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VAGLIO

LUCA VAGLIO, MILANO DALLE FINESTRE DEI BAR – MARCO SAYA, MILANO 2013

Il bel titolo di questo volumetto di poesie di Luca Vaglio (Dervio 1973) introduce a un ambiente metropolitano e grigio, quello piuttosto anonimo dei bar di una Milano indifferente e insieme magica (“attorno ciao e niente e silenzio”), vissuta tra Lambrate e Via Solari, Città Studi e Via Torino, e osservata nel muoversi vuoto, impersonale di avventori disillusi, che bevono vodka o birra, mangiano fusilli sconditi, ascoltando musica jazz in un’atmosfera di assoluta incomunicabilità, all’interno di locali tristi. Questa Milano “così bella e ruvida” è abitata da individui impauriti, tra cui l’autore si muove come un osservatore prosciugato (“mi sento quasi un evaso / da non so bene dove”; “tutte queste cose, / incluso l’amore sprecato e quello mancato, / mi fanno poco male”; “sono quasi felice / ma non sono sicuro / se questa liberazione dagli altri / questa vita mercuriale / è tutto quello che devo fare”), tracciando tuttavia nei versi un percorso discreto, gentile, di avvicinamento a sé e al mondo. Un tentativo di recupero di significato (dell’esistenza, del dolore, del sentimento) che sembra più riuscito là dove si esprime con la stessa amara oggettività delle due belle fotografie in bianco e nero di Ugo Mulas che corredano il libro (e che ricorda forse lo stile pacatamente constatativo di un altro poeta vivente a Milano, Umberto Fiori), e invece rischia di perdere intensità quando tenta registri più ispirati e metafisici (“della dissolvenza / della fine che tiene dentro il germe / primordiale del principio che sarà / soltanto se il sé si riconosce / e poi ammette di essere diverso da sé…”). La striminzita nota finale di Guido Oldani risulta invece alquanto superficiale e supponente, nel suo “pensare quasi shackespirianamente (sic!!!) intorno all’esistere o invece no”: una caduta di stile per chi da poco si è espresso criticamente nelle elevatezze de Il realismo terminale e de La faraona ripiena.

IBS, 24 dicembre 2013

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VAGLIO

LUCA VAGLIO, CERCANDO LA POESIA PERDUTA ‒ MARCO SAYA, MILANO 2016

Il giornalista Luca Vaglio, autore di alcuni volumi di poesia e di inchieste letterarie, ha pubblicato un breve saggio esplorativo sulla rilevanza della poesia nella cultura italiana attuale: la sua produzione e il suo consumo, la diffusione e l’incidenza delle vendite nel mercato editoriale, il prestigio e l’interesse che ancora conserva la scrittura in versi. I dati raccolti sembrano addirittura allarmanti: solo lo 0,60 del settore librario (per un totale di circa 7.000.000 di euro di fatturato annuo) è occupato da libri di poesia, per lo più di autori stranieri considerati “classici” (Neruda, Rilke, Eliot, Salinas…); i poeti italiani contemporanei sono pressoché ignorati anche dal pubblico con formazione universitaria; il calo dei lettori e fruitori di questo genere letterario sembra costante e irreversibile.

Quali possono essere i motivi alla base della marginalizzazione della poesia, che pure nel nostro paese ha goduto in passato di una collaudatissima tradizione celebrativa? Vaglio ne elenca alcuni, tratti sia da considerazioni personali, sia da apporti critici e interviste con studiosi e docenti. In primo luogo, quindi, il fatto che il mandato sociale per secoli demandato alla scrittura in versi sia stato raccolto dalla canzone rock e pop, capace di raggiungere pubblici più vasti e indifferenziati, esprimendo emozioni comuni in maniera meno criptica ed elitaria. Non è un caso che lo scorso anno il Nobel sia stato attribuito a Bob Dylan, e che i Beatles e gli U2 siano conosciuti e imparati a memoria universalmente, a differenza di quanto avviene per i poeti.

Inoltre, la poesia moderna è spesso autoreferenziale e narcisistica, tende a esprimere la soggettività di chi la scrive più che a farsi portavoce di un sentire collettivo, utilizzando ancora troppo spesso stili lirici ed elegiaci, piuttosto lontani dal parlato. La ricezione del linguaggio poetico, più ricercato e sperimentale rispetto a quello quotidiano, richiede poi particolari competenze linguistiche e culturali, che certo non vengono approfondite dagli attuali programmi scolastici. Infine, il proliferare di blog e pubblicazioni a pagamento, di spettacoli di improvvisazione attraverso cui chiunque si può auto-definire poeta e rivolgersi a una cerchia ristretta ma gratificante di fruitori-conoscenti, rischia di confondere il pubblico, incidendo negativamente sulla qualità dei testi prodotti.

Quindi, per La poesia ai tempi di internet – titolo del primo dei due saggi che compongono il volume – sembrano prospettarsi tempi difficili: ne dà fede anche il secondo intervento, che trascrive una conversazione con Paolo Giovannetti, Professore di Letteratura italiana allo Iulm di Milano. Autore di un libro sulla metrica pubblicato da Carocci nel 2010, Giovannetti considera la produzione in versi contemporanea troppo concettualizzata, fondata su teorie critiche spesso ideologizzanti che la precedono o la accompagnano, richiedendo così abilità interpretative che non molti utenti possiedono. Si tratta di una caratteristica comune anche ad altre attività artistiche: cinema e pittura, quando non si rivolgono a un pubblico popolare ma lavorano in una nicchia di ricerca, richiedono nei fruitori conoscenze specifiche. Oltre a ciò, avendo sostituito a forme metriche rigide il verso libero, la poesia moderna si è trovata meno vincolata e difesa dalla tradizione, e più esposta a un’ambiguità formale, definendosi come «un macrogenere dentro il quale convivono esperienze diversissime… in una condizione babelica». Cinque le tendenze metriche individuate dal Professor Giovannetti nella produzione poetica odierna: esse giocano sugli accenti o sull’innovazione degli endecasillabi, utilizzano versi nominali o discorsivi, a volte privilegiano forme prosastiche. La vera novità sembra però poter arrivare dai rapper e dagli slammer, gli unici in grado di recuperare una dimensione orale e performativa del fare poetico, catalizzando nuovi interessi ed entusiasmi.

 

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https://www.sololibri.net/Cercando-la-poesia-perduta-Vaglio.html                 10 gennaio 2018

 

 

 

 

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VAGLIO

LUCA VAGLIO, COSMOLOGIE – MARCO SAYA, MILANO 2022

Luca Vaglio (1973), giornalista, narratore e poeta, vive a Milano occupandosi di cultura letteraria e di viaggi. In questo suo ultimo libro, Cosmologie, affronta temi diversi con tonalità diverse, ma sempre con lo stesso pacato respiro emozionale, e una costante profondità meditativa.

Nella colta e penetrante prefazione, Lorenzo Cardilli giustamente sottolinea la capacità del poeta di affrontare un percorso di esplorazione interiore, con il relativo inabissamento nell’inconscio, riuscendo poi ad affiorare lucidamente in superficie attraverso l’osservazione puntuale dell’esterno collettivo. “Si articola così un continuo negoziato tra slancio uranico e schiacciamento sulla contingenza, le due istanze si scontrano, flirtano e mercanteggiano, seguendo le oscillazioni dell’io, i suoi sbalzi. Un io tanto disperatamente attratto dal qui e ora quanto pronto a disfarsene, come di una prigione”.

La dialettica instaurata da Vaglio tra dentro e fuori, vive la stessa antinomia, lo steso contrasto ideologico e filosofico registrato tra realtà e utopia, razionalità e irrazionalità, soggetto e oggetto, luce e buio, discorso e silenzio, grande e piccolo, bene e male, cielo e inferi. “L’anima bipolare / di ogni materia, il bianco e il nero, / il pensiero, il logos che siamo, / la forma-parola che, forse, ci crea”.

Tale dicotomica contrapposizione di possibilità differenti nell’agire quotidiano e nel porsi intellettuale, si riflette anche nelle scelte stilistiche adottate dal poeta, che vanno dalla narratività riflessiva all’esposizione dettagliata, dall’argomentazione scientifica alla confessione introspettiva.

Il viaggio è scoperta e liberazione, ma nello stesso tempo fuga e tradimento. I mille taxi, i treni, gli aerei che portano in Francia, in Portogallo, in Irlanda non riescono tuttavia ad allontanare il poeta da se stesso: “fuori c’è solo un mondo senza vita / e nessun tempo da abitare, tutto è / qui e altrove; non so se ho mai voluto lasciare questa stanza, / se mi ha sfiorato il desiderio / di stare bene da un’altra parte”. Infatti, “Milano esplosa e abbandonata” ritorna sempre, nei suoi bar vivaci (l’Hemingway, il Jamaica, il Caffè Luna), nella “Brera pulita, levigata, artificiale e irreale”, negli incontri casuali con coppie giovani e mature, mamme e bambini, studiate e commentate con attenta volontà di comprensione e classificazione. La realtà quotidiana, il cappuccino con croissant da consumare tra altri avventori, la partita di calcio guardata con simulato interesse in un locale pubblico, sono punti di avvio verso un altrove cosmico, o un riflusso nelle memorie personali: “una sorta di teletrasporto / chimico e improvviso della coscienza, / e forse un’eco psichica, un flashback / che rimandi all’infanzia più profonda”.

Gli interessi culturali di Luca Vaglio vengono esplicitati in assidui riferimenti agli autori più amati (scrittori come Pessoa, filosofi dai presocratici a Wittgenstein, epistemologi come Ernst Mach), in richiami sia alla fisica contemporanea sia alla cosmogonia dell’antico Egitto, con escursioni verso la tradizione astrologica e le festività religiose romane, nel desiderio di scrutare la realtà da prospettive differenti. Sempre con la consapevolezza dei limiti in cui è iscritta ogni particolare vicenda umana: “Riconoscere / che idea e materia, e quindi soggetto e oggetto, / particolare e generale e, se si vuole osare di più, / mente ed esperienza sono parti uguali del tutto, / schegge indivise dello stesso lembo del mondo”, “il senso / del cosmo deve essere cercato fuori / dal mondo”, “ci chiediamo perché le cose accadano, / il punto da dove cadono gli eventi, / se si tratti di un caso, di un moto / di atomi lungo il vuoto della materia…”.

L’indagine poetica di Luca Vaglio si definisce appunto in questo interrogarsi sul proprio destino creaturale, sul destino dell’umanità, su cause e finalità dell’esistenza, cercando uno spazio e una giustificazione al proprio esibirsi come scrittura, meditativa ma priva di qualsiasi assertività o boria, piuttosto umile e cauto intendimento di scrutare l’ignoto aldilà di ogni futile apparenza.

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 24 luglio 2022

 

 

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VAGLIO

LUCA VAGLIO, IL VUOTO – MORELLINI, MILANO 2019

Con un titolo che nella sua inflessibile durezza ricorda atmosfere esistenzialistiche, Luca Vaglio ha firmato Il vuoto, romanzo scandito in sette giornate comprese tra la fine del 2009 e l’inizio del nuovo anno, il cui protagonista Mattia Ventura si racconta in prima persona, svelando senza alcuna indulgenza, ma anche senza ironia, l’inanità in cui trascina la propria esistenza.

Trentaseienne, single, figlio unico e viziato di due apprensivi genitori che lo sorvegliano da lontano, Mattia è un giornalista in cassa integrazione, che gode della propria improvvisa e comunque ben retribuita disoccupazione per concedersi un anno di disimpegno e pigrizia, “lontano da vincoli e contingenze, da obblighi e necessità”.

Si alza tardi la mattina ed è perennemente in ritardo a ogni appuntamento, per un’insopprimibile tendenza alla dilazione. Vive, insomma, in uno stato di accidiosa solitudine, tranquillamente accettata per i suoi vantaggiosi aspetti di indipendenza: legge, va al cinema, ascolta musica, trascorre ore su Facebook e YouTube, bighellona attraverso la città, frequenta molti bar e si concede qualche esperienza sessuale a pagamento, rimanendone generalmente insoddisfatto e umiliato. Abita a Milano, in un bilocale nella zona di Città Studi regalatogli dal padre, che ha provveduto anche a pagargli un posto macchina nel garage sotto casa.

Il rapporto più esclusivo che Mattia nutre con l’esterno è infatti quello con la propria Alfa Romeo 147 nera metallizzata, che guida a folle velocità per le strade cittadine, contravvenendo a ogni regola, sfidando i semafori, occupando parcheggi riservati e rasentando investimenti: “ne apprezzo la linea essenziale e aggressiva, la chiusura a spigolo del piccolo finestrino posteriore e la fiancata che si allarga, cresce, si gonfia tra il faro posteriore e il montante, a suggerire l’idea dei muscoli, della forza, dello scatto rapinoso di un’Alfa Romeo”. Le pagine narranti queste folli corse in macchina sono tra le più vivaci e riuscite del volume, insieme ai ritratti dei vari bar e caffè frequentati, con la descrizione puntuale di camerieri e avventori: l’Albatros, il Giulia, l’Arcadia, l’Hemingway, il Maya, il Milano, nomi che Luca Vaglio ci aveva già fatto conoscere nei suoi libri di versi, Milano dalle finestre dei bar (2013) e Cosmologie (2022).

Improvvisamente, nella “vita labile e inutile, a bassa intensità” del protagonista, uno strano episodio arriva a sconvolgerne lo stato emotivo, catalizzando i suoi pensieri verso timori prima trascurati. Un carrozziere a cui fa controllare uno pneumatico sgonfio gli rivela che la gomma era stata forata e poi malamente riparata con una bomboletta spray. Mattia sospetta che uno dei tre dipendenti del garage di cui è cliente, abbia nottetempo utilizzato la sua auto senza permesso, incappando in un incidente. Inizia così a indagare sull’accaduto, tormentando i garagisti, i propri genitori e i rari conoscenti con le ipotesi più fantasiose. Questa ossessione finisce per riempirgli giorni e notti di fine dicembre, in una Milano sempre più fredda e deserta, scenario corrispondente al suo vuoto interiore: “Manca poco a Capodanno, e sono da solo, come mi capita quasi sempre in questo momento dell’anno. Eppure ho degli amici. Un numero variabile dai tre ai sei, che nella mia mente oscilla di settimana in settimana, più o meno in base al mio umore. E conosco e vedo molte persone. Frequento alcuni cineforum, aperitivi in lingua straniera e ritrovi delle comunità letterarie milanesi, più o meno vivaci e in polemica aperta o strisciante tra loro”.

A distoglierlo dalla fissazione del furto arriva inaspettata una convocazione della Questura, in cui la Polizia gli contesta due telefonate che lo metterebbero in relazione con l’assassinio di una prostituta. Mattia si difende negando qualsiasi responsabilità, in maniera confusa, mentalmente sospeso nella spessa nube bianca che ha inghiottito tutta la sua esistenza. Rilasciato in attesa di nuove prove che lo scagionino, ripara come è solito fare in un bar dei paraggi, cercando un sollievo protettivo e confortante tra le sue pareti. “Non penso a nulla. Sono immerso in una specie di meditazione, il corpo quasi inerte… Guardo le persone che camminano sul marciapiede e sono lontano da ogni cosa, come inabissato dentro me stesso”. Il romanzo si chiude con quest’ ultima riflessione del protagonista, lasciando il lettore in dubbio sulla reale consistenza delle azioni e dei pensieri da lui raccontati, galleggianti in un’impalpabile ambivalenza, nel vuoto giustamente richiamato dal titolo.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 31 marzo 2025

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VAGNOLI

CARLOTTA VAGNOLI, POVERINE – EINAUDI, TORINO 2021 (ebook)

Come non si racconta un femminicidio, è il sarcastico sottotitolo dell’ebook che Carlotta Vagnoli ha recentemente pubblicato con Einaudi: Poverine. Classe 1987, fiorentina, Vagnoli ha collaborato con i magazine GQ e Playboy; sex columnist e scrittrice, utilizza le piattaforme social per fare divulgazione sui temi della parità, del consenso e della violenza di genere. Con stile asciutto e determinato, lancia il suo j’accuse verso gli organi di stampa nazionali, quando riferiscono i femminicidi che avvengono quasi quotidianamente nel nostro paese con farisaico pietismo, se non addirittura con colpevoli censure e omissioni, scegliendo spesso punti di vista parziali, ricorrendo a fonti non sempre attendibili, ribadendo cliché scontati e obsoleti, ma soprattutto utilizzando una terminologia fuorviante e semplificatoria.

Attraverso un suo personale percorso di ricerca, l’autrice analizza la struttura narrativa di articoli, titoli e documentazioni fotografiche riguardanti gli omicidi di donne, spesso basati su repertori retorici di impianto fiabesco, in cui realtà e fantasia finiscono per sovrapporsi. In generale, nei giornali prevale la descrizione morbosa o romanzata dell’assassino, ridotto frequentemente alla figura del folle ottenebrato dalla gelosia o dal troppo amore, portato a delinquere a causa di una situazione familiare depauperata e violenta. Il male viene stereotipizzato: “I motivi ricorrenti e il profilo psicologico dei personaggi delle favole tradizionali, traslando di storia in storia, dopo un po’ diventano elementi ripetitivi e riconoscibili. I cattivi si tramutano puntualmente in maschere teatrali, personaggi da commedia riproposti all’infinito… gli schemi dell’universo favolistico vengano spesso importati nella realtà per poter giustificare i comportamenti umani che ci rifiutiamo di imputare ai nostri simili”. La vittima invece (ragazzina, donna, fidanzata, moglie, madre, sorella) interessa meno, le viene negata l’attenzione anche da morta. Se va bene, “la reazione unanime è sempre quella di un composto, sommesso, quasi imbarazzato: ‘poverina’”. Poverina soprattutto quando l’uccisa ha i caratteri della giovane bella, seria, decisa a non concedersi sessualmente. Altrimenti, scatta l’accusa: se l’è cercata, non ha saputo o voluto difendersi, ha tradito, provocato, umiliato, esasperato. Per l’omicida si cercano attenuanti, per la vittima colpe o imprudenze.

L’autrice fa riferimento ad alcuni recenti e crudeli femminicidi: quelli di Elisa Pomarelli, Chiara Ugolini, Barbara Gargano, Aurelia Laurenti, Jennifer Sterlecchini, Maryna Novozhylova, in cui al “mostro” si è attribuito un movente passionale o un raptus sessuale per legittimarne la brutalità, annullandone ogni responsabilità sociale e culturale. In tale maniera si occultano i perversi meccanismi determinati da millenni di dominio patriarcale che hanno concorso non solo a perdonare con indulgenza l’abuso maschile, ma anche a indurre le donne a una pericolosa romanticizzazione della violenza, a una sua rassegnata o impaurita accettazione. Davanti a “uomini cresciuti nella cultura sessista fondata sul possesso e sulla prevaricazione” spesso anche le forze dell’ordine appaiono conniventi, e i parenti dell’assassino sono indotti a discolpare l’atto efferato.

Carlotta Vagnoli propone un decalogo deontologico cui i media dovrebbero affidarsi nelle cronache dei femminicidi: evitare il sensazionalismo, la morbosità nella descrizione dei particolari, la pornografia del dolore, la colpevolizzazione della vittima, l’incoraggiamento di qualsiasi emulazione. Si dovrebbe invece assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate, affidandosi a fonti certe, imparziali e precise e citando più spesso i database ufficiali sui fenomeni di violenza di genere. I femminicidi non vanno raccontati dal punto di vista del colpevole, ma partendo da chi subisce la violenza, nel rispetto solidale e convinto della sua persona: perché è la vittima che va tutelata, non il carnefice.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 7 gennaio 2021

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VALDUGA

PATRIZIA VALDUGA, LIBRO DELLE LAUDI – EINAUDI, TORINO 2012

Questo nuovo, esile, volumetto di poesie di Patrizia Valduga, con dedica iniziale a Giovanni Raboni, «infinitamente amato», è suddiviso in tre sezioni, formalmente del tutto omogenee ( si tratta sempre di distici in endecasillabi), ma diverse nei temi, nei toni e nei destinatari cui la poetessa si rivolge. La prima parte, che ricalca modalità delle litanie e delle laudi medievali, fino ad imitare le giaculatorie popolari della devozione cattolica a noi più vicina, è tutta dedicata alla malattia e alla morte del suo compagno, che viene scongiurata, maledetta, temuta, ricattata, in versi che talvolta raggiungono l’altezza della perfezione («che tu sei il mio permesso di soggiorno / per dovunque, non solo per Milano», «Hai raddrizzato questo cuore storpio / restando muto, immobile e lontano», «Io sempre al limitare del mio niente»), altre volte si limitano a risultati un po’ troppo facili e banali: «Signore di ogni tempo di ogni vita, / per la sua vita ti dò la mia vita», «Sono preghiere, versi veri e vivi, / perché tu viva, amore. Amore, vivi!». La seconda parte scandaglia le ragioni di un’angoscia esistenziale che attanaglia l’autrice dalla primissima infanzia, e che ha trovato requie e scampo solo nella solidità rassicurante del suo amore per Raboni : «Adesso, amore, metti insieme tutto :  / angoscia e rabbia, panico e piacere», «Ma questo male impresso nella mente / mi ha portato da te, vero?, Giovanni…», salvandola da memorie di violenze, malattie, sessualità precocemente vissuta e patita, più di qualsiasi terapia psicanalitica. La terza sezione del libro ritrova l’amaro sarcasmo e l’invettiva di prove precedenti di Patrizia Valduga, quando depreca «la prosaglia di tutti i giornalisti», e la cultura modaiola, effimera, superficiale che ormai domina Milano e l’Italia, escludendo dai suoi giri verità e grandezza. Ma da tutto il libro il lettore ricava il sospetto di un compiaciuto concedersi a una sorta di atteggiato manierismo, assolutamente scaltrito nei suoi esiti formali, ma alla fine simile a un collaudato esercizio di retorica, che perciò suona poco autentico, poco sincero.

 

«Leggendaria» n.93, maggio 2012

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VALDUGA

PATRIZIA VALDUGA, MEDICAMENTA – GUANDA, PARMA 1982

Un libro pieno di notti, è il primo libro di poesia di una giovane autrice veneta, Patrizia Valduga, che sembra muoversi con totale sicurezza e quasi provocatoriamente nell’oscurità dei sensi rievocata dalle parole, mentre esse rimangono sospese come monadi in un’ atmosfera di alambicchi e filtri amorosi. Medicamenta,appunto, è il titolo, e da medicare sono corpo e mente con l’unico benefico rimedio dei versi. La Valduga, novella fata morgana, li amalgama con perizia quasi scientifica, attenta a non trasgredire metri classici quali il sonetto e l’ottava, ma mescolandovi contemporaneamente ingredienti quanto mai dissimili: consacrazione e dissacrazione della tradizione letteraria, recuperi del duecento e Zanzotto, ironia e pietà, ma soprattutto un’onnipresente sensualità, a volte ostentata a volte solo suggerita. “Notte” è la parola più ricorrente, e alle notti sono intitolate le tre sezioni del libro, sottintendendo che la poesia deve far riaffiorare alla luce ciò che è buio, perché passato e sprofondato nella memoria o perché taciuto per sempre. Quello che la poesia non ha mai trovato il coraggio e la gioia di raccontare, è la descrizione felice e innamorata del corpo maschile, l’esaltazione del sesso maschile. La poesia femminista ha spesso ironizzato o aspramente censurato l’argomento, la poesia omosessuale l’ha talvolta edulcorato. Patrizia Valduga, invece, rovescia i ruoli pietrificati dei duelli e delle schermaglie d’amore, si fa protagonista di una caccia che ha per oggetto il corpo dell’altro, e cerca di possederlo con crudezza e insieme dedizione: «o strascinarmi al suolo / e con lascivo assalto, anche il midollo / succhiargli…o con audaci mani a volo / provarne gli inguini». Una «vera carnale festosità» nutre la prima sezione Notte dei sensi.
Un inferno di carne, come indica l’epigrafe dantesca; e i richiami a Dante sono costanti non solo nelle immagini dei grovigli umani, quanto anche nella mimesi dello stilnovismo («Che tanto / amor non muta e muta mi trascino»; «di mie doglie, lagnanze lagne e lai») o della petrosità («E nottetempo la gente si arrapa, / s’ ingrifa, al serra serra si disgroppa»; «su ammucchiarsi d’ umano alto m’accappia»; «lor secrezioni, escrezioni contermini»). La sezione intitolata al Marino è naturalmente quella in cui l’omaggio al barocco è più vistoso, in cui i giochi di parole, le magie di rime e assonanze diventano sostanza stessa della poesia, mentre notte e giorno, morte e vitalità del sesso non sono che accidenti, pretesti poetici. Le ottave di endecasillabi sembrano le più calibrate e le più felici del volume, nel loro artificio retorico si placa anche l’agitazione formale e di contenuti della prima parte. Infine, l’ultimo capitolo del libro Notti mancate, favoleggia in un tono sospeso tra il cavalleresco e il pastorale di contese amorose, di seduzioni che ci riportano a un’atmosfera tassesca. L’allusione nega qualsiasi concretezza ai concetti, che sono gli stessi di sempre, ma sottintesi o appena accennati; così avviene che i puntini di sospensione di cui la Valduga si serve in modo ossessivo, arrivino a imitare il balletto del corteggiamento, con le attese, i preparativi e l’avvicinamento, a cui segue la concitazione di una strofa che simula la frenesia e l’improvvisa precipitazione dell’accoppiamento fino alla tranquilla e conclusiva pacatezza dell’ultimo verso («Premorienza ci quieta a maraviglia»). Ci troviamo davanti a un libro nuovo e intelligente, verrebbe da dire forse “troppo” intelligente, costruito anche nelle esitazioni, che lascia intravedere dei punti deboli, delle zone scoperte solo dove questa costruzione viene meno: nelle poesie più brevi, che dovrebbero essere una sorta di illuminazioni, o scansioni ritmiche, ma che in realtà non riescono a uscire dalla estemporaneità. Patrizia Valduga si propone quindi come poeta dal fiato lungo, dall’ampio disegno architettonico, che non lascia spazio all’impressionistico o all’abbozzo.

 

«Produzione e Cultura» n. 28, ottobre 1982

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VALDUGA

PATRIZIA VALDUGA, POETI INNAMORATI – INTERLINEA, NOVARA 2011

Patrizia Valduga, probabilmente la più nota poetessa italiana, e autrice di splendidi versi d’amore, ha curato per Interlinea una piccola antologia di 50 poeti nazionali “innamorati” del sentimento per eccellenza: dal duecentesco Guittone d’Arezzo al contemporaneo Giovanni Raboni, che chiude il volume con alcune composizioni memorabili. “I poeti che amano come adolescenti sono perdutamente innamorati di se stessi”, afferma la Valduga, e si sa quanto egocentrismo e autoreferenzialità animi in genere i letterati. Per cui sembra particolarmente acuta e ironica l’esortazione manzoniana riportata nell’introduzione a occuparsi di altri sentimenti, più nobili e solidali dell’amore: “la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza”. Comunque, qui d’amore si parla, e di amore in versi… Ma la scelta degli autori antologizzati risulta subito abbastanza discutibile, quasi provocatoria: sia per le esclusione che per le inclusioni. Sono presenti infatti nomi assolutamente marginali nella storia della nostra letteratura (Bonaccorso da Montenegro, Chiara Matraini, Francesco da Lemene…); di altri poeti eccellenti vengono presentate poesie francamente mediocri o poco rappresentative o addirittura fuori tema (Pascoli,Prati, Palazzeschi, Tessa, Giudici, Ungaretti..); su alcuni poeti importanti e volutamente – polemicamente – tralasciati, la curatrice esprime giudizi impietosi (Buonarroti, Penna, Gozzano: che pure hanno scritto versi leggendari). Non si sa se per amore del paradosso o gusto della sfida, Valduga arriva ad anteporre Monti a Leopardi, Rebora e Betocchi a Montale; con coraggio, o con presunzione e scherno. Ma alla fine il lettore, forte della conoscenza di altre ponderate antologie di poesie d’amore (Garzanti, Rizzoli, Scheiwiller) si può chiedere che senso abbia questa operazione editoriale, e se non risulti a discapito di chi l’ha promossa e pubblicata.

IBS, 23 febbraio 2011

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VALERIO

ADRIANA VALERIO, ERETICHE. DONNE CHE RIFLETTONO, OSANO, RESISTONO

IL MULINO, BOLOGNA 2022

 

Adriana Valerio (Sperone, 1952), storica e  teologa, da sempre è impegnata a reperire fonti e testimonianze per la ricostruzione della memoria delle donne nella spiritualità occidentale. Tra le prime teologhe ad occuparsi di esegesi femminile, ha insegnato Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, avviando progetti internazionali per la ricostruzione dell’identità storica e religiosa delle donne, in particolare indagando il loro rapporto con i testi biblici.

Nel suo ultimo volume, Eretiche, pubblicato da Il Mulino, ricompone le vicende delle molte donne coraggiose e indipendenti che, giudicate non in linea con le direttive dell’ortodossia cattolica, hanno osato fronteggiare i tribunali ecclesiastici, venendo per tale ragione oppresse, scomunicate, imprigionate, uccise. Già nell’introduzione ne presenta stringatamente alcune: “Il primo giugno 1310 venne bruciata una giovane filosofa, la beghina di Valenciennes Margherita Porete; nel 1524 la mistica Isabel de la Cruz fu processata e successivamente condannata all’ergastolo dall’Inquisizione di Toledo; a metà del Seicento furono deportate le colte suore gianseniste di Port-Royal dall’arcivescovo di Parigi; nel 1912 fu considerato pericoloso e messo all’Indice dei libri proibiti l’opera della teologhessa inquieta Antonietta Giacomelli che voleva sollecitare una riforma liturgica nella Chiesa”.

Donne: aristocratiche, plebee, vergini, maritate, suore, dichiarate pubblicamente eretiche. La parola greca eresia (αἵρεσις) significa “scelta”, e indica la possibilità di seguire un’opinione o una dottrina tra diverse opzioni. Questo termine originariamente non possedeva alcuna caratterizzazione denigratoria. Fu con le Lettere del Nuovo Testamento che assunse connotati dispregiativi, suggerendo separazione, divisione, devianza. “Le esperienze difformi furono giudicate disgregatrici e fuorvianti da un punto di vista dottrinale, morale e disciplinare e per questo allontanate, perseguitate, distrutte”, soprattutto a partire dal II e III secolo, con i trattati di Giustino, Ireneo, Tertulliano, Ippolito.

Gli autori di testi canonici, i detentori dell’ortodossia all’interno del cristianesimo erano ovviamente di sesso maschile, mentre alle donne veniva destinato un ruolo accessorio sia nell’elaborazione teorica sia nella pratica sociale. Eppure, spunti di critica ideologica, audaci contestazioni dei ruoli di potere, esperienze di fede non tradizionali furono elaborate da menti femminili, e regolarmente, severamente occultate o addirittura derise: “donne messe al bando o condannate come deviate, eretiche, streghe, sovversive, isteriche e altro, a seconda di come sono state stigmatizzate nelle varie epoche storiche”.

Adriana Valerio analizza appunto le vicende tormentate e dolorose che hanno caratterizzato i rapporti tra l’universo femminile e il cristianesimo, già a partire dai suoi albori: se il messaggio di Gesù si definì da subito come rivoluzionario e liberante, la misoginia era già evidente in molti testi del Nuovo Testamento: “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. […] Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia (1 Tim 2, 11-15)”.

Istituzionalizzandosi, il cristianesimo accentuò la rappresentazione filosofica di una trascendenza legata al potere, in cui ogni elemento di pluralità e ogni aspetto di femminilità veniva marginalizzato, con un Dio definito come sovrano assoluto, intollerante ed esclusivo. Protagoniste di una proposta intellettuale e spirituale divergente da quella egemone, le “eretiche” mettevano in discussione soprattutto quattro principi ritenuti inamovibili dalla gerarchia ecclesiastica: il principio di autorità, il ruolo profetico, l’esperienza mistica e il rapporto tra legge e libertà, proponendo nuove alternative rispetto alle scarse opportunità offerte dalla vita ecclesiale.

Già dall’epoca romana la persecuzione nei confronti del pensiero teologico femminile fu costante, inibitoria e crudele: ne furono vittime le profetesse frigie Massimilla, Priscilla e Quintilla (definite femminette e donnicciole). Il cristianesimo, riconosciuto come religione dell’impero nell’editto di Tessalonica del 380, avviò poi un rigoroso processo identificativo e di opposizione nei confronti del paganesimo, della cultura greco-giudaica e delle correnti eterodosse: di tale irrigidimento teorico fecero le spese la matematica e astronoma egiziana Ipazia, e altre filosofe e teologhe infamate con accuse di adulterio e lussuria per tacitarne il dissenso ideologico.

Dalla Francia e dal Belgio si diffuse il movimento delle beghine, che aspiravano a vivere secondo il modello evangelico nelle forme della povertà, della carità e dell’apostolato, riflettendo sulle pagine bibliche in gruppi autonomi di preghiera: anch’esse perseguitate, vennero poi ricompattate nel grembo della obbedienza romana. Tra di loro, la vittima più illustre fu Margherita Porete, bruciata nel 1310 insieme al suo libro Lo specchio delle anime semplici.

Stessa persecuzione fu destinata alle donne valdesi, alle catare, le cui comunità patirono violenze e massacri.

Molte le personalità femminili di cui Adriana Valerio esalta il coraggio, la determinazione e l’intelligente anticonformismo: Margherita Boninsegna da Trento, Guglielma di Milano, Maifreda da Pirovano, e la figura più rappresentativa e famosa, Giovanna d’Arco, morta sul rogo 1431, a diciannove anni. Tra il 1550 e il 1600, i tribunali ecclesiastici dell’Inquisizione (spagnola, portoghese e romana), istituiti a difesa della fede cattolica, accusarono centinaia di donne di stregoneria, possessione diabolica, perversioni sessuali, sacrilegi e malefici. Prese di mira furono anche le intellettuali e le aristocratiche, come Giulia Gonzaga, Renata di Francia e la poetessa Vittoria Colonna. colpevoli di aspirare a una spiritualità più interiore e libera da costrizioni dogmatiche.

Il sospetto investiva, in epoca rinascimentale e più tarda, anche le più ardenti e carismatiche esperienze di misticismo, quali quelle di Orsola Benincasa, Giulia Di Marco, Isabella Berinzaga, Madame Jeanne Guyon, Marta Fiascaris, Lucia Roveri, Maria Antonia Colle, e delle seguaci del quietismo e del giansenismo, perché irrazionali e difficilmente incasellabili nelle consuete e più innocue manifestazioni di devozione.

Oltre all’intenso e documentato capitolo dedicato alla “caccia alle streghe”, il volume si sofferma sull’ostilità espressa dalla gerarchia ecclesiastica negli ultimi due secoli contro le studiose e teologhe culturalmente più progredite. Filosofe e letterate (Marianna Bacinetti Florenzi Waddington, Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Antonietta Giacomelli, Elisa Salerno, Valeria Paola Pignetti per arrivare alla famosa pedagogista Maria Montessori) dovettero sopportare gli interventi censori dell’Inquisizione romana per aver criticato il potere temporale dei papi, sollecitando una maggiore democratizzazione della Chiesa e un cambiamento culturale che ponesse fine alla loro emarginazione sociale e religiosa. In molti casi queste intellettuali furono scomunicate, escluse dall’eucarestia, ostracizzate al punto da venire indotte ad abbandonare la pratica religiosa, o ad abbracciare nuovi culti. Più spesso la gerarchia ecclesiastica preferiva opporre alle loro richieste “la strategia del silenzio, non dando risonanza alle posizioni della teologia femminista della liberazione, che mettono in discussione l’impostazione patriarcale e androcentrica dell’interpretazione biblica, della teologia e della tradizione, e soffocando qualunque istanza di partecipazione ecclesiale che apra all’ordine sacro”.

Alla domanda di conferire il sacerdozio alle donne, ancora oggi si oppone il diniego feroce e quasi isterico da parte di tutta l’ufficialità cattolica.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 13 luglio 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VALERY

PAUL VALERY, L’ANIMA E LA DANZA – MIMESIS, MILANO 2014

Un testo drammatico, L’anima e la danza, pubblicato in Francia nel 1923, che il grande poeta Paul Valery scrisse su imitazione dei dialoghi platonici, mettendo in scena tre personaggi (Socrate, Fedro e il medico Erissimaco) che, riuniti in un “convito implacabile”, disquisiscono del rapporto tra danza e bellezza, danza e poesia, danza e amore. Probabilmente influenzato dalla lettura di Nietzsche, secondo cui dal Caos può nascere una stella danzante, e dall’opera pittorica di Degas, Valery riflette sull’influenza benefica, salutare e inebriante che lo spettacolo della danza suscita nell’anima dello spettatore.
È la seduzione della bellezza, capace di trasformare i sentimenti umani, avvicinandoli – nella contemplazione estatica e scorporante – al divino. Così fa dire a Socrate: “La vita è una donna che danza, e che finirebbe divinamente d’esser donna se potesse obbedire allo slancio che la solleva, sino alle nuvole…Per gli Dei, che ballerine illuminate, preambolo vivo e pieno di grazia per i più perfetti pensieri! Le loro mani parlano, i loro piedi sembrano scrivere…”. Gli fa eco Fedro: “Guardatelo il vago corpo molteplice delle danzatrici, solenne e insieme leggero. Entrano come anime”. Ed Erissimaco: “Disegna rose e nodi e stelle di moto, e incantati recinti, e si slancia dai cerchi appena conclusi, e si slancia e corre inseguendo fantasmi, e coglie un fiore che in breve diventa un sorriso. Come va dichiarando la sua inesistenza con una leggerezza inesauribile!”.

I tre personaggi continuamente confrontano il loro passo terrestre, pesante, materiale all’ariosità luminosa dei volteggi di una ballerina: “Un corpo, con la sua semplice energia in atto, è tanto forte da alterare più profondamente la natura delle cose che mai l’intelletto con sogni e speculazioni vi pervenga”. Più di ogni filosofia, la danza avvicina alla verità: “In te mi trovavo, o movimento, fuori dalle cose del mondo…”.

 

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/L-anima-e-la-danza-Paul-Valery.html     6 marzo 2017