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STEFAN

VERENA STEFAN, OSPITI ESTRANEI – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2012

Il bel viso di Verena Stefan (Berna, 1947) si offre sorridente al lettore di questo libro in realtà drammatico e sofferto, pubblicato dalle eleganti edizioni di Luciana Tufani, da sempre intelligentemente schierate dalla parte delle donne e della loro scrittura. E femminista dichiaratamente lesbica si è definita con orgoglio sin dal suo esordio letterario questa autrice svizzera, trasferitasi presto a Berlino, e poi in Canada, sempre inseguendo con coerenza un suo impegno civile e politico di lotta per i diritti delle minoranze. Ospite estranea di tre diversi paesi (dapprima come cittadina elvetica di padre tedesco mai completamente accettato a Berna, quindi immigrata in Germania e infine a Montreal), Verena Stefan ha fatto del suo sentirsi “altra”, straniera, disorientata, un mezzo per meglio riuscire ad esplorare se stessa, le persone intorno, l’ambiente e soprattutto la lingua con cui rapportarsi al mondo. Così l’impatto con la natura sconfinata e affascinante del Quebec, con i suoi laghi e boschi, e lo sforzo di impadronirsi di diversi e stranianti vocabolari (francese e inglese), o di adeguarsi ad atteggiamenti e abitudini lontani dallo spirito europeo, avrebbe potuto indebolire il suo carattere naturalmente combattivo: se non fosse stato mediato dalla naturalezza espansiva della sua compagna canadese, Lou, e dalla tenera sensualità di lei: «Il suo corpo porta iscritti gesti di seduzione e di offerta, un inchino appena accennato nel quale si intrecciano richiesta e sfida». Verena, ospite estranea sebbene mai rifiutata di un paese straniero, si è trovata improvvisamente a lottare contro un malefico intruso che tentava di divorarle il corpo. La sua guerra contro il tumore, le lunghe sedute di chemioterapia, il cambiamento osservato nelle parole e nei gesti degli altri, vengono descritti dall’autrice con parole intrise di stupore e sofferenza, ma analiticamente lucide: «Una volta nominata, la parola “cancro” fa alla velocità della luce il giro delle teste e dei corpi dei presenti. Modifica il loro paesaggio interiore, come se il cancro fosse contagioso, come se la crescita incontrollata potesse trasmettersi e trascinare con sé anche quelli che vanno a tentoni nella luce, perché non sanno cosa succede nella luce».

La riscoperta della propria vulnerabilità fisica passa dunque per Verena attraverso un nuovo rapporto con l’altro da sé, con l’amata, con il paesaggio, con i ricordi dell’infanzia: «Si avverte urgente il bisogno di dire a voce alta: Io». Scrive nella postfazione Emanuela Cavallaro: «Per istinto di conservazione, per la disperata volontà di salvarsi ed evitare il dissolvimento completo, e insieme per sancire la riconquista del sé. La crisi è superata, il soggetto di nuovo uno con se stesso». Fare spazio a ciò che è estraneo, accettarlo per renderlo da nemico a complice del superamento di ogni negatività: e scriverne con coraggio. Una lezione che Verena Stefan ha imparato sulla sua pelle e saputo trasmettere a chi legge.

 

«criticaletteraria», 17 febbraio 2014

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STEINER

GEORGE STEINER, I LIBRI HANNO BISOGNO DI NOI – GARZANTI, MILANO 2013

Nel primo e nel terzo dei tre saggi che compongono questo volume di George Steiner, l’illustre critico (Parigi, 1929) esibisce una sua appassionata, vibrante, devota, apologia del libro, “oggetto” culturale e di culto a cui ha dedicato tutta la vita, da quando, a sei anni, suo padre iniziò a leggergli Omero, Shakespeare, Heine. E del libro indaga con arguta intelligenza teoremi e corollari, introducendo il lettore alle sottili distinzioni tra testo e percezione del testo, al mistero dell’incontro con la lettura (talvolta casuale) che può cambiare la vita, alla «neurochimica» dell’atto creativo: e poi al ruolo collaborativo del lettore, alla ottusa perfidia del potere che si esprime nella censura, alla vitalità eterna dei personaggi romanzeschi capaci di sopravvivere ai loro creatori, al destino futuro dell’editoria davanti all’implacabile avanzare di nuove tecniche informatiche, al declino inevitabile della lettura tradizionale, basata su memoria, concentrazione, silenzio, competenza letteraria. Ogni grande letteratura è sovversiva, afferma Steiner, perché «dice NO alla barbarie, alla stupidaggine, alla banalizzazione delle nostre attività e dei nostri giorni causata dall’etica consumistica del capitalismo tardivo». E ogni libro dimenticato «è sempre capace di resuscitare… un libro autentico non è mai impaziente». Se questi due saggi sono espressi in uno stile accattivante e con temi totalmente condivisibili, è invece il secondo testo del volume ad offrire al lettore spunti di riflessione più originali e polemici, capaci di suscitare permalosità e discussione. Con il titolo di  Il popolo del libro, Steiner esamina da ebreo il rapporto del popolo ebraico con la scrittura, che per due millenni si è totalmente identificata con Le Scritture: «La sinagoga è accecata dal ‘letteralismo’, dalla chiusura nelle immobili minuzie del testo e del commento, dell’idolatria per la lettera». Sottolineando «il valore morale, la dignità intellettuale della condizione ‘libresca’ dell’ebreo», Steiner ne mette però in luce anche la pericolosa ossessione per l’esegesi, che ha dato luogo a una «produzione interminabile, parassitaria, secondaria e, in definitiva, sterile, come un fiume di sabbia nel deserto della Namibia», e che ha immobilizzato la cultura ebraica in una sostanziale aridità letteraria e filosofica per molti secoli. Solo con Kafka e con i romanzieri contemporanei americani si è finalmente spezzato «il lungo monopolio della testualità rituale e giuridico-esegetica del giudaismo», producendo addirittura una sorta di rivolta edipica, tesa a «demolire il logocentrismo patriarcale» attraverso l’ironia dei media, o il decostruzionismo e il postmodernismo, o i contributi odierni alla logica formale. Molto interessante risulta poi la riflessione di Steiner sulla differenza tra la scrittura normativa, prescrittiva della cultura ebraica, essenzialmente filologica, e invece l’oralità dell’insegnamento di Socrate e di Gesù, basato sull’incontro con l’altro, sulla «vitalità metaforica della parola pronunciata»: quindi sulla distinzione fondamentale, istituita dal cristianesimo, tra “lettera” e “spirito”. Ma proprio in questa sua intransigente fedeltà alla “lettera” Steiner individua la particolare passione del popolo ebraico, che ne ha garantito la millenaria sopravvivenza a dispetto di ogni persecuzione: un popolo «krank an Gott, affetto dal cancro del pensiero», sopravvissuto grazie a «questa grande follia, questa irresistibile sete di conoscenza e di esercizio intellettuale». E la cui minaccia di estinzione può venire oggi non tanto da nuovi pogrom e guerre religiose, quanto dal suo desiderio di omologazione: «il giudaismo si esaurisce nella più distruttiva delle condizioni favorevoli: la normalità».

 

«incroci on line», 23 novembre 2013

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STEINER

GEORGE STEINER, DIECI (POSSIBILI) RAGIONI DELLA TRISTEZZA DEL PENSIERO

GARZANTI, MILANO 2016

 

Uno dei maggiori critici e intellettuali al mondo, George Steiner (Parigi, 1929) ha pubblicato nel 2005 questo folgorante e incisivo saggio che oggi Garzanti ripropone in edizione economica. Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero si apre con una pregnante ed esplicita citazione da Schelling che, già agli inizi dell’800, sottolineava l’inevitabile malinconia derivante dalla consapevolezza della nostra precarietà di creature mortali, e dalla imprescindibile finitezza dell’esistenza umana.  Steiner parte quindi dall’affermazione del filosofo tedesco per elencare, in modo chiaro ed esemplificativo, dieci motivazioni che gravano sull’animo dell’uomo, rendendolo “pesante”. E queste motivazioni sono tutte collegate e dipendenti dal pensiero, cioè dal fatto che siamo – come scriveva Pascal – “canne pensanti”, fragili sì, esposti a qualsiasi incidente o fatalità fisica e psichica: ma pensiamo. Da ciò deriverebbe appunto, secondo Steiner, la nostra irrimediabile tristezza.

Perché il pensiero è illimitato (1): «possiamo pensare tutto e su tutto». Possiamo credere in Dio, nella resurrezione dei corpi, nella trasmigrazione delle anime, nell’inferno, così come nell’entropia, nel collasso dell’universo, nel nulla che ci aspetta. Ciò ci rende dubbiosi e frustrati. Pensiamo poi in modo incontrollato (2), raramente riuscendo ad astrarci dagli stimoli esterni, ancora più raramente concentrandoci in profondità; i nostri pensieri sono anarchici e ondeggianti, subiscono intrusioni e influenze, seguono impulsi irrazionali.

Quando pensiamo, pensiamo in noi stessi e a noi stessi, non ci è dato di conoscere profondamente la mente dell’altro, nemmeno di chi più amiamo. Ma questa unicità non ci rende unici (3), perché i prodotti della nostra intelligenza e creatività «sono stati pensati, sono pensati, saranno pensati milioni e milioni di volte da altri». Nessuna opera d’arte è davvero originale, nessuna forma di comunicazione può definirsi davvero nuova. «Pensare è il più comune, usurato, ripetitivo degli atti». Non esiste nessuna verità autoevidente, incontrovertibile, eterna (4). «Tutte le asserzioni di verità, che siano dottrinali, filosofiche, storiche o scientifiche, sono soggette a errore, falsificabilità, revisione e cancellazione». La maggior parte dei nostri processi di pensiero, consci o inconsci, in sonno o in veglia, taciti o articolati, sono pura e affaticante dispersione di energia, confusa e senza scopo, che svanisce nell’oblio dello scarto indifferenziato (5). Il pensiero non produce nessun effetto immediato, concreto: «non fa accadere nulla ‘direttamente’, eccetto se stesso», e la neurochimica contesta la consequenzialità intenzionale tra causa ed effetto. Pare, insomma, non ci sia nessuna libertà di coscienza (6), ma che viviamo eternamente condizionati da altro.

Possiamo trattenere il respiro, non il pensiero, che non si ferma nemmeno nel sonno: forse crea se stesso, forse crea la realtà esterna, ed è sempre modificato da qualche presupposizione psicologica, corporea, culturale o dogmatica. Non riuscirà mai ad approdare a una verità incontaminata, primigenia, condannato com’è all’incertezza e all’oscurità (7). La finzione, l’autocensura, il filtro mina i rapporti col prossimo, soprattutto nel sentimento amoroso, anche nei momenti di maggiore intimità e nella fusione erotica. Si è più sinceri nella paura, nell’odio e nel riso spontaneo che nell’amore. Pensare significa essere mendaci, e ci rende estranei l’uno all’altro (8). La grande massa dell’umanità pensa seguendo indicazioni e mode prestabilite o indotte, in modo superficiale e senza porsi domande, per approssimazione, seguendo un “rumore di fondo” indistinto: la creatività del genio è isolata e considerata pericolosa, asociale, antidemocratica (9).

L’oggetto del pensiero è autonomo o tributario dell’atto di pensare? Realismo o idealismo? Si può pensare l’essere, si può pensare il nulla, si riesce davvero a pensare la propria morte e la fine del proprio pensiero? Qui, sulla decima motivazione della nostra irrimediabile malinconia, il percorso di George Steiner si ferma: l’uomo è triste perché «estraneo a se stesso e all’enormità del mondo… Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell’enigma della natura – o dello scopo, se ce n’è uno – della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte e alla possibile presenza o assenza di Dio». Che tristezza.

 

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www.sololibri.net/ragioni-tristezza-pensiero-Steiner.html      13 novembre 2016

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STEINER

GEORGE STEINER, HEIDEGGER – GARZANTI, MILANO 2011

Se qualcuno fosse interessato ad avvicinarsi a Martin Heidegger, anche senza una preparazione filosofica specifica, credo che non esista introduzione più esaustiva e chiara del volume che gli ha dedicato nel 1978 George Steiner, pubblicato e più volte ristampato da Garzanti, intitolato semplicemente Heidegger. George Steiner (Parigi, 1929) è uno dei maggiori critici letterari mondiali: si è occupato non solo di narrativa classica e contemporanea, di teatro, di filosofia e di linguistica, ma ha indagato anche il rapporto politico esistente tra cittadini e Stato, soffermandosi sul concetto di libertà e di responsabilità etica nelle scelte individuali e collettive. Forse proprio per la vastità dei suoi interessi culturali, ha trovato in Heidegger l’espressione più compiuta di pensatore del XX secolo, in quanto in ciascuno di questo ambiti il filosofo di Messkirch (1889-1976) ha giocato un ruolo determinante, sebbene molto discusso, di guida e provocatorio maestro.

Ebreo, orgogliosamente consapevole di quanto la sua origine, la fede dei suoi padri e le sofferenze del suo popolo abbiano contribuito a formare la sua coscienza di uomo e studioso, Steiner non fa dell’adesione di Heidegger al nazismo (pur stigmatizzata in uno dei capitoli del volume) il nucleo centrale e rancoroso della sua critica, rivalutando invece pienamente l’importanza fondamentale del filosofo, che considera il più influente e profondo del ‘900. «Heidegger è stato l’esempio moderno di una vita rivolta alla causa della ricerca intellettuale e morale. Poiché Heidegger è stato tra noi, si è affermato il concetto che porre delle domande è la suprema forma di pietà dello spirito, e la credenza che il pensiero astratto è l’eminente privilegio e il fardello dell’uomo».

I punti centrali e più originali della teorizzazione heideggeriana vengono enucleati da Steiner nella loro primaria rilevanza. In primo luogo, il dovere umano di porsi delle domande sul significato dell’esistenza (perché l’essere, cos’è l’essere); secondariamente, la capacità di provare stupore, meraviglia e gratitudine nei confronti del semplice e momentaneo vivere nel tempo. Accanto a queste due questioni fondamentali, i nodi principali della ricerca di Heidegger sono «la revisione radicale del modello platonico, aristotelico e kantiano di verità e logica, la sua teoria dell’arte, le sue riflessioni sulla tecnologia, il suo modello di linguaggio». La filosofia occidentale si è corrotta nelle sue tradizioni metafisiche (Platone) e scientifiche (Aristotele e Cartesio), che hanno oscurato e obliato il mistero dell’Essere, quale invece era stato intuito dai presocratici, rendendo alienata, estraniata e assoggettata alla tecnologia, al consumismo e alla banalità della chiacchera quotidiana la condizione dell’uomo moderno, che si sta avviando a una deriva nichilista. Nel suo capolavoro incompiuto Essere e tempo (1927) Heidegger auspica quindi un necessario ritorno alla «dimora dell’Essere», all’autenticità dell’”esserci” nella realtà del mondo, attraverso la “cura”, la preoccupazione per gli altri, e la riscoperta della verità, attingibile nell’arte e nella poesia.

Il pensiero di Heidegger, il suo scavo nell’etimologia per recuperare il senso pieno del linguaggio, il suo recupero dei filosofi e tragici greci, la sua dialettica tortuosa e irrisolta ma dinamica, sempre in ricerca lungo un “sentiero” che conduca a una “radura” illuminata nell’oscurità del bosco che ci circonda, ha influenzato tutta la filosofia, la teologia, la psicanalisi, l’estetica e la linguistica contemporanea, da Sartre a Derrida, da Bultmann a Rahner, da Gadamer a Lacan (e in Italia, da Severino a Galimberti e a Cacciari). Imprescindibile, quindi, accostarsi ai testi di Heidegger, accompagnati magari dalle straordinarie pagine di George Steiner.

 

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https://www.sololibri.net/Heiddeger-Steiner.html      22 maggio 2018

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STEINER

GEORGE STEINER, ERRATA – GARZANTI, MILANO 1998-2008

Mi sono spesso domandata come mai i libri di George Steiner, e la sua intera vita, suscitino in me un così vivo interesse, e una forte partecipazione emotiva, unita a una vivida corrente di simpatia umana. Non è solamente perché, a differenza di molti critici letterari, Steiner si esprime sulla pagina con una sapienza non tediosa o saccente, e con una buona dose di leggerezza ironica; non è nemmeno per la vastità dei suoi interessi e l’enciclopedismo della sua cultura, per quanto queste doti provochino non solo la mia ammirazione, ma anche una certa benevola invidia. Ma è soprattutto la profonda umanità, lontana da ogni accademismo, che trapela dai suoi scritti che mi conquista, perché la si avverte generata e nutrita dal terreno fertile di una passione totale e incontenibile per il sapere, in ogni aspetto – luogo e tempo ‒ esso si manifesti o si sia manifestato.

L’autobiografia uscita una ventina di anni fa da Garzanti ha il pregio di introdurci a un percorso intellettuale ed esistenziale di grande rilevanza, di pacato ma solido addestramento mentale. Già dal titolo Errata che, nella sua ammiccante modestia, in bibliografia rimanda agli errori commessi nella stampa di un libro. Mentre il sottotitolo, Una vita sotto esame, sottintende giocosamente chi sia il giudice più severo del cammino umano e professionale dell’autore.

Nato a Parigi nel 1929 da una colta famiglia ebraica di origine austriaca, che si trasferì negli Stati Uniti nel 1940 per sfuggire all’antisemitismo diffuso in Europa, Steiner è stato celebrato critico letterario per il New Yorker, The Economist e il Times literary supplement; ha occupato prestigiose cattedre universitarie a Ginevra, Oxford, Princeton, Stanford. Si è interessato soprattutto di linguistica (impegnandosi a farla uscire dalle strettoie puramente accademiche dello strutturalismo), di comunicazione e di traduzione, intese anche nel loro rilievo etico e sociale. Multiculturalismo e multilinguismo sono sempre stati da lui considerati come un arricchimento per l’umanità intera: Babele diventa simbolo di vitalità ed energia, non di anarchia, indebolimento o perdita di identità, poiché è capace di generare realtà alternative, proiettate nel futuro, mentre l’egemonia totalizzante delle lingue maggiori ha condotto a un processo di massificazione e livellamento della cultura occidentale. Forse per questa sua diffidente insofferenza soprattutto nei riguardi dell’inglese, Steiner non è tra i massimi estimatori di Shakespeare, che considera “disuguale, eteroclito, ridondante, inferiore a se stesso, come lo è la natura umana… tragicomico in ogni fibra”. Tra gli autori teatrali, apprezza ovviamente i tragici greci (The death of tragedy, 1961; Antigones, 1979), e poi Racine: sobrio, rigoroso, lucido e introspettivo, il cui riguardo verso l’essenzialità e la dignità morale ha avuto come erede Beckett.

Cosa intenda Steiner per “classico” è facilmente intuibile. In letteratura, come nell’arte, nella musica o nella filosofia, esso ci trasforma, modifica la nostra coscienza in modo talvolta traumatico o inatteso, non si accontenta di venire solo recepito o capito, ma richiede una nostra re-azione, riordinandoci o dislocandoci nello spirito e nelle idee, provocando “scosse sismiche interiori”. “Il classico possiede il diritto imperioso di esigere e di generare una risposta, una ripetizione attiva… va letto con una matita in mano”.

Oggi ci riconosciamo tutti epigoni di una grandezza irripetibile, testimoni di un crepuscolo intellettuale e culturale inevitabile, vittime come siamo del culto dell’effimero, e indifferenti alla durata nel tempo. Temiamo non possano più nascere un Rembrandt, un Dante, un Mozart: ma non possiamo nemmeno escludere la possibilità di ulteriori e stupefacenti riprese artistiche e teoriche.

L’amore per la musica (“La musica mi trasporta spesso ‘fuori di me’ o, più esattamente, in una compagnia molto migliore di me stesso”), la venerazione che George Steiner confessa per i grandi creatori di armonie del passato ‒ da Bach a Schubert, da Brahms a Schönberg ‒ deriva dalla consapevolezza che l’unico linguaggio davvero universale e unificante è appunto quello musicale, “esperanto delle emozioni”, capace di trasportarci al di là di ogni confine puramente materiale, lasciandoci intuire un trascendente che ci disincarna. Mentre il discorso parlato e scritto rimane lineare e sottoposto a una sequenza temporale, la musica utilizza un linguaggio più libero, a volte contradditorio e incoerente, che risponde solo a se stesso, alieno alla verità e alla menzogna anche nella sua molteplicità e polifonia.

Pittura, poesia, musica e filosofia riescono a farci superare ogni meschina differenza o diffidenza che possa sorgere all’interno delle nostre comunità, ignorando sterili nazionalismi: «Si può essere a casa propria dappertutto. Datemi un tavolo da lavoro, sarà la mia patria», si è sempre vantato Steiner, indagatore instancabile di paesi, lingue, tradizioni diverse, e tuttavia orgogliosamente fiero delle proprie radici ebraiche, e persino dello stigma persecutorio patito dal suo popolo. Agli ebrei riconosce un’eccellenza intellettuale e caratteriale che li ha resi ovunque diversi, e invisi agli altri popoli, soprattutto per la severità dei dettami morali e delle regole rituali, basate su una teologia e una metafisica totalizzante che li ha qualificati come “krank an Gott”, malati di Dio: in qualche modo eternamente “altro” nei confronti di un mondo rimasto estraneo.

L’altera rivendicazione dell’irriducibile singolarità dell’ebraismo viene giustificata da Steiner con la convinzione della supremazia dell’intelligenza su qualsiasi altra dote umana, al punto da ritenere, manifestando un utopismo ingenuo ed elitario, che solo un’élite di menti elette e illuminate potrebbe essere in grado di guidare le masse, indifferenti ai valori culturali, e interessate esclusivamente a una sopravvivenza a-problematica e garantita: “È incontestabile che per quasi tutta la specie homo sapiens sapiens la fede mondiale attuale sia il calcio”, mentre le arti e il pensiero vengono considerati come “un gioco più o meno ozioso o un lusso evidente”.

“Anarchico platonico” come si definisce, lo studioso cosmopolita non ha mai aderito a uno schieramento politico particolare, dichiarandosi pronto tuttavia ad appoggiare qualsiasi ordine sociale fosse in grado di diminuire la sofferenza nel mondo, favorendone il progresso e la pace.

A parte qualche perdonabile traccia di narcisismo (più che giustificata, visto lo spessore intellettuale del personaggio), e alcune insistite prese di posizione ideologiche, discutibili nella loro spontanea imprudenza, tutta questa biografia risulta piacevolmente leggibile, soprattutto nelle pagine più direttamente personali, rievocanti l’infanzia e gli anni di formazione. Iniziando dal ricordo del padre, illustre e coltissimo banchiere ebreo nella Vienna del primo Novecento, che volendo assolutamente fare del figlio un umanista, lo aveva invogliato a leggere l’Iliade in greco a soli sei anni, e lo cresceva impartendogli in tre lingue lezioni di filologia, di musica classica e di Talmud (“Mio padre fece della mia infanzia una festa esigente”). Gli anni del liceo francese a Manhattan lo abituarono a convivere con ambienti e sistemi educativi diversi, tra profughi ed esiliati, o figli di diplomatici e di plutocrati.

L’università a Chicago alla fine degli anni Quaranta (“una megalopoli di pura intensità”) lo avvicinò a nuove avventure dello spirito, con la scoperta del jazz, l’interesse per la scienza, le tensioni razziali, le interminabili discussioni politiche tra coetanei, le prime esperienze sessuali, il poker, lo sport: “quelle arti dell’ordinario che sono le più difficili da acquisire per un topo di biblioteca, un privilegiato intellettuale ebreo”. Fu allora che raggiunse la consapevolezza di voler diventare un insegnante, in una notte in cui aveva aiutato i compagni a interpretare un racconto di Joyce, conquistandone una stima rispettosa, ammirata e commossa. “Da quella notte in poi, le sirene dell’insegnamento e dell’interpretazione hanno cantato per me”.

Non solo insegnante, però. L’ansia e la voluttà di imparare hanno assediato ogni attimo della vita di George Steiner, con il timore di avere disperso e sprecato molte energie in troppe ramificazioni del sapere, e il rammarico di non averne approfondite ancora di più: “Rimane in me la sofferenza all’idea delle porte che non ho aperto: la mia ignoranza del russo da una parte, la mia incapacità di accedere all’Islam dall’altra… Adesso che la mia fine si avvicina, so che la mia solitudine affollata, che l’assenza di qualsiasi scuola o movimento nato dalla mia opera e la somma delle imperfezioni sono, in gran parte, colpa mia”. Basterebbe tuttavia leggere lo splendido ultimo capitolo di questa autobiografia per convincersi dei meriti, ben maggiori delle eventuali colpe, di questo grande, saggio e lucido intellettuale.

Maestro e discepolo insieme, ha vissuto dedicandosi allo studio, alla riflessione, all’esegesi, alla passione per il linguaggio in ogni sua espressione: l’esistenza, per quanto lunga e piena di incontri, avvenimenti e libri, è comunque troppo breve per chi come lui, polymath versatile e vorace, ha sempre manifestato la necessità e il desiderio di sopravvivere alla propria transitorietà umana.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 27 agosto 2019

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STEINER

GEORGE STEINER, LA POESIA DEL PENSIERO – GARZANTI, MILANO 2012

George Steiner, critico letterario di fama mondiale, è nato a Parigi nel 1929 da una colta famiglia ebraica di origine austriaca, che si trasferì negli Stati Uniti nel 1940 per sfuggire all’antisemitismo diffuso in Europa. Firma prestigiosa per il New Yorker, The Economist e il Times literary supplement, ha occupato diverse cattedre universitarie, a Ginevra, Oxford, Princeton, Stanford. Si è interessato soprattutto di linguistica (impegnandosi a farla uscire dalle strettoie puramente accademiche dello strutturalismo), di comunicazione e di traduzione, intese anche nel loro rilievo etico e sociale. Culturalmente la sua ricerca, radicata nella cultura classica, ha attraversato molti campi di indagine: dal teatro alla musica, dalla religione alla politica.

Nel volume La poesia del pensiero, pubblicato a New York nel 2011 e da Garzanti l’anno  seguente, l’attenzione dell’autore si focalizza sul rapporto tra linguaggio poetico e filosofia, a partire dalle origini del pensiero occidentale, in un’ottica però assolutamente eurocentrica, che esclude le culture orientali e le Americhe. Qui Steiner si propone di indagare «le collisioni, le complicità, le compenetrazioni e le commistioni tra filosofia e letteratura, tra il poema e il trattato metafisico», nella convinzione che «il pensiero nella poesia e il poetico del pensiero sono atti della grammatica, del linguaggio in movimento. I loro mezzi, i loro vincoli sono quelli dello stile». Addirittura, tutta la filosofia è in primo luogo “stile”, inseparabile dai suoi contesti semantici. Pertanto, in principio era la parola, e anche se poesia e filosofia sembrano avere finalità diverse – la prima aspira a re-inventare il linguaggio, la seconda si adopera per rendere il linguaggio rigorosamente trasparente, per liberarlo da ambiguità e confusione –, entrambe utilizzano lo stesso mezzo espressivo, contaminandosi a vicenda.

Già a partire dai primi frammenti dei presocratici, l’articolazione e la comunicazione di un concetto si è assoggettato alla dinamica e alle limitazioni del “soffocante recinto del linguaggio” e della sua sintassi. Il miracolo della nascita del pensiero astratto in Grecia tra VI e V secolo ha avuto come protagonisti figure eccezionali nell’anticipare teorie fisiche, cosmologiche, geometriche utilizzando la visionarietà del mito, la fantasmagoria della metafora. Steiner non lesina gli esempi: Eraclito, che con la sua oscura densità, la sua ambiguità semantica e le elisioni paratattiche fu amato da Nietzsche e Wittgenstein, filosofi «inclini al rapsodico e all’oracolare». Parmenide, su cui Heidegger scrisse lezioni magistrali. Empedocle, ieratico e seduttivo, che con la musicalità delle sue Purificazioni affascinò i teorici del romanticismo. Zenone venne citato da Valéry nel Cimetière marin, mentre l’atomismo materialistico di Democrito rimase un faro luminoso nel pantheon marxiano.
L’ibridismo tra parola immaginativa e parola razionale ha segnato per più di duemila anni la produzione filosofica occidentale, e autorevolmente George Steiner ne indica come primo artefice Platone. I dialoghi e le lettere del filosofo ateniese «sono atti letterari performativi che restano insuperabili per ricchezza e complessità»: nell’Apologia, nel Fedone, nel Simposio la figura di Socrate assume la grandezza morale del Cristo evangelico, grazie alla resa teatrale e tragica, liricamente ispirata, di quella prosa. Se è vero che Platone condannò la poesia e i poeti come corruttori del costume pubblico e ingannevoli inventori di illusioni, è perché diffidava e temeva l’attrattiva del «sommo drammaturgo, creatore di miti e narratore di genio presenti nelle proprie potenzialità». Il dialogo come genere letterario, che lo ebbe come eminente iniziatore, mette in scena l’oralità, nel metodo di interrogazione, confutazione, correzione tra due o più protagonisti: ha avuto degni rappresentanti in Cicerone, Luciano, Agostino, Abelardo, Galileo (scienziato-filosofo-scrittore arguto anche nel postillare opere di Petrarca, Ariosto e Tasso), Berkeley, Hume, fino a Paul Valéry: tutti loro, nello scambio democratico delle opinioni espresse verbalmente, recuperavano un fecondo e stimolante clima antiautoritario e antisistematico.

Nel quinto capitolo del volume, Steiner ci offre alcuni ritratti di famosi filosofi che hanno fatto dello stile letterario un carattere distintivo della loro realizzazione teorica. A iniziare da Cartesio, «algebrista metafisico… virtuoso del congiuntivo e del trapassato», appassionato di poesia e in particolare dei classici latini su cui modellò la sua prosa, vigorosa ed elegante: a lui il poeta tedesco Durs Grünbein ha dedicato un poemetto pubblicato da Einaudi nel 2005. Poi Hegel, sintatticamente tortuoso, lessicalmente plumbeo, intenzionalmente oscuro, poiché pretendeva dai lettori lo sforzo laborioso dell’interpretazione e della concettualizzazione. L’inacessibilità della sua scrittura, che aspirava «alla collisione con la materia inerte del luogo comune», è diventata un tratto caratterizzante di molti letterati e filosofi moderni: da Pound a Joyce e Celan, da Adorno a Lacan e Derrida. E ancora Marx, in cui «retorica analitica e profetica» e utilizzo pungente della satira rivelavano analogie con la pratica rabbinica e il dibattito talmudico; Nietzsche, che sapeva magistralmente fondere speculazione astratta, poesia e musica con un’incredibile virtuosità stilistica; Bergson, premio Nobel per la letteratura nel 1927, che influenzò tutta la produzione letteraria europea tra le due guerre; Freud, che aspirando al Nobel per la medicina ricevette invece il premio Goethe per la sua scrittura. Lo stile aforistico, frantumato, oracolare di Wittgenstein affonda le sue radici nei frammenti eraclitei e nelle anafore di Blake e Rimbaud, più che in qualsiasi altra opera formalmente filosofica.

Ma è stato soprattutto Martin Heidegger che ha individuato nella simbiosi tra poesia e pensiero, tra espressione performativa e argomentazione teorica («pensiero poetante, poesia pensante») l’occasione di rinascita di un linguaggio in grado di recuperare l’autenticità dell’Essere. I suoi impareggiabili commenti a Sofocle, George, Mörike, Rilke, Trakl, Hölderlin, Char, Celan hanno arricchito vicendevolmente letteratura e filosofia, indicando nell’atto ermeneutico della lettura l’unica possibilità di penetrazione e appropriazione nel/del logos. La stessa prosa di Heidegger, così ermetica, ha avuto un impatto linguisticamente innovativo, con i suoi arditi neologismi e l’ostinata paratassi: Paul Celan ne seppe fare tesoro nelle sue criptiche composizioni.

Lungo tutto il XX secolo la compenetrazione tra poesia e filosofia è divenuta assoluta e inestricabile: dopo Bergson, ogni filosofo è stato anche scrittore, e viceversa. Ma a quale linguaggio si affida il pensiero novecentesco? Non più a quello lineare e intellegibile della classicità, bensì a codici operanti una frattura tra significante e significato, attigui spesso al silenzio e all’incomunicabilità, non più tesi alla verbalizzazione del reale, perché consapevoli della non-veridicità della parola, sempre opaca e illusoria. La lingua infatti non può competere con l’universalità della musica o della matematica: la prima ha un’intrinseca capacità di simultaneità polisemantica, che può raggiungere ed emozionare chiunque, in ogni luogo e tempo; la seconda è precisa, affidabile, trasparente, autosufficiente. Il linguaggio è invece ambiguo, equivocabile, indeterminato: quello della poesia, poi, è per sua natura evocativo, misterioso, velato. Ma proprio in questa enigmaticità sta la sua originale ricchezza, cui George Steiner si appella contro l’impoverimento attuale della comunicazione, standardizzata, ridotta a gergo minimalista oppure a tecnicismi inerti. E, da umanista “arcaico” come si definisce, si augura che poesia e pensiero ritrovino i loro spazi di silenzio e intimità, che «da qualche parte un cantore ribelle, un filosofo ebbro di solitudine» sappia ancora regalare al mondo l’emozione del pensiero poetante di cui parlava Heidegger.

 

© Riproduzione riservata                 «Nazione Indiana», 8 novembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

STENDHAL

STENDHAL, LA BADESSA DI CASTRO – LEONE, TREVISO 2014

E’ l’ultima e la meglio riuscita tra le Cronache Italiane pubblicate da Stendhal (1839): lunghi racconti che lo scrittore aveva tratto da manoscritti italiani secenteschi. La narrazione, la vicenda, i protagonisti, richiamano a tratti I Promessi Sposi, di cui Stendhal fu attento lettore; però con una distinzione fondamentale. Mentre Manzoni fa dei due innamorati due vittime che patiscono la violenza, in balia di eventi e soprusi tanto più grandi di loro, Stendhal narra di una giovane nobile, Elena di Campireali, che si innamora di un brigante, Giulio Franciforte, scegliendo con l’amante il proprio destino di transfuga, di ribelle, e contribuendo a edificarlo anche con l’assunzione in prima persona del male, della colpa.
Chi erano, nel 1500, i briganti, se non «l’opposizione contro i governi atroci»? Giulio si fa brigante per Elena, per essere degno del suo amore, per poterle comparire di fronte vestito riccamente. Elena sfida la violenza del padre e del fratello, esce di notte dal palazzo o vi fa entrare l’amico, è determinata e coerente. La famiglia, il paese, le bande dei briganti si appropriano della storia dei due giovani, ne fanno una storia loro, parteggiando per l’una o per l’altra fazione, in un susseguirsi di appostamenti, spionaggi, dicerie sparse ad arte. Durante un combattimento, Giulio uccide il fratello di Elena, e lei è costretta a rinchiudersi in un convento. A nulla vale un tentativo di rapimento organizzato dai briganti, e la scomunica pontificia obbliga Giulio a partire per la Spagna.
Con ironico disprezzo, l’anticlericale Stendhal fa della curia romana un coacervo di intrighi, interessi, simonie; mentre nei conventi le monache gioiscono di reciproche cattiverie e ripicche, danno appuntamenti agli amanti, si circondano di oro e di guardie. Come la Monaca di Monza del Manzoni, Elena, cui la madre ha fatto credere che Giulio sia morto, diventa badessa del convento e intreccia una breve relazione con un vescovo, per noia e per “libertinaggio”, come lei stessa confessa in una umanissima lettera. Quando lo scandalo viene scoperto, i due colpevoli sono condannati all’ergastolo. Alla vigilia della fuga organizzata dalla madre della badessa, e prima del ricongiungimento con Giulio riapparso dalla Spagna, Elena si nega alla felicità e al perdono dell’antico amante, uccidendosi.
E’ un altro grande ritratto femminile, quello che ci offre Stendhal in queste scarne pagine: di una donna che rifiuta le convenzioni in un secolo che si nutre di esse, e non si umilia, assumendo invece fino in fondo le proprie responsabilità.

 

© Riproduzione riservata          www.sololibri.net/badessa-di-castro-stendhal.html     22 ottobre 2015

RECENSIONI

STERI

MARIO STERI, IL PADRE LONTANO? – IGNAZIO PAPPALARDO EDITORE, ROMA 2025

La parabola del figliol prodigo, narrata nel Vangelo di Luca (15:11-32), appartiene di fatto al patrimonio culturale dell’occidente, così come altre figure letterarie quali Ulisse, Amleto, Faust, riconosciuti simboli universali della natura umana, nella sua ricerca di un significato che oltrepassi il puro accadere dell’esistenza mortale. Il sacerdote salesiano Mario Steri (Cagliari, 1952) ha dedicato ad essa un corposo volume (Il padre lontano?, edito da Ignazio Pappalardo), che propone non tanto un commento esegetico, quanto una riflessione teologica intesa a coglierne il valore sapienziale, come rappresentazione simbolica delle vicende umane attraversate dai temi della colpa, del tradimento, del perdono.

Preceduta dalle due famose parabole della pecora perduta e della dramma smarrita, si allinea a loro nel significare il recupero di qualcosa che era andato perso, viene ritrovato e messo in salvo. Tre sono i personaggi che animano la narrazione di Luca: un padre e i suoi due figli, che entrambi ma in maniera diversa si erano allontanati da lui e da lui vengono riaccolti in un abbraccio misericordioso.

Il padre, a cui spetta il ruolo fondamentale della storia, è l’immagine di Dio che Steri presenta nelle sue caratteristiche essenziali e imprescindibili della trascendenza e della vicinanza.

Trascendenza come necessaria lontananza invalicabile, perché Dio è totalmente altro dal mondo, non addomesticabile e non riducibile ai pensieri e ai desideri dell’uomo (“al di là di tutto”, lo definisce San Gregorio di Nissa): la sua distanza è di tipo morale e ontologico rispetto alle creature, che rimangono in uno stato di dipendenza nei suoi confronti, nell’unico atteggiamento possibile e doveroso dell’adorazione. Non della richiesta, non della prepotenza, e nemmeno della conoscibilità: la lontananza di Dio ne preserva il mistero e l’inaccessibilità, pur essendo garanzia di libertà per l’agire dell’uomo.

Il padre della parabola di Luca, immagine di Dio, rimane nella sua casa, lascia che i figli si allontanino dalla dimora familiare: il minore, spinto da ribellione e volontà di indipendenza, partito “per un paese lontano” (makran, in greco), il maggiore fuori da solo a lavorare nei campi. Entrambi senza considerare il valore della distanza dal genitore e senza onorarla, chiedono rispetto dei loro diritti di figliolanza: l’uno pretendendo la sua parte di eredità da sperperare in modo dissoluto, l’altro esigendo per i propri servizi una ricompensa maggiore. Le loro pretese rispecchiano il fondamentale egoismo del do ut des, non esprimono amore né riverenza: in ciò consiste il loro peccato, nell’allontanamento e nella cieca rivendicazione.

Mario Steri indica nella contrapposizione dei loro comportamenti quella esistente ed esistita tra paganesimo (il minore trasmigra in un paese pagano) ed ebraismo (il maggiore esprime un rigidismo farisaico, obbediente a una logica padronale di interesse). Il padre “lontano” – aggettivo ribadito nel titolo del volume, ma giustamente accompagnato da un punto interrogativo –, non si impone, non contrasta, lascia fare. Li chiama “figli”, comprende la loro ribellione e non la castiga, ma alla fine esce di casa per avvicinarli: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”, “Suo padre allora uscì a supplicarlo” (vv. 15, 20 e 28).

Il padre accorre, abbraccia, perdona, prepara un banchetto per entrambi ammazzando il vitello grasso. Da lontano e inaccessibile si fa vicino e amoroso, e appunto la vicinanza, oltre alla trascendenza, rappresenta secondo l’autore l’attributo peculiare della divinità e della paternità accogliente. Vicinanza come accettazione, premura, affetto, disponibilità. Il genitore della parabola così parla ai due figli irriconoscenti, gratificandoli: “Presto, portate qui il vestito più bello…mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato (vv. 22-24): “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo (v, 31).

L’autore osa suggerire un’ipotesi trascurata dagli esegeti: che in realtà i due fratelli siano un’unica persona, accomunati dal rifiuto, dalla presunzione e dall’egoismo, in un’unità caratteriale indistinta e percepita attraverso una sfasatura temporale. Uguale sono la loro protervia e la protesta, poi riassorbite nella conversione finale, nell’abbraccio pentito e nel banchetto escatologico, offerti dalla sovrabbondanza dell’amore paterno.

La riflessione teologica di Mario Steri si espande poi alla considerazione di altri fondamentali aspetti dell’azione di Dio nei riguardi dell’umanità, sempre dettati dal bene incondizionato: il suo rapporto con la storia, quella personale degli individui e quella collettiva delle società; la sua reazione al peccato degli uomini; il rispetto per il libero arbitrio; la fede, la conversione, il perdono come momenti caratterizzanti del rapporto tra il Creatore e il mondo.

La parabola narrata da Luca in sostanza vuole indicare l’incontro tra l’amore di Dio e l’amore dell’uomo, al di là delle fragilità e dei tradimenti di quest’ultimo. L’autore che ci aiuta a penetrarne il significato ha dedicato il suo lavoro “a chi cerca e ha chi ha trovato, a chi vuole cercare e a chi è stato trovato”, in una volontà reciproca di apertura e comprensione.

 

«La Poesia e lo Spirito», 7 settembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

STORNI

ALFONSINA STORNI, POEMAS DE AMOR – CASAGRANDE, BELLINZONA 1988

Il Ticino è terra di frontiera e, come tale, ha ovviamente elaborato una cultura di frontiera, in bilico sempre tra l’attrazione – e il senso di inferiorità – per ciò che è diverso, pur essendo vicino, e il rifiuto del confronto, con la conseguente chiusura e provincializzazione. Va dato atto a questo Cantone, tuttavia, di avere negli ultimi decenni cercato ostinatamente una terza via alla riscoperta della propria identità, alla modulazione di accenti culturalmente nuovi. Ne sono una riprova i vivaci fermenti che animano le città ticinesi in campo editoriale, giornalistico, cinematografico e televisivo, ma anche sociale e di costume. A questi sforzi noi italiani in Svizzera dovremmo guardare con maggiore interesse e simpatia, cominciando magari a studiare gli autori ticinesi più noti e le nuove promesse con l’attenzione che meritano. Nell’ottica di un recupero di autori sottovalutati o misconosciuti va letta ad esempio la proposta delle Edizioni Casagrande di Bellinzona, che offrono al pubblico italofono l’elegante volume Poemas de amor di Alfonsina Storni. La Storni nacque a Sala Capriasca nel 1892, e a soli quattro anni seguì i genitori emigranti in Argentina. Fornita di un carattere indomito, e di una coscienza femminile insolita in quegli anni, Alfonsina conobbe le difficoltà e i patimenti di una vita controcorrente. Inquieta, visse tra San Juan, Rosario e Buenos Aires, adattandosi a svolgere un po’ tutti i lavori: da operaia in un berrettificio a sorvegliante scolastica, da corista a cassiera, da impiegata a direttrice di collegio, finché non le riuscì di vivere della sua arte, corrispondente dei principali quotidiani argentini e collaboratrice di importanti riviste letterarie. Insieme con le contemporanee Gabriela Mistral, cilena, e Juana de Ibarbourou, uruguayana, formò la triade più nota della poesia femminile sudamericana del primo 900, riscuotendo ampio successo di critica e di pubblico. Il suo anticonformismo, la sua fervida vitalità e l’intraprendenza intellettuale che la caratterizzarono non bastarono tuttavia a metterla al riparo da crisi depressive e dal suicidio, avvenuto nel 1938: Alfonsina, quarantaseienne, si gettò nell’Atlantico a Mar de Plata. Questa sua scelta, tuttavia, non si può comodamente liquidare come desiderio di annullamento, o volontà di porre termine alla sofferenza, ma va letta come intenzione di fondersi, nel mare, con il tutto (si vedano le poesie Partenza, Dolore, Un cimitero che guarda il mare, Io in fondo al mare, e l’ultimissima Vado a dormire), e necessità di sopravvivere oltre la morte. Già nel 1973 la Fondazione Ticino Nostro aveva dedicato alla poetessa una poderosa antologia, in cui la produzione in versi della Storni veniva classificata tematicamente, secondo un criterio piuttosto discutibile. Sarebbe stato assurdo fare di un’autrice così poco ticinese (come cultura e carattere) e impregnata, invece, di vita argentina, un vessillo di elveticità, e giustamente il prefatore di allora scriveva: «Non si tratta da parte nostra di un omaggio senza provate giustificazioni, si tratta piuttosto di un debito che il paese d’origine intende riconoscere, della sconfessione di una possibile dimenticanza e indifferenza».

La stessa giustificazione vale, a 50 anni di distanza dalla morte della poetessa, per la traduzione e la pubblicazione di questi Poemas de amor, usciti per la prima volta a Buenos Aires nel ’26. Il volume, a cura di Franca Cleis, Marinella Luraschi, Pepita Vera, si apre con un saggio in spagnolo e in italiano della studiosa argentina Beatriz Sarlo che, in maniera ideologizzante e pregnante, ripercorre tutto l’iter poetico della scrittrice, dall’iniziale retorica tardo romantica della prima raccolta, alla gradevole cantabilità delle poesie erotiche e femministe («Io sono come la lupa. Me ne vado sola e rido del branco…»), fino all’abbandono della soggettività per un più accentuato cerebralismo delle ultime prove. Esemplari di questo processo evolutivo sono appunto i Poemas, brevi prose liriche che, se non conoscono la scansione in versi, hanno tuttavia lo stesso incanto e leggerezza delle poesie. La suddivisione dell’opera in quattro momenti (sogno, pienezza, agonia, notte), che acutamente le curatrici attribuiscono alla reminiscenza di un sonetto di Emily Dickinson, ripercorre l’emozione femminile dell’innamoramento, a partire dall’esaltazione vissuta quasi con furore mistico, attraverso la follia consapevole dell’impeto del proprio eros, per arrivare all’umiliazione della preghiera, della questua, e alla notte dell’abbandono, raccontata in un’unica, memorabile, composizione: «Dal tuo essere mortale estraggo ora – ormai distante – l’aeriforme fantasma che coi tuoi occhi guarda e con le tue mani accarezza, ma che non ti appartiene. E’ mio, totalmente mio. Mi rinchiudo con lui nella mia stanza e quando nessuno, nemmeno io, sente e quando nessuno, nemmeno io, vede e quando nessuno, nemmeno io, sa, prendo il fantasma tra le mie braccia e all’antico ritmo del pendolo, lungo, grave, solenne, cullo il vuoto».

 

«Agorà» (Svizzera), 4 gennaio 1989

RECENSIONI

STRAZZABOSCO

STEFANO STRAZZABOSCO, L’ESERCIZIO IPSILON – RONZANI EDITORE, VICENZA 2018

L’esercizio ipsilon è una tecnica di allenamento messa in atto nel gioco del rugby per dribblare con finte gli avversari. È anche il titolo scelto da Stefano Strazzabosco per la plaquette recentemente pubblicata dall’editore vicentino Ronzani.

Avversari interni ed esterni, subdoli e minacciosi, sono quelli continuamente evocati da queste venti poesie: si aggirano tra un dentro che non offre riparo né consolazione, e un fuori pronto all’agguato. Versi tesi in una dimensione di denuncia e di allarme civile e politico, sebbene mai retoricamente altisonanti o proclamatori, e invece allusivi a un pericolo oscuro, accanito (“Sanno tutto / di te che non li vedi”, “Osservano / dalle vetrine trasparenti”). Talvolta la persecuzione è però plateale, esibita, fiera di sé; una vera “Santa Inquisizione dei Carnefici”: “Sia aperta la caccia alle streghe. / Si versi un po’ d’olio bollente / sugli eretici e i tristi”, “Qualche volta si toglie / la pelle all’indiziato, / gli si cavano gli occhi”.

Giustamente scrive Paolo Lanaro nell’introduzione che in Strazzabosco viene ribadita la contrapposizione tra un “loro” fatto di sopraffattori e un “noi” costituito da vittime, separati più che da una differenza di classe da una differenza antropologica. La realtà a cui conduce questa distinzione non è però immediatamente decifrabile, dato che la terminologia ricorre frequentemente a sostantivi e attributi che indicano vaghezza, intangibilità, inconsistenza (sabbia, cenere, pulviscolo, remote nuvole), oppure prigionia, chiusura, buio (cantina, tana, sonno, notte, macerie, ghiaccio, ingranaggio, soppressione, detenzione). La successione temporale non è definita con nitidezza (“L’altra volta / è questa stessa volta”, “questa notte o l’altra”), causa ed effetto si invertono nelle azioni e nei pensieri (“poi una / rosa rossa trapassa una spina”, “l’aratro è lì, davanti ai buoi”), ad aumentare sconcerto e timore.

Necessario nella sua evidenza è pertanto l’esergo alla silloge tratto dai Four Quartets eliotiani: “We had the experience but missed the meaning”, a confermare l’insignificanza e l’incomprensibilità delle storie quotidiane e personali, come di quelle collettive. L’influenza di Eliot, e l’omaggio alla sua poesia, non si limita all’epigrafe iniziale, o alla citazione del “giardino delle rose”: percorre forma e contenuti di tutti i componimenti qui presentati. Nel ricorrente passaggio tra io-tu-noi-essi, in una certa sentenziosità eticamente rigorosa, nell’utilizzo di neologismi e vocaboli stranieri (fotoshoppato, raion, spritz, sim, monitor, bancomat, sneaker), nell’ironia verso l’ambiente circostante (“Si dorme / col pigiama di orsetti in questa bella / città”, “la testa / mozzata continua a guardare le / vetrine rotolando”), e soprattutto nell’uso della sintassi, frammentata e spesso involuta, e nello sguardo di chi scrive, osservando e valutando da una posizione distaccata, con uno sconforto che non si riduce alla condanna (“vanno / capiti anche loro”), ma rivela apprensione, turbamento. Insieme alla consapevolezza che se la voce del poeta non serve, non basta a cambiare lo stato delle cose (“Tu, / cosa vuoi”), rimane comunque indizio di resistenza.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/L-esercizio-ipsilon-Strazzabosco.html       12 giugno 2019

 

 

 

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