turbate dalla cottura crudele dei girini d’anguilla. E ancora l’adolescenza, in cui i primi, intimoriti trasalimenti sessuali appaiono innocentissimi rispetto al corrotto affarismo di un losco socio d’affari del padre, in un’Italia “economicamente destabilizzata”: e gli eccitati incontri con il mondo dei trans (prostituzione ed estrogeni, silicone e spudorate esibizioni di sensualità) sono raccontati con umanissima partecipazione, priva di qualsiasi retorica, in un linguaggio che sa calibrare neologismi e citazioni dotte (Puccini, Artusi, Ovidio come Brandon Lee e Tom Cruise; la pineta toscana frequentata da pederasti e la Senna o Malibu; i Rayban e i ghiaccioli Calippo). Ma soprattutto il tremore del sentimento vero con “la ripetizione meccanica dell’atto”. Allora la parodia di Presso il Bisenzio di Mario Luzi è un’addolorata e sarcastica constatazione di quanto storia, società e poesia si siano trasformati negli ultimi, frustranti, 50 anni.

IBS, 8 luglio 2012

RECENSIONI

SIMONIGH

CHIARA SIMONIGH, LA DANZA DEI MISERI DESTINI, TESTO&IMMAGINE, TORINO 2000

Chi ha amato Decalogo di Krzysztof Kieślowski (oggi scaricabile in tutti i dieci episodi su diverse piattaforme streaming) può leggerne un’esauriente e appassionata esegesi nel volume La danza dei miseri destini di Chiara Simonigh, pubblicato nel 2000 ma ancora facilmente recuperabile nelle librerie online. Il libro si apre con un excursus sulla biografia di Kieślowski, nato a Varsavia nel 1941 e morto nella stessa città nel 1996, in seguito a un intervento al cuore. Orfano di padre dall’adolescenza, la sua vita fu segnata da problemi di salute, familiari, economici e da persecuzioni politiche. Laureato alla Scuola di Cinema di Łódź nel 1969, iniziò la sua carriera girando documentari, per cui si valse della collaborazione dell’avvocato Krzysztof Piesiewicz, divenuto suo prezioso sceneggiatore in quasi tutti i film successivi, caratterizzati dall’assenza di effetti speciali o spettacolari, da dialoghi scarni e da temi concentrati su laceranti dilemmi etici ed esistenziali.

Il cinema “di pensiero” di Kieślowski raggiunse il suo apice espressivo proprio nel Decalogo, serie di 10 mediometraggi prodotti dalla televisione polacca  dal 1988 al 1989: ogni episodio della durata di un’ora circa, indipendente dagli altri, racconta storie di vita quotidiana, ispirate vagamente o in maniera più esplicita a uno dei dieci comandamenti biblici. Chiara Simonigh ne offre un’accurata sinossi, presentando i vari personaggi nell’incalzare degli avvenimenti esteriori che li coinvolgono, conducendoli poi verso scelte definitive e discriminanti. Il luogo in cui le vicende accadono è un anonimo condominio del quartiere Stowski di Varsavia, dall’architettura spoglia e squadrata, a sottolineare la presenza spersonalizzante, livellatrice del regime. I condomini vivono vite parallele ma estranee tra loro: di tanto in tanto alcuni personaggi appaiono fuggevolmente e in modo enigmatico in puntate diverse, come a richiamare un’unicità di destino, o all’opposto uno stridente contrasto. Una sola figura ritorna con insistenza in tutti e dieci film, osservatore misterioso e silenzioso, testimone dell’accaduto o di ciò che accadrà, incarnazione di un giudizio destinato a restare inespresso.

Gli anni in cui il Decalogo fu ideato e girato avevano visto nascere dapprima la dittatura comunista di Jaruzelski nel 1981, in un clima di terrore e abbattimento sociale, quindi la contrapposizione del movimento sindacale di Solidarność, appoggiato dalla Chiesa: come alternativa al totalitarismo e alla paralizzanti paure della sua gente, Kieślowski scelse di dare voce ai conflitti interiori, alla destrutturazione psicologica individuale, alle domande esistenziali delle singole coscienze piuttosto che alle imposizioni del potere e alla ribellione politica collettiva. Preminente era infatti nelle sue inquadrature il senso di desolazione degli ambienti esterni ed interni, che rifletteva sia la rassegnazione e la mancanza di iniziativa popolare, sia un insopprimibile senso di colpa, di sospetto e di vergogna nei rapporti interpersonali.

In tutti gli episodi il richiamo a una spiritualità capace di superare la contingenza materiale del vivere mantiene sempre qualcosa di segreto e indecifrabile, non direttamente collegabile a qualche fede o esperienza religiosa, estraneo a ogni schema dottrinale, lontano da toni moralistici. Il regista polacco in più riprese ebbe a definirsi laico: “Da quarant’anni non vado in chiesa… Bisogna cercare Dio in altre cose cha vadano oltre Dio… Non credo in Dio, ma anche non credendo, ho comunque un rapporto con Lui”. Il dio privato di Kieślowski non fa riferimento a nessuna Chiesa (non è presente alcun rappresentante del clero in tutto il ciclo), ma il sentimento del divino è innegabilmente pervasivo e perturbante in tutta l’opera, simbolicamente rappresentato da segnali provenienti da un aldilà, da un altrove non razionalizzabile: oggetti, animali, suoni, ricorrenze visive, presagi imperscrutabili, indizi sibillini privi di nessi logici che mirano a sconcertare chi guarda, ponendogli domande ineludibili.

Chiara Simonigh lo conferma: “Lo spettatore è continuamente posto dinanzi all’inesplicabile, alla contraddizione, al paradosso, senza che questo scalfisca in nulla la trasparenza, a tratti così limpida da risultare intollerabile, del realismo dei dieci film”.

L’autrice indaga trasversalmente forme e contenuti delle diverse puntate utilizzando alcune questioni fondamentali presenti in varia misura in ciascuna di esse: il senso metafisico di un’alterità che pur rimanendo inconoscibile continua a interrogare le coscienze, la contrapposizione tra caso e destino, la colpa e il castigo osservati dall’implacabile lente della giustizia, il corpo nella sua gloria e nella sua miseria, il paradosso impietoso del grottesco nella tragedia. Tanti i casi umani raccontati: il rapporto genitoriale, la morte ingiustificabile di un bambino, il tradimento nella coppia, l’avidità, l’omicidio, la malattia, l’eroismo e la viltà, la sensualità, il perdono, la tentazione. La relazione con i dieci comandamenti dell’Antico Testamento non è dichiaratamente espressa, ma rimanda allusivamente all’insieme di norme che per millenni hanno indirizzato la condotta morale dell’intera civiltà occidentale, comunemente accettate e continuamente trasgredite.

Oltre all’importante esegesi offerta nel libro di Chiara Simonigh, un più recente e-book di due psicanalisti friulani (A mani vuote, di Sandra Puiatti e Moreno Manghi) suggerisce un’analisi critica acutamente provocatoria del Decalogo, a indicare quanto questi film di iKrzysztof KieślowskI ancora oggi possano offrire al pubblico spunti di riflessione, com’è nella natura di ogni capolavoro.

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 8 luglio 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SIMONSEN

KIM SIMONSEN, LA COMPOSIZIONE BIOLOGICA DI UNA GOCCIA DI ACQUA DI MARE PORTA CON SÉ L’ECO DEL SANGUE NELLE MIE VENE  – I LIBRI DI MOMPRACEN, FIRENZE 2025

 

L’arcipelago delle Fær Øer, appartenente alla Danimarca, è situato tra l’Atlantico settentrionale e il Mar di Norvegia, e a metà strada tra le Isole Shetland e l’Islanda. Gli abitanti parlano una lingua più simile all’islandese che a quelle scandinave, e in questa sua non facile lingua nativa Kim Simonsen, poeta e docente di letteratura a Reykjavik, ha composto i versi recentemente pubblicati dalle edizioni I libri di Mompracen con un titolo lunghissimo e suggestivo: La composizione biologica di una goccia di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene.

Curatore del volume è Giovanni Agnoloni, che nell’approfondita e appassionata postfazione si sofferma sia sulla personalità di Simonsen – da lui conosciuto parecchi anni fa – sia sulla propria traduzione dall’edizione inglese del volume, sorretta da un puntuale confronto con la specifica terminologia faorese.

Già dal titolo possiamo intuire quali sedimentazioni di pensiero nutrano la raccolta: la convinzione, intellettuale e morale, che esseri umani e non umani appartengano a un’unica realtà fisica condivisa, e in particolare che sia l’acqua, nelle sue varie nature costitutive, il comune denominatore della fisicità

universale. Le isole Fær Øer (dove Ingmar Bergman si era ritirato e ha voluto essere seppellito nel 2007, dopo avervi girato i suoi film più emotivamente intensi), sono battute dal vento e avvolte nella nebbia, sferzate da piogge violente per la maggior parte dell’anno. In questo paesaggio, umido e malinconico, sono ambientate le liriche di Simonsen, nutrite non solo da una visione olistica (in cui convergono tracce di eco-criticismo, post-umanismo e neo-materialismo), ma anche da profonde conoscenze biologiche, chimiche, geografiche.

Le quattro sezioni di cui si compone il volume (Prima mattina sulla terra, La storia naturale dello spinarello, La filosofia dei pesci, Umani) abbracciano scenari diversi, da quelli più personali e intimistici ad altri che prendono in considerazione ambienti e specie animali, vegetali, minerali tutte in qualche modo fluttuanti, immerse, galleggianti nel mondo liquido: fiumi, laghi, mari, preesistenti a noi e destinati a durare oltre al nostro limitato ciclo vitale di esseri umani, in un moto ondoso perenne, nel “flusso e riflusso del tempo”.

Nella sezione di apertura del libro, Simonsen racconta del ritorno alle sue isole dopo vent’anni di assenza negli ultimi giorni di vita del padre, fino al decesso (“Stamani è morto mio padre; / per tutta la vita ha navigato / gli oceani del mondo”, “Forse c’è qualcosa che non riusciamo a vedere / e di cui nella mia famiglia non parlavamo mai, / ed è per questo che sono tornato nel luogo in cui nacqui / come la trota di mare nascosta nel fiume / che scorre attraverso il villaggio”.

Nella sua “prima mattina / sulla terra / senza un padre” il poeta cammina sulla spiaggia in “sciaguattanti stivali di gomma verde”, osservando le onde che si infrangono tra le rocce, e prendendo nota della vita brulicante che lo circonda nel mare (meduse, alghe, attinie, patelle e mitili), nell’aria (un pettirosso e vari insetti), tra la vegetazione (lombrichi, scarafaggi, funghi, un gatto, una lepre, pecore nere dello Shetland), consapevole di essere lui stesso parte di una natura in continua trasformazione e disfacimento: “Sono virus, / sono alga, / Sono ciò che è ammuffito. // Sono uno / che sa che, / se non altro, tutti questi agenti / un giorno / lo decomporranno / proprio come l’afide / e la lumaca spagnola / divorano la pianta”. E questa consapevolezza torna negli ultimi versi della raccolta: “Ben presto mio padre s’infrangerà come un’onda contro gli scogli e sparirà”.

L’essenza fisica del reale costituisce “una rete intercomunicante” che collega cielo, terra, acque e viventi in “uno stato di flusso liqueforme” in cui “il corpo è una sorta di anima, / e che è attraverso quest’anima / che il mondo entra in noi, / che noi entriamo nel mondo”, in un’eterna distruzione e rinascita che si protrae da millenni: “L’oceano sta erodendo queste sponde; / i flutti s’infrangeranno su questa terra / finché l’ultimo faraglione non sarà abbattuto”. Perché “dall’oceano siamo venuti tutti, / all’oceano tutti ritorneremo”, come già affermava Anassimandro, asserendo che “tutto ciò che sta morendo / ritorna all’elemento / da cui proveniva”. E noi veniamo da lì, da un amnio che ci ha formato e cullato, grande utero marino che di nuovo ci accoglierà, cellule piene d’acqua come siamo, pronte a scioglierci “nell’offuscarsi del flusso evolutivo”

Quindi nelle due parti centrali della silloge, l’attenzione del poeta si sofferma sui pesci, nostri progenitori, dai minuscoli spinarelli alle trote con cui giocava da bambino, sapendo che bisogna dare voce a chi non ha voce, ma esiste, vive, sente esattamente come noi: “Ascolta ciò che non può essere udito, e poi scrivine. / Ascolta gli alberi più antichi, rendi omaggio a quelli morti da poco. / Ascolta Glisomigliamo ad altri esseri viventi / dai corpi non umani”, “Siamo umani / anche quando il Neanderthal che è in noi / afferra una mosca / e, per una frazione di secondo, / valuta se mangiarla”.

Siamo umani, ripete il poeta, e siamo anche animali, pesci, batteri, virus, alghe, funghi, manifestazione di un’energia vitale della materia che ci rende parte di un tutto cosmico pulsante, vibrazioni destinate a perpetuarsi nel cambiamento, “rigagnolo tra epoche diverse”.

 

«Gli Stati Generali», 8 luglio 2025

 

RECENSIONI

SINI

CARLO SINI, IL GIOCO DEL SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

L’editore Mimesis ripropone (in una collana tutta dedicata al silenzio) questo breve e prezioso saggio del Professor Carlo Sini, già pubblicato da Mondadori nel 2006. Una lunga meditazione, ma resa in termini quasi colloquiali, e senz’altro ispirati, sulla natura del silenzio, che è «l’intorno e l’intervallo…è prima di ogni cosa, però è anche tra le cose: le separa…un impercettibile intervallo al mutare di ogni stato di cose». Silenzio che può maturare nell’assenza e nel vuoto, o come opposizione, contrasto, sottolineatura della parola. Quindi la riflessione filosofica deve partire proprio da qui, dalla nostra capacità/possibilità di espressione, dal linguaggio: «La parola rompe il silenzio. Ma lo fa anche apparire». E quanti sono i silenzi che ci circondano: il silenzio dell’ignorante e dell’ignorato, il silenzio dell’animale, dell’infante, della nuvola, che «sono quello che sono e sanno fare quello che fanno senza bisogno di parlarne». Il silenzio di Dio, che non preoccupa né l’ateo né il credente convinto, ma turba chi si interroga sul suo «imponente, onnipresente, esorbitante riserbo», forse giustificabile solo come salvaguardia della nostra libertà.
Quel silenzio che rende «irriducibile ogni domanda, inconsistente ogni risposta, imprevedibile il futuro, irrevocabile il passato, col suo bene e col suo male, decisiva, emozionante e inquietante la croce del presente…».

La scrittura del filosofo diventa in queste righe intensa e profetica, quasi a farsi «coscienza desta della vita…giusta eco del silenzio del mondo…aspirazione silenziosa che vive nell’esperienza di tutti», perché «la virtù prima del filosofo non è la parola, bensì l’ascolto, non è la ragione espressa, ma la domanda silenziosa». Che il linguaggio salvi, esprima la sua carità. Altrimenti, come scriveva Wittgenstein, meglio che taccia.

 

«Accademia del silenzio», 16 dicembre 2013

error: Content is protected !!