Mostra: 1271 - 1280 of 1.302 RISULTATI
RECENSIONI

WELLS

H.G. WELLS, L’UOMO INVISIBILE – FANUCCI, ROMA 2017

Con un’esaustiva prefazione di Carlo Pagetti, che fornisce al lettore tutte le coordinate culturali, storiche ed interpretative del testo, l’editore Fanucci ha ripubblicato nel 2017 il terzo tra gli scientific romance di H.G.Wells, scritto nel 1897: L’uomo invisibile. Il libro, che l’autore definì “una fantasia umoristica”, racchiude in sé i caratteri della letteratura gotica, arricchiti da una feroce critica al progressivo conformismo spersonalizzante della società e dall’ interesse per le più recenti sperimentazioni della medicina: temi rivisitati con un gusto esplicito del sarcastico, del grottesco, della suspence e della parodia antiborghese.

Ambientato nei sobborghi di Londra e del Sussex, il romanzo ha come protagonista un ambizioso e delirante scienziato, il cui nome allude sinistramente al grifone, torvo animale fantastico. Griffin aspira, nella sua follia anarcoide e vendicatrice, a punire attraverso le sue invenzioni gli individui in cui si imbatte, ritenuti ignoranti, ostili e persecutori. La vicenda ha inizio con il protagonista che, imbozzolato come una mummia per non far distinguere i lineamenti del viso e del corpo, si presenta in una locanda del paesino di Iping, chiedendo di affittare una stanza, e sottolineando fermamente la sua volontà di non essere disturbato in alcuna maniera. Ha con sé molti bagagli, contenenti alambicchi, provette e liquidi misteriosi. Sia il suo aspetto fisico sia i suoi bizzosi e scostanti comportamenti incuriosiscono il personale della taverna e la piccola comunità del posto, persone semplici da subito insospettite e in seguito decisamente avverse alla presenza aliena e perturbante dell’ospite. Su di lui aleggiano ipotesi fantasiose e drammatiche, che si consolidano quando in paese si intensificano apparizioni misteriose, furti, spostamenti di mobili e oggetti vari senza che si possa individuare il responsabile di tali atti. Bambini e donne sono i più ferocemente contrari alla presenza dello sconosciuto, che agli occhi di molti pare voler nascondere dietro il pesante camuffamento l’inesistenza di un corpo materiale.

Nel corso di un’improvvisa colluttazione con i compaesani, Griffin rivela la sua natura di uomo in carne e ossa, ma invisibile, rilevabile dagli altri solo attraverso la voce, gli starnuti e i colpi di tosse, o il rivestimento di indumenti mistificatori. Sotto le bende, sotto i vestiti trafugati qua e là, c’è il niente, il vuoto, in cui H.G. Wells intravede ed evidenzia l’inconsistenza e la fragilità di ogni essere umano. Dopo una serie incredibile di avventure rocambolesche, di violenze esercitate contro gli oggetti e le persone, in un crescendo di furia incontenibile che nel respiro ansante della narrazione assume contorni farseschi, Griffin ferito e affamato si rifugia nella casa di un vecchio compagno di università, il dottor Kemp, stimato professionista ligio al dovere e rispettoso delle istituzioni. Gli racconta di essersi specializzato in fisica molecolare, e di aver ideato esperimenti al limite della liceità, inseguendo l’obiettivo di trasformare la materia, rendendola trasparente e quindi invisibile: “Realizzare un’impresa del genere significava invadere il campo della magia, e mi fu ben chiara l’inebriante visione di ciò che può rappresentare per un uomo l’invisibilità. Mistero, potere, libertà”. Dopo aver conseguito i primi successi sulle cose inanimate e sugli animali, era riuscito nell’abominevole intento di modificare anche la propria natura corporea.

Il suo scopo non era solo il raggiungimento della fama e della ricchezza, e la vittoria sulle umiliazioni subite come ricercatore, ma soprattutto l’instaurazione di un Impero del Terrore che potesse renderlo padrone delle esistenze altrui. Svuotandosi di sé, aveva però ottenuto solamente di crearsi il vuoto intorno, in un parossismo di distruzione e autodistruzione. Braccato dalla polizia, ferito e calpestato dal traffico cittadino, circondato da gente terrorizzata e inferocita, nudo nel gelo dell’inverno, estenuato dalla ricerca infruttuosa di cibo e di soldi, Griffin prende coscienza dell’assurdità del suo progetto delirante, e preda della folla che lo vuole linciare, pronuncia le sue ultime parole “Pietà, pietà!”, prima di morire straziato da colpi di bastone e calci, mentre il suo corpo invisibile riprende lentamente ma inesorabilmente la sua forma umana e cadaverica.

 

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/L-uomo-invisibile-Wells.html

8 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

WHARTON

EDITH WHARTON, ETHAN FROME – RIZZOLI, MILANO 2018

Con l’introduzione di Harold Bloom e la bella traduzione di Greti Ducci, le edizioni BUR hanno riproposto a un prezzo modico, nella collana Grandi Classici, uno dei più meritatamente famosi romanzi di Edith Wharton, scritto nel 1911: Ethan Frome.

La Wharton, nata a New York nel 1862 e morta in Francia nel 1937, fu la prima donna a vincere nel 1921 il Premio Pulitzer con  L’età dell’innocenza. Discendente di un’antica e ricca famiglia di New York, dopo la separazione dal marito (un banchiere colpito precocemente da disturbi psichici), si trasferì in Francia nel 1907, dedicandosi alla letteratura su consiglio e incoraggiamento dell’amico Henry James. La sua copiosa produzione narrativa ebbe prevalentemente come oggetto i rapporti tra il singolo individuo e la società di appartenenza, regolata da rigidi schemi di comportamento e da una mentalità conservatrice e classista. Nel corso della prima guerra mondiale, la scrittrice si adoperò in favore dei disoccupati e dei rifugiati, ottenendo il riconoscimento della Legion d’Onore francese.

Da Ethan Frome è stato tratto nel 1993 un film diretto da John Madden e interpretato da Liam Neeson e Patricia Arquette.

Harold Bloom nell’introduzione afferma che questo romanzo breve è “la più americana” tra le storie raccontate da Edith Wharton, la più riuscita e certo la più letta: da essa sprigiona il senso tragico di un ambiente immerso non solo nel gelo e nel bianco indifferente dell’inverno, ma nell’apatia dei movimenti al rallentatore dei personaggi, nello squallore di una povertà immodificabile degli interni abitativi, nella “sofferenza cupa, insopportabile e, nel vero senso della parola, inutile” dei due protagonisti. Un dolore che permea il racconto e a cui non ci si può ribellare, trattato dall’autrice con pacato fatalismo, senza alcuna concessione alla retorica e al pietismo.

Ethan Frome si staglia nella narrazione come una figura scultorea, indimenticabile, nella sua muta rassegnazione a un destino feroce: il suo silenzio, la sua disperazione repressa e tormentata ha tuttavia la forza prometeica di una protesta contro il cielo: inascoltata proprio perché disumana. Già nelle prime pagine viene presentato nella sua consistenza fisica, cui si contrappone una reticenza verbale che produce sospetto e timore: “Anche allora, sebbene non fosse più che una rovina di uomo, egli era la figura più imponente e impressionante di Starkfield. Non era solamente la sua altezza che lo distingueva, perché i nativi del luogo si riconoscevano facilmente per la dinoccolata, longilinea figura dalla razza straniera, più tarchiata: era l’aspetto possente e noncurante che aveva quantunque fosse zoppo e ciò gli impedisse ogni passo come lo strappo di una catena. Vi era qualcosa di lugubre e scostante sul suo volto, ed era talmente irrigidito e brizzolato che pensai fosse un vecchio, e rimasi sorpreso di sentire che non aveva più di cinquantadue anni”. L’aspetto inquietante di Ethan non ne rispecchia la scalfibile emotività, la delicatezza dei sentimenti, l’espressa volontà di mettere in secondo piano i propri desideri di fronte a quelli altrui. Le vicende della sua triste esistenza vengono raccontate dai compaesani con reticente pudore, ma anche con rispettosa solidarietà: “malattie e dispiaceri: ecco cosa è stata la porzione ben colma di Ethan, fin dalla prima portata… viveva in una profondità di isolamento morale troppo vasta per potervi accedere casualmente… sembrava far parte del muto, malinconico paesaggio, una incarnazione del suo gelido dolore, con tutto ciò che di caldo e di sensibile vi era in lui ben sepolto sotto la superficie; ma non vi era nulla di ostile nel suo silenzio”.

Ethan da giovane avrebbe voluto studiare ingegneria, si interessava alla tecnica e a ogni aspetto delle scienze cui riusciva ad avvicinarsi con i pochi mezzi messigli a disposizione dall’ambiente contadino e arretrato in cui viveva, nel New England; dapprima la morte del padre, poi la demenza della madre e le difficoltà dell’azienda agricola di famiglia, l’avevano indotto a sposare una lontana parente, più anziana di lui, Zeena ‒ acida, malaticcia e rancorosa ‒, obbligandolo a rinunciare ai suoi sogni di riscatto sociale e culturale. La sua esistenza opaca e rassegnata sembrò improvvisamente rischiararsi con l’arrivo in famiglia di una giovane cugina della moglie, Mattie, tanto gentile e affettuosa quanto incapace di muoversi nella rude concretezza della cerchia parentale in cui era stata accolta. Il sentimento di attrazione reciproca che inevitabilmente nasce tra Ethan e Mattie è avvertito come colpa e trasgressione, quindi negato interiormente e contrastato negli atteggiamenti: si esprime in improvvisi trasalimenti, in impercettibili sguardi incantati, in frasi troncate sul nascere, in involontari ed emozionati contatti di mani. Quando la moglie megera, improvvisamente messa in allerta dalla propria gelosia e malignità, fingendo un aggravarsi della sua salute impone alla ragazza di andarsene da casa per lasciare il posto a una nuova domestica, i due giovani decidono di sacrificare il loro amore davanti all’invincibile dominio della cattiveria. Il loro immolarsi non si risolverà, come sperato, in un definitivo scomparire insieme nella morte, ma in un ulteriore e ancora più tragico destino comune di sofferenza.

Questa vicenda sentimentale, di un’intensità ascetica (come giustamente suggerisce Harold Bloom) trova nello sfondo sociale e naturale in cui si situa una rispondenza che la rende ancora più drammaticamente suggestiva. L’inverno e la neve del paesino di Starkfield congelano i rapporti umani, rendendoli più lenti e più consapevoli, nella maestosità silenziosa e bianca del paesaggio, nella luce implacabile del giorno, nella vastità dei boschi, nella cupezza delle notti: “Dall’altra parte della cinta di abeti si stendeva ondulata dinanzi a loro la campagna aperta, grigia e solitaria sotto le stelle. A volte il sentiero li portava sotto l’ombra di una scarpata o attraverso la sottile oscurità di un gruppo di alberi spogli. Qua e là si vedeva, lontana nei campi, una fattoria, muta e fredda come una pietra tombale. La notte era così silenziosa che sentivano la neve gelata scricchiolare sotto i loro piedi. Il rumore della neve che cadeva da un ramo carico lontano nei boschi echeggiava come un colpo di moschetto, e a un certo punto una volpe abbaiò, e Mattie si strinse vicino a Ethan e accelerò il passo”. Un passo accelerato che porterà entrambi a una rovinosa sciagura, più desiderata che involontaria.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 20 marzo 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

WIECHERT

ERNST WIECHERT, MISSA SINE NOMINE – ANCORA, MILANO 2011

Ernst Wiechert, nato nel 1887 nella Prussia orientale, conobbe durante il nazismo la deportazione a Buchenwald per opposizione al regime, e ne trasse sofferta e profonda ispirazione per la sua produzione letteraria. L’ultimo romanzo,questa “Missa sine nomine“, uscita postuma nel 1950, e riproposta al pubblico italiano in diverse edizioni fino ad oggi, riassume un po’ tutti i temi cari al suo autore: la spiritualità intrisa di misticismo, il senso della giustizia e della solidarietà tra gli esseri umani, la lotta contro ogni violenza e sopruso, la contemplazione stupefatta e grata della natura. E il paesaggio che fa da sfondo a questa saga familiare e storica è quello della Germania settentrionale, con le sue nebbie e acquitrini, boschi e canneti, aironi e gru, picchi e civette; mentre le figure che si muovono intorno ai protagonisti rappresentano tutto il mondo che brulicava nel paese tedesco devastato dalla guerra: ex-deportati e collaborazionisti, banditi e parroci, poveri affamati e reduci, costretti a mendicare e a uccidere, a vendicarsi o a perdonare. I personaggi principali sono tre fratelli, i baroni Liljecrona, nobili di stirpe e d’animo, dispersi e divisi da diversi tragici destini nel corso del conflitto mondiale, che ritrovatisi nella loro tenuta e tra i loro contadini alla fine della guerra, cercano in modi differenti di ricostruire la loro esistenza, chi attraverso il lavoro e l’impegno quotidiano e fattivo, chi nella meditazione e nella preghiera. Accanto ad essi, tre figure di donne che, pur nei loro limiti caratteriali e nelle diverse vicende, anche colpevoli, trascorse, li aiutano in questa riscoperta di sé e del mondo. Ma il senso più vero del romanzo, intriso di antica sapienza cristiana (anzi, di pietismo protestante, come suggerisce giustamente nella postafazione il vescovo Diego Coletti) vive tutto in questa volontà di redenzione dal male, di riassorbimento del peccato nel bene, di comprensione e giustificazione talvolta anche troppo ingenuamente edificante.

IBS, 22 gennaio 2012

RECENSIONI

WILDE

OSCAR WILDE, IL DELITTO DI LORD ARTHUR SAVILE – IL GRANO, MESSINA 2016

Nel racconto di Oscar Wilde, pubblicato nel 1891, sembra prevalere “il fascino dell’abisso” (come scrisse Mario Praz), celato all’interno della vivace rappresentazione di uno spaccato di società futile, ambiziosa, volubile, i cui protagonisti si muovono come inconsapevoli e insignificanti pedine del tragico gioco del destino. «Il mondo è un teatro, ma le parti del dramma sono assai mal distribuite… Non saremmo dunque che pezzi di scacchi, mossi da un potere occulto? Non saremmo se non vasi di argilla che il vasaio modella a suo talento per l’onore o per l’onta?».

Lady Windermere, durante uno degli abituali ricevimenti serali a Bentink House, chiede al suo chiromante personale di leggere la mano agli invitati. Lei rifulge di un indiscusso fascino: «Abbagliava con la sua bellezza, col latteo seno opulento, l’azzurro floreale dei grandi occhi, l’oro dei capelli inanellati… Aveva ora quarant’anni, niente figli, e quella disordinata brama del piacere che è il segreto di chi si conserva giovane». I suoi ospiti, garruli e frivoli, sono finanzieri e politici della Londra che conta, dame di alta classe, prelati libertini, artisti e uomini di scienza, fanciulle e giovanotti aspiranti a nozze convenienti: «maschere della rappresentazione sociale», insomma. Tra di loro, il giovane patrizio Lord Arthur Savile, fidanzato con la nobile (d’animo e di lignaggio) Sibilla Merton, osserva nel chiromante a cui porge in lettura la mano, un turbamento evidente, che presto si tramuta in terrore. Ottenute le spiegazioni richieste, fugge nella notte perdendosi tra le strade brulicanti di vizio e povertà della City più povera. «Assassino! Ecco quel che vi aveva letto il chiromante. Assassino! La stessa notte pareva saperlo e il vento desolato glielo ripeteva».

Sconvolto dal nefasto vaticinio che gli preannunciava la prossima attuazione di un omicidio, Arthur rompe il fidanzamento con Sibilla, e decide di sfidare il fato, avvelenando una vecchia zia ed evitando così misfatti più gravi. Quindi lascia Londra e fugge in Italia, per distrarsi e insieme procurarsi un alibi. La vecchia zia nel frattempo muore davvero, ma di morte naturale: pertanto rimane inesaudita e sospesa sul capo di Arthur, che fa rientro in Inghilterra, la terribile profezia del chiromante. Una Londra indaffarata e indifferente appare agli occhi del tormentato protagonista mutevole come i suoi sentimenti, oscillanti tra paura e speranza: «C’era nella delicata gaiezza dell’alba non so che ineffabile emozione; e pensò a tutti i giorni che spuntano in bellezza e tramontano in tempesta. Quei rozzi uomini, dalle voci aspre, dalla grossolana allegria, dal portamento spensierato, che strana Londra vedevano! Una Londra libera dai delitti notturni, sgombra dal fumo del giorno, una città pallida, spettrale, tristemente seminata di tombe. Si domandò che cosa ne pensassero, e se sapessero dei suoi splendori, e delle sue vergogne, delle gioie sonanti e vistose, della fame orrenda, di tutto ciò che vi si distilla, ribolle e rovina nel breve corso d’un giorno… Eppure, non già il mistero lo colpì, bensì la commedia del dolore, la sua assoluta inutilità, la grottesca assenza di senso comune. Come tutto ciò era incoerente, disarmonico! Che discordia stridente fra l’ottimismo superficiale dei tempi correnti e i fatti reali dell’esistenza».

Arthur tenta nuovamente un secondo omicidio, cercando di far saltare in aria con l’esplosivo un anziano e dotto parente appassionato di collezionismo. Sconfitto ancora da circostanze avverse, riuscirà nell’impresa con la vittima meno prevedibile, liberandosi finalmente dal funereo pronostico e impalmando in gloria la sua amata Sibilla. L’ironia feroce di Oscar Wilde suggella la vicenda con il sogghigno divertito rivolto a maghi, astrologi, truffatori di ogni sorta, e ai loro ingenui o sciocchi seguaci.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/IL-DELITTO-DI-LORD-ARTHUR SAVILE.html        6 ottobre 2018

RECENSIONI

WILLIAMS

WILLIAM CARLOS WILLIAMS, A UN DISCEPOLO SOLITARIO – BOMPIANI, MILANO 2023

Nato, vissuto e morto (1883-1963) a Rutherford, una cittadina industriale del New Jersey a una ventina di chilometri da New York, William Carlos Williams esercitò per cinquant’anni la professione di pediatra e ostetrico, dedicandosi alla poesia nel tempo libero dai pressanti impegni lavorativi e familiari, soprattutto scrivendo di notte, mentre nei fine settimana frequentava l’intellighenzia letteraria e artistica statunitense: Ezra Pound, Hilda Doolittle, Wallace Stevens, Marianne Moore, Marcel Duchamp, Francis Picabia. Figlio di immigrati portoricani – il padre era di origini inglesi e iberiche mentre la madre di origini basche ed ebraicoolandesi – parlò spagnolo fino all’adolescenza, e sia il meticciato culturale nativo sia il plurilinguismo diede alla sua scrittura e al suo carattere una particolare vivacità e apertura mentale, incoraggiata dai frequenti viaggi in Europa, dagli studi scientifici così come dagli approfonditi interessi letterari.

Il primo ventennio del ’900 fremeva di nuovi impulsi nell’arte, nella musica, nella letteratura; il modernismo sancì un cambiamento epocale, promuovendo lo stravolgimento delle forme, distruggendo la retorica del romanticismo e abbandonando la prospettiva storicista in favore di un rafforzamento dell’espressività, anche a scapito dell’ideale estetico dell’armonia e della compostezza. In tutte le sue varie correnti (dal simbolismo all’ermetismo, dall’acmeismo al surrealismo) si definì come iconoclasta, anti-decorativo, perseguendo il percorso delle li bere associazioni mentali (lo “stream of consciousness”), la frantumazione della figura e della personalità attraverso il moltiplicarsi dei punti di vista, l’abbandono della sintassi nell’accostamento di termini incongrui, stranieri o de-temporalizzati.

Williams aderì inizialmente alla corrente imagista, e alcune sue poesie furono inserite da Pound nell’antologia Des Imagistes (1914), in cui figuravano Ford Madox Ford, Amy Lowell e James Joyce. Ma anche se questa collaborazione finì per incasellare tutta la sua carriera nell’ambito ristretto dell’imagismo, in realtà si svincolò presto e radicalmente dai temi e dalle forme che più caratterizzavano questo movimento. L’antologia pubblicata da Bompiani raccoglie testi tratti da diversi volumi: da The Tempers del 1913 a Pictures from Brueghel del 1962, premiato con il Pulitzer. Proprio nelle prime sezioni troviamo le tracce più evidenti dell’insegnamento poundiano (visionarietà, concisione, ritmo): “C’è un uccello tra i pioppi! / È il sole! / Le foglie sono pesciolini gialli che nuotano nel fiume. / L’uccello plana e li sfiora, porta il giorno sulle ali. / Febo! / È lui che crea / l’incredibile bagliore tra i pioppi!”

Nelle raccolte successive Williams si distanziò sempre di più da questa eredità primo-novecentesca, facendo della realtà quotidiana (la natura, la presenza femminile, le cose materiali, la propria esperienza di medico, gli ironici autoritratti) l’oggetto principale della sua poesia, anche nella scelta linguistica, che privilegiava un lessico più sensibile alla parlata quotidiana, ai toni e alle cadenze americane, allontanandosi dalla letterarietà britannica, e invece scegliendo strutture più originali, vicini alla tensione poliritmica della musica jazz. La polemica contro l’intellettualismo di Joyce e Eliot si fece pungente, al punto da spingerlo a definire The Waste Land “the great catastrophe”, una reale minaccia per l’identità e lo spirito del Nuovo Mondo. Sia la sua professione, esercitata con dedizione e generosità soprattutto nei confronti degli strati popolari e degli immigrati, sia l’immersione nella vita concreta della sua città, offriva al suo talento poetico naturale materia e ispirazione per osare nuove modalità espressive, estranee alle seduzioni culturali europee, che fornissero “una replica a pugni nudi al greco e al latino”, e un ideale di poetica sintetizzato  nel motto “No ideas  / but in things”, in A sort of a song del 1944: “Che il serpente attenda sotto / la malerba / e la scrittura / sia di parole, lente, svelte, acuminate / nello sferrarsi, mute nell’attesa, / insonni. // – a riconciliare grazie alla metafora / persone e pietre. / Componete. (Niente idee / se non nelle cose) Inventate! / La sassifraga è il mio fiore, spacca / le rocce”.

Fedele a un progetto liberal-democratico della società, e vicino a posizioni di sinistra, la collaborazione alla Partisan Review, trimestrale del Partito Comunista, e ad altre riviste radicali (Blast e New Masses) gli costò nel 1953 la perdita della consulenza alla Library of Congress. A poesie politicamente schierate, talvolta venate di sarcasmo (Proletarian Portrait, Raleigh Was Right, Russia, The Pink Church), dalla metà degli anni ’30 in poi si affiancarono composizioni che esprimevano empatia e rispetto per la sofferenza degli umili (To a Poor Old Woman, The Gentle Negress, To a Dog Injured in the Street, The Mental Hospital Garden, The Dead Baby).

Gli era specialmente consona la descrizione di ambienti e oggetti (“Alla brillante luce del gas / apro il rubinetto in cucina / e guardo l’acqua schizzare / nel lindo lavandino bianco. / Sullo scanalato scolapiatti / da una parte c’è / un bicchiere pieno di prezzemolo / – fresco verde crespo”) quanto quella di personaggi comuni, presi dalla strada (“Intanto, / il vecchio che va in giro / a raccogliere cacche secche di cane / cammina nel canalino di scolo / senza alzare lo sguardo / e il suo incedere / è più maestoso di / quello del Vescovo / che si dirige al pulpito / la domenica”). L’osservazione della natura non scadeva mai nell’idillio retorico: “Vibranti rami arcuati / spingono verso il basso, risucchiando il cielo / che trabocca da dietro, intonacandosi / sul loro sfondo in spiragli stipati, azzurro lapideo / e arancione sporco!”

Dedicava a se stesso ironici autoritratti: “se io nella mia stanza a nord / ballo nudo, grottescamente / davanti allo specchio / sventolando la camicia sulla testa, / cantando sottovoce tra me e me: / “Sono solo, solo. / Sono nato per essere solo, / per me è il massimo così! / Se ammiro le mie braccia, la faccia, / le spalle, i fianchi, il sedere, / sullo sfondo delle tende gialle, chiuse – // Chi potrà mai dire che non sono il genio felice della mia casa?”. E la quotidianità domestica veniva raccontata in toni spiritosamente colloquiali: “i piccoli favori / ricambiati, io e te, una camicia / passata a un uomo nudo dalla / moglie che mostra le gambe, grattami la schiena / per favore, oh e vuota il bugliolo / quando scendi – e avvicinami / quel fiore, io non c’arrivo”,

“SOLO PER FARTI SAPERE // che ho mangiato / le prugne / nella / ghiacciaia // che / probabilmente avevi / serbato / per la colazione // Perdonami / erano squisite / così dolci / e così fresche”.

Massima espressione del coinvolgimento umano di William Carlos Williams nell’ambiente sociale a lui circostante è la pubblicazione di un poema epico in cinque libri, edito tra il 1946 e il 1958, intitolato Paterson, resoconto biografico quasi documentaristico di una città industriale del New Jersey, distante una decina di chilometri dal suo luogo di nascita, con diverse generazioni di abitanti alle prese con la modernizzazione neocapitalista.

Se con Paterson giunse finalmente l’agognato riconoscimento del valore letterario con l’attribuzione nel 1950 del National Book Award for Poetry, fu solo dopo la morte che la critica si decise a prendere finalmente sul serio la sua produzione, con la medaglia d’oro per la poesia del National Institute for Arts and Letters. Una gratificazione dovuta al lavoro saggistico, narrativo, teatrale, oltreché poetico, e all’attività di promozione svolta in favore della nuova generazione di poeti americani della San Francisco Renaissance e della New York School (Allen Ginsberg, Frank O’Hara, John Ashbery, Kenneth Koch…), a testimonianza di quanto la generosità del poeta e dell’uomo si sia prodigata fino all’ultimo in aiuto degli altri. Ne è una riprova anche l’ammonimento offerto al discepolo solitario –aspirante poeta – a osservare le cose (cielo, luna, case, chiese) nella loro reale concretezza, senza abbellimenti artificiosi.

Negli ultimi anni, segnati dalla sofferenza fisica e psichica, i versi di Williams assunsero talvolta i toni della preghiera, con frequenti accenni alla simbologia cristiana, e richiami al bene universale anche nel sentimento erotico privato (Viaggio verso l’amore si intitola la raccolta del 1955), espresso in sentenze moraleggianti: “Siamo miseri mortali / ma l’essere mortali / può opporre resistenza al nostro fato. / Potremmo / grazie a una remota possibilità / persino vincere!”, “Quello che abbiamo sofferto / ci era destinato / perché lo soffrissimo”, “Era l’amore per l’amore, / l’amore che ingoia tutto il resto, / amore riconoscente, / amore della natura, delle persone, / animali, / un amore che dà vita a / gentilezza e bontà / che mi ha commosso / ed è quello che ho visto in te”.

Amore, appunto, è ciò che il curatore del volume Luigi Sampietro sottolinea come elemento più caratterizzante la vita e l’opera di William Carlos Williams. Amore inteso come carità e compassione, che accetta e comprende anche gli aspetti impoetici della realtà, e ne fa oggetto di interesse e bellezza nei versi.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 29 maggio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

WILSON

EDWARD O.WILSON, IL SIGNIFICATO DELL’ESISTENZA UMANA – CODICE, TORINO 2015

Il biologo americano Edward Wilson, entomologo di fama mondiale e docente emerito a Harvard, più volte Premio Pulitzer per la saggistica, è stato il fondatore della sociobiologia, lo studio sistematico dell’evoluzione biologica del comportamento sociale, basato sulle teorie evoluzionistiche darwiniane. Convinto che il comportamento, sia degli animali che degli uomini, sia il prodotto dell’interazione tra l’ereditarietà genetica e gli stimoli ambientali, ha difeso coraggiosamente le sue tesi di fronte a velenosi attacchi politici e accademici.
In questo piccolo libro, Il significato dell’esistenza umana, espone con ironia e chiarezza divulgativa il suo pensiero, già noto ai lettori italiani per altre pubblicazioni di successo, ma qui riassunto e semplificato in brevi, appassionanti capitoli che hanno l’ambizioso obiettivo di spiegare le origini della nostra specie e di indicare come sia possibile riprogettarla per renderla migliore, fisicamente e intellettualmente.
Secondo Wilson lo sviluppo della storia umana in sei millenni di civiltà non è stato determinato da un disegno soprannaturale, bensì dal dispiegarsi di un comportamento naturale, molto raro nel mondo vivente (riguarda solo venti specie), che viene definito «eusocialità», e che ha avuto origine, dopo ere di evoluzione, con la comparsa dell’Homo habilis, due milioni di anni fa.
In cosa consiste l’eusocialità? Si tratta di una forma avanzata di comportamento sociale esistente solo tra alcuni insetti e crostacei marini, in due famiglie di ratti-talpa, e appunto nell’uomo: riguarda la capacità di collaborare nell’allevamento dei piccoli e nella divisione del lavoro. Tutto qui? Pare proprio di sì.
Il passo iniziale per creare una colonia eusociale fu la costruzione di un nido protetto per difendere la prole, quindi la divisione tra foraggiatori disposti a correre rischi uscendo dal nido per procacciare cibo, da una parte, e riproduttori e nutrici destinati alla protezione e alla cura dei figli, dall’altra. Con questa scelta altruistica e cooperativa, ebbe inizio lo sviluppo mentale (favorito dall’istituzione degli accampamenti, dalla caccia e dalla nutrizione carnivora) che portò il cervello a svilupparsi dai 600 cc delle scimmie antropomorfe ai 1400 dell’Homo sapiens.

«Le forme più complesse di organizzazione sociale sono costituite a partire da livelli di cooperazione elevati, e sono promosse da atti altruistici eseguiti da almeno alcuni membri della colonia». Non più sopraffazione e competizione, quindi, ma interazione e intelligenza «fecero dell’Homo sapiens la prima specie pienamente dominante della Terra». Wilson dedica pagine avvincenti al mondo degli insetti, alla loro rigida ma collaborativa struttura sociale; e poi a tutte le forme di vita presenti nella biosfera, dai batteri ai vermi ai superorganismi fino alla probabile ma indimostrata esistenza degli alieni. Per concludere che l’essere umano, con le sue contraddizioni e manchevolezze, è comunque il più evoluto tra le cento milioni di specie esistenti sulla terra: e solo sulla terra può raggiungere e mantenere la sua immortalità, fatta di una particolare e sensibilissima predisposizione culturale verso la conoscenza, la bellezza, l’arte, il progresso tecnico e scientifico.

«Non siamo stati creati da un’intelligenza soprannaturale ma dal caso e dalla necessità; siamo una specie fra milioni di altre presenti nella biosfera terrestre. Per quanto si voglia sperare e desiderare altrimenti, non vi è prova alcuna di una grazia che scenda luminosa su di noi dall’esterno, nessuno scopo o destino dimostrabile che ci sia stato assegnato, nessuna seconda vita accordataci alla fine di quella attuale. A quanto pare siamo completamente soli. Il che, a mio avviso, è un’ottima cosa. Significa che siamo completamente liberi. Di conseguenza possiamo individuare più facilmente la radice delle convinzioni irrazionali che ci dividono in modo tanto ingiustificato».

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Il-significato-dell-esistenza.html     8 febbraio 2016

 

RECENSIONI

WILSON

EDWARD O.WILSON, LA CREAZIONE – ADELPHI, MILANO 2008

“La biodiversità del nostro pianeta è ben più ricca di quanto si pensasse. Questa diversità sta scomparendo a un ritmo sempre più rapido a causa della distruzione degli habitat, operata direttamente dall’uomo o indirettamente dal cambiamento climatico in corso, a cui si aggiungono il proliferare di specie invasive, l’inquinamento e il sovrasfruttamento delle risorse naturali. Se queste forze scatenate dall’attività umana non vengono in qualche modo mitigate, potremo perdere fino a metà delle specie di piante e di animali sulla Terra entro la fine del secolo”. Il grido d’allarme, appassionato e inquietante, che si alza da queste pagine di Edward O. Wilson (grande entomologo, per decenni titolare di una cattedra di biologia ad Harvard), non solo rende il lettore consapevole delle sue responsabilità individuali di fronte al mantenimento dell’ambiente che lo ospita, ma gli fornisce una quantità sorprendente di informazioni, per lo più ignorate o volutamente censurate dal sistema mediatico asservito a un irresponsabile sviluppo economico. Che la nostra civiltà sia stata costruita sul tradimento della natura, che milioni di specie viventi scompaiano annualmente dal nostro pianeta, che l’acqua dolce non costituisca una riserva infinita, che le foreste pluviali siano a rischio estinzione, lo sappiamo più o meno tutti. Ma Wilson ci insegna in questo libro come l’uomo sia solo una delle molte specie animali esistenti sulla terra, e tra le più fragili e meno essenziali. Batteri, funghi, lombrichi, insetti dominano in assoluto rispetto alla ristretta nicchia naturale che ci ospita. E quindi è essenziale rieducare gli abitanti del pianeta a nuove regole di comportamento, responsabilizzando in questa indispensabile educazione ecologica collettiva governi, mezzi d’informazione e religioni. Altrettanto fondamentale è supportare culturalmente le sfide che attendono la biologia del terzo millennio, foriera di decisive rivoluzioni intellettuali.

IBS, 3 febbraio 2014

RECENSIONI

WOELFFLIN

HEINRICH WÖLFFLIN, CAPIRE L’OPERA D’ARTE – CASTELVECCHI, ROMA 2015

Uno dei più importanti storici dell’arte, lo svizzero Heinrich Wölfflin, pubblicò negli anni ’20 un breve testo, rielaborato poi nel 1940 (e oggi riproposto dall’editore romano Castelvecchi con l’introduzione di Andrea Pinotti), che si apre con questa domanda: «Devono davvero essere spiegate le opere d’arte?» Non basta forse accontentarsi di goderne la visione, di vivere le emozioni che esse ci suscitano dentro, senza comprendere fino in fondo perché ci sembrino belle, perché vengano universalmente considerate capolavori? Secondo Wölfflin, bisogna imparare a guardare un quadro in base a un graduale apprendimento, con la stessa applicazione con cui si imparano le lingue straniere, studiandone la grammatica, le frasi idiomatiche, la pronuncia.
Nessuna opera d’arte, infatti, è immediatamente e spontaneamente comprensibile da qualsivoglia spettatore, ma deve essere letta situandola «nel processo evolutivo, rintracciandone antecedenti e conseguenti, poi rifacendosi ai contemporanei e agli affini; e tracciando, in tal modo, intorno ad essa, un cerchio che, passando attraverso la scuola e l’origine, potrà estendersi fino al cerchio più grande, quello del carattere dell’intero popolo nel quale è radicata».

Pertanto essa va inserita in un diagramma che ne stabilisca le coordinate diacroniche (predecessori e successori, storia dei vari stili) e sincroniche (in relazione con la generazione, il popolo, l’ambiente, la scuola dell’artista che l’ha prodotta). Ovviamente, il capolavoro è sempre firmato da una grande personalità, da un genio, ma dietro a esso è intessuta la storia di un’intera epoca, di un nazione, di una cultura che trascende e insieme determina l’artista eccelso: «Non tutto è possibile in tutti i tempi», ammonisce Wölfflin: «Sono proprio le personalità più forti quelle che mostrano, nel modo più evidente, come la storia dell’arte sia legata a leggi che vanno oltre la personalità».

Sembrano considerazioni scontate, al giorno d’oggi, ma quello che rende originali e addirittura provocatorie queste poche pagine è l’affermazione della irreversibilità dell’evoluzione artistica, secondo un processo deterministico modellato sulle scienze naturali, e scandito sempre in tre stadi (primitivo-maturo-tardo, oppure arcaico-classico-barocco), che si ripresenta in diverse fasi storiche, in un processo organico che «possiede un suo proprio sviluppo e una sua propria struttura». Ciò avviene secondo una progressione graduale, conformemente a leggi necessarie, che in genere passano da «forme di rappresentazione psicologicamente più semplici a quelle più complesse». «L’evolvere dell’arte non dovrebbe essere paragonato al crescere di un albero singolo, ma piuttosto a quello di un bosco…»

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Capire-l-opera-d-arte-Heinrich.html

28 novembre 2015

RECENSIONI

WOOLF

LEONARD WOOLF, LA MORTE DI VIRGINIA – LINDAU, TORINO 2015

Di questo interessante volume pubblicato dalle edizioni torinesi Lindau, ci impressiona e commuove già la copertina: una fotografia del 1939 raffigurante Virgina e Leonard Woolf, seduti su un divano accanto al cocker Pinka. I due si assomigliano nell’espressione rassegnata e mite dei volti, nello sguardo affettuoso che entrambi rivolgono al cane rannicchiato tra di loro, quasi a chiedergli pudicamente un sostegno complice. E Pinka guarda l’obiettivo come avesse compreso e perdonato tutto, a significare “li difendo io, da voi e da se stessi”. Leonard Woolf (1880-1969) scrisse in tarda età un corposa autobiografia, di cui il presente volume è un estratto, limitato agli anni 1939-1941, i più dolorosi della sua esistenza, straziati dalla guerra e dalla depressione di sua moglie, che sfociò nel suicidio di fine marzo 1941. Una sorta di diario, meditato e sofferto, puntellato da riflessioni politiche, considerazioni storiche, ritratti di amici e intellettuali, aneddoti curiosi. Divagazioni, anche, che Woolf giustifica con queste parole: «Per l’autore di un’autobiografia, forzare la propria vita e i propri ricordi secondo una linea retta rigidamente cronologica significa distorcere la prima e truccare e falsificare i secondi. Se si vuole provare a raccontare la propria vita in modo veritiero, si deve puntare a lasciare nel racconto qualcosa della disordinata discontinuità che la rende così assurda, imprevedibile e sopportabile».

Le pagine si aprono sulla descrizione degli avvenimenti che portarono al conflitto mondiale, con la ottusa crudeltà di chi lo pianificò e con la miopia di chi non seppe ribellarvisi, in una tragica e perenne ripetizione di violenza contro gli inermi, scandita nella storia da millenni: l’elenco delle vittime prende avvio dalla Genesi, toccando Socrate e Gesù, per arrivare a Dreyfus, al genocidio degli armeni, ai pogrom contro gli ebrei: «Il mondo era tornato a guardare gli esseri umani non come individui ma come semplici pedine, tessere o marionette, nel ripugnante processo che doveva far tacere la paura o soddisfare l’odio».

Leonard Woolf si oppone alla cecità distruttiva del nazismo con tutta la dignità e il coraggio che la sua vastissima cultura, la sua sensibilità di scrittore e il suo impegno di editore gli concedono, stringendosi con solidarietà ai vicini, ai collaboratori, e soprattutto alla moglie Virginia, di cui conosce e teme la fragilità emotiva, che già l’aveva indotta a tentare due volte il suicidio. Con lei è costretto ad assistere alla distruzione sistematica di Londra, ai bombardamenti a tappeto, ai conoscenti uccisi al fronte o in città, al loro appartamento sventrato, alla tipografia rasa a terra. Si trasferiscono da Mecklenburgh Square al paesino di Rodmell, nel Sussex, rinunciando ad agi e servitù, in un’atmosfera irreale, «di quiete triste e rassegnata». Lui entra nel servizio anti-incendi, costretto (ormai quasi sessantenne) a turni di pattugliamento notturno; ma soprattutto partecipa attivamente alla via sociale del paese, con uno spirito generosamente altruista. Insieme a Virginia legge, cura il giardino, cucina, gioca a bocce, fa lunghe passeggiate. Lei, in questi suoi ultimi due anni di vita, è impegnata nella scrittura della Biografia di Roger Fry e del romanzo Tra un atto e l’altro, sempre alla ricerca della perfezione stilistica, e perpetuamente terrorizzata dal giudizio dei critici letterari. Virginia annota nel suo diario, di cui il marito trascrive alcune righe, la «strana atmosfera di quieto fatalismo, nell’imminenza dell’inevitabile», rivelando la loro condivisa decisione di sopprimersi nel caso di un’invasione tedesca, e di una probabile deportazione. («Continuammo a parlare del suicidio mentre la luce elettrica cominciava a sbiadire fino a che restammo completamente al buio»). Nei primi mesi del ’41, la situazione precipita, Virginia ripiomba in un delirio ossessivo, perde lucidità, soffre di «spasmi di esasperazione improvvisa ed acuta». Leonard le rimane vicino con dedizione, ma scisso tra timore di doverla internare e volontà di salvarla: quindi esita, depistato dai cambiamenti d’umore di lei, senza comprendere fino in fondo in quale baratro di disperazione e follia sua moglie stesse precipitando. La mattina del 28 marzo non la trova in casa, si precipita al fiume Ouse e trova «il suo bastone da passeggio posato sull’argine». Il corpo di Virginia fu recuperato tre settimane più tardi, cremato con l’accompagnamento musicale di un quartetto di Beethoven, e le sue ceneri seppellite ai piedi di due grandi olmi a cui marito e moglie avevano dato i loro nomi. Il biglietto che Virginia aveva lasciato sulla mensola del camino era insieme una dichiarazione di resa, di amore assoluto, e una richiesta di perdono: «Tu mi hai offerto la massima felicità possibile. Tu sei stato in tutto e per tutto quello che nessuno poteva essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici di noi, fino a quando non è arrivata questa terribile malattia…Ho perso tutto tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita».

«Leggendaria» n.112, luglio 2015

RECENSIONI

WOOLF

VIRGINIA WOOLF, TUTTO CIO’ CHE VI DEVO – L’ORMA, ROMA 2014

«Toglietemi gli affetti e sarò un’alga fuori dal mare, la carcassa di un granchio, un guscio vuoto… Toglietemi l’amore per gli amici e il sentimento bruciante e continuo dell’importanza, dell’insondabilità e del fascino della vita umana e non sarei altro che una membrana, una fibra, senza colore e senza vita, buona solo per essere buttata via come una deiezione». Non solamente nei romanzi, nei saggi, nei diari Virginia Woolf esibì la sua viscerale passione per l’osservazione delle persone, e dei rapporti che si instaurano tra di loro (amore, odio, amicizia, invidia). Ma anche nel suo ricco epistolario, di cui l’editore romano L’Orma offre qui una scelta di brani indirizzati, tra il 1903 e il 1941, a una decina di amiche. Lettere in cui la scrittrice inglese svela tutta la sua acutezza introspettiva e critica, insieme all’ironia, al gusto sottile del pettegolezzo, ai magoni familiari, all’ansia di condividere letture, o di sollecitare giudizi sulla sua produzione letteraria. Le destinatarie di questa corrispondenza sono parenti (l’amata sorella Vanessa, la cugina Madge, la nipote Judith), amiche d’infanzia (l’esplosiva Violet Dickinson), o felici scoperte dell’età più matura (Ethel Smyth); talvolta amanti (Vita Sackville-West). A tutte loro Virginia scrive senza remore o finzioni, spesso abbozzando qualche polemica o spiritosa derisione, sempre però con un affetto limpido che si rivela anche nei vezzeggiativi e nei nomignoli usati. Conoscendo i suoi difetti, li sottolinea impietosamente («Come mi piace essere adulata!…Il mio vero piacere dello scrivere recensioni consiste nel dire cattiverie… Non mi piacciono gli istinti profondi, non negli esseri umani…»). Ma con altrettanta spietatezza sferza i difetti altrui: l’ipocrisia, la boria sociale, l’intolleranza. E soprattutto la rigidità, la pesantezza, la noiosità. La sua essenziale richiesta alle amiche si esprime infine nella parola conclusiva dell’ultima lettera: «Amami».

IBS, 3 dicembre 2014