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RECENSIONI

BELPOLITI

MARCO BELPOLITI, PIANURA – EINAUDI, TORINO 2021, pp. 296

La suggestiva immagine di Luigi Ghirri sulla copertina di Pianura, ultimo saggio einaudiano di Marco Belpoliti, recupera e rende l’atmosfera magica di alcune celebri inquadrature di Amarcord, sfocate nell’impalpabilità della nebbia, fluttuanti sulle note malinconiche di Nino Rota. La fotografia di Ghirri attenua nel grigio brumoso i profili di un’edicola sacra e di un cipresso appena individuabili attraverso il velo appannato e cinereo dell’atmosfera nordica. Nebbia incanto, perché sfuma e confonde i contorni delle case, delle cose, delle sagome umane, attenuandone i contrasti.

Alla nebbia ci viene da pensare quando ci figuriamo la pianura Padana, come suo primo e ineludibile carattere, e insieme metafora di altro: “La nebbia ha a che fare forse con la noia? Una delle domande suggerite dalla nebbia non è: dove sono? Ma piuttosto: dove sono gli altri? E anche: cosa lega i miei pensieri alle cose che ci sono? La nebbia consente di immaginare, di guardare, di vedere quello che non si riesce a vedere quando tutto è completamente visibile”. Illusione che scherma, nella sua “opacità e trasparenza”, i perimetri tangibili del reale. Nebbia è un termine che ricorre più di quaranta volte nel libro di Belpoliti, dove però di realtà, ce n’è in abbondanza: ci sono paesaggi, fiumi e strade, fabbriche e campagne, uomini e donne concreti, con le loro storie, musiche, poesie, ribellioni, fughe e ritorni. Ma tutti in qualche modo sospesi, avvolti in una patina vaga e indefinita, resa labile proprio dalla nostalgia del ricordo.

Il fascino della pianura anima il lungo viaggio percorso dall’autore, i suoi incontri ritrovati nella memoria, e altri attuali, vivaci. Piatta, piatta a perdita d’occhio, come viene definita dalla prima frase del volume, la Padania è stata suddivisa dagli agrimensori romani nel I secolo a.C. in ordinate centurie quadrate di cinquanta ettari, e con la stessa struttura è rimasta per duemila anni. Una robusta regolarità materiale che sembra aver modellato anche l’indole dei suoi abitanti, solido, pratico, sebbene umorale, “ansiosamente malinconico”.

Il primo dei personaggi raccontati da Belpoliti, con un affetto e una gratitudine che travalicano l’ammirazione, è proprio il fotografo Luigi Ghirri, che ha saputo descrivere con “inquietante tranquillità” le periferie urbane, l’innocenza dell’infanzia, l’ordinarietà del quotidiano, avvicinandosi al consueto con accenti di profonda spiritualità: “La sua era una attenzione fatta di cose antiche, ma sempre nuove, quelle che vedono gli abitanti della campagna emiliana da secoli: pezzi di cielo, oggetti di casa, muri sbrecciati, vecchie cascine, cose di nessuna importanza per cui mai nessuno prima di lui s’era fermato a ritrarle”.

Poi Gianni Celati, magistrale narratore delle pianure, imprevedibile, distratto, affettuoso, trasandato ma di “un’eleganza trascurata”, gran camminatore, sempre a rincorrere una propria misteriosa ansia. E ancora il cantautore Giovanni Lindo Ferretti, i poeti Corrado Costa e Giulia Niccolai, gli scrittori Giuliano Scabia e Pier Vittorio Tondelli, l’attrice Ermanna Montanari, il drammaturgo Marco Martinelli, il pittore Giuliano Della Casa, lo psicologo Sandro Vesce…

Percorsi preferenziali, in questo lungo viaggio fatto in auto, in treno, in corriera, sono quelli che circondano i luoghi natali di Marco Belpoliti, luoghi fisici e dell’anima: Reggio Emilia e Modena, tra paeselli, paesotti, cittadine intorno: Scandiano, Rubiera, Carpi, Correggio, Mirandola, rettilinei asfaltati che tagliano appezzamenti di colture intensive, vigneti, pioppeti, paludi, fiumi melmosi, “l’interminabile Po”, capannoni industriali, fabbriche di piastrelle. In questo paesaggio uniforme, appaiono improvvise epifanie di chiese romaniche, solitarie figure di ciclisti, facce scolpite di anziani, osterie ormai poco frequentate.

La Padania si estende anche al Veneto, al Piemonte, alla Lombardia: ed è quindi anche l’hinterland milanese, anonimo e indistinto, che ha ospitato gli anni maturi di Belpoliti, a nutrire tuttora le sue memorie. “Gli anelli delle superstrade lambiscono i campi coltivati e qua e là qualche sperduta cascina a fare da riferimento, intorno palazzoni e villette a schiera con nuove strade tracciate di fresco. In questa periferia della Brianza tutto invecchia rapidamente, e dopo qualche anno è già una rovina, come se l’umidità mangiasse gli edifici, li invecchiasse e li rendesse decrepiti e squallidi anzitempo”.

Nel libro, puntellato da disegni dello stesso autore, sono frequenti gli excursus storici (regni, invasioni, epidemie, guerre), commenti artistici e architettonici (dettagliate descrizioni del Duomo di Modena, di musei, bastioni, castelli, palazzi signorili), dissertazioni geologiche e note di gastronomia: perché la pianura è ricca di una cultura stratificata in tanti diversi aspetti, naturali o determinati dall’intervento dell’uomo. Sono però soprattutto le memorie private a vivacizzare le pagine del volume einaudiano: incontri, letture, piatti e vini tipici, cortei studenteschi, lezioni universitarie a Bologna con professori eccezionali (Anceschi, Camporesi, Eco). Pianura di Marco Belpoliti è un libro “intimo e collettivo”, come recita il risvolto di copertina: esplorazione di un passato privato che diventa storia comune, e invita ad approfondire la conoscenza di un paesaggio, di un habitat, di una gente nei suoi aspetti più intriganti e meno esplorati.

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Pianura-Belpoliti22 febbraio 2021

 

 

 

RECENSIONI

BEMPORAD

GIOVANNA BEMPORAD, ESERCIZI VECCHI E NUOVI – SOSSELLA, BOLOGNA 2011

L’editore Luca Sossella rende un doveroso e meritato omaggio alla poetessa Giovanna Bemporad, nota e stimata traduttrice, pubblicando i suoi versi sparsi in diverse e ormai non più recuperabili raccolte, alcune risalenti a più di sessant’anni fa. Poesie di una raffinata e preziosa classicità, eleganti e misurate, di limpidissima e controllata sapienza. Già scorrendo l’elenco delle pluripremiate traduzioni dell’autrice, si prova un reverenziale rispetto: Omero, Virgilio, Goethe, Novalis gli autori più importanti di cui si è nutrito il suo timbro poetico, pervaso nella produzione personale dalla severa consapevolezza di chi è «alla perpetua ricerca del suono della perfezione», come suggerisce la postfazione. Quindi, una poesia intrisa di tradizione, nei suoi incipit quasi sempre votati all’endecasillabo, mai scontato e troppo cantabile, ma sempre denso di significati, che subito introduce il lettore al senso più intimo del verso: «Mia compagna implacabile, la morte», «Nelle mie vene, un tempo ebbre di vita», «Gioventù, mio rammarico inesausto», «L’anima mia che ha tristezze d’aurora». Alcuni versi sono limpidamente e apertamente modulati su quelli famosissimi dei nostri lirici: di Montale, per esempio, «Non domare, implacabile, il mio riso / mentre il fiore del melo incanutisce; / non recidermi il filo dei pensieri…», o di Leopardi: «E come il vento / su per roseti rampicanti in fiore…», e ancora «meglio piegarsi a immagine di un fiore / che docilmente all’urto dell’inverno / si spoglia dei suoi petali», «sarebbe dolce / svanire in questa immensità serena». Leopardiane sono senz’altro le atmosfere di questi idilli contemporanei: con la luna (bianchissima, casta, dolce, insensibile, perfida, sola e dolorosa), il mare ( giovane, clamoroso, pigramente verde), il vento ( blando, di antiche età, rude ), la notte ( eterna e chiara). Ma soprattutto l’ombra, l’ombra che si diffonde in moltissime poesie, accompagnando il calar del sole o dilagando sotto le fronde degli alberi, metafora del tempo che si consuma, e di un implacabile avvicinarsi della morte. La fine della giovinezza viene cantata con rassegnata malinconia, e l’attesa di un dissolvimento nel nulla non ha niente di tragico, e assomiglia invece a un placido abbandonarsi al sonno: «come s’infrange un’onda nella calma», «La luna va calando all’orizzonte / dove si perde la pianura, e dice / che trapassare al nulla non è male», «Dolore, che mi seguiti immortale / e indomabile fino al limitare / della morte, avrò gioia dagli spazi?»
Quest’impressione di «ariosa calma», questo tranquillo e fiducioso affidarsi ai silenzi della natura e del cosmo, nei paesaggi notturni e acquatici che tanto ricordano l’immobile serenità delle stampe cinesi, rifuggono dall’esibizione di qualsiasi sfrontato richiamo autobiografico. Anche le poesie d’amore, pervase da una sensualità delicata e da un’armonia lontana da ogni smodata passione, si offrono al lettore con lo stesso pudore e incantata gratitudine con cui descrivono le fanciulle amate: «o ninfa, o baiadera, / non che adirarmi col vento d’amore / sospendo ai tuoi squillanti braccialetti / e alle tue lunghe mani una bianchezza / di mute solitudini, e il tuo collo / sfioro con disarmati occhi indolenti». L’eco di Saffo è dichiarata, ma si sente tutta l’eredità maturata nei secoli dai lirici latini fino ai provenzali e forse al nostro Penna: «Conduci al convegno quella ch’io amo / e non trapassi inconsumata l’ora / o notte. // In solitudine confusa, / dimentico tra me ch’ella è partita / e al luogo del convegno aspetto sola». Una voce purissima, dunque, che ha taciuto a lungo negli anni urlati degli sperimentalismi recenti, e che pure prova strategie compositive nuove e coraggiose, come nella ricerca degli attributi, spesso stranianti: fronte smemorata, insondabile azzurro, divieto acerbo, trionfanti primavere, bellezza acquatica, bruno languore, sabbia mortuaria, ora aggravata, volante cuore, alba abortita, oggetti quieti e sedentari…
Questa altissima poesia di Giovanna Bemporad rappresenta un severo ammonimento, un insegnamento consapevole della sua grandezza per la poesia italiana di oggi, così presuntuosamente soddisfatta di esibire obiettivi minimi, atmosfere banali, impoverimenti lessicali, ed è di sprone a una più impegnata profondità.

 

«Leggere Donna» n.154,  gennaio 2012

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BENEDETTI

MARIO BENEDETTI, TUTTE LE POESIE – GARZANTI, MILANO 2017

Garzanti ha da poco pubblicato Tutte le poesie di Mario Benedetti (Udine, 1955), poeta schivo e non conosciuto quanto merita, che dagli anni ’70 ha seguito un suo percorso autentico e originale di scrittura, fedele a una interpretazione umile e partecipe della realtà e del proprio vissuto. Il volume raccoglie per la prima volta le sue opere più rappresentative, da Umana gloria (2004) a Pitture nere su carta (2008), fino a Tersa morte (2013) e all’inedito Questo inizio di noi (2015), ed è prefato da tre illustri poeti e amici (Antonio Riccardi, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta), che sottolineano con affetto e stima non solo la qualità letteraria dei versi di Benedetti, ma anche la tensione etica che li anima, radicata nei dati sofferti della sua vicenda biografica.

La madre originaria di una Slovenia impoverita, il padre invalido, il mondo contadino di Nimis con la sua lingua non esportabile, il terremoto del’76, gli studi a Padova e il trasferimento in una Milano proletaria e indifferente, la malattia autoimmune che si aggraverà nel corso di tutta l’esistenza per evolvere poi in sclerosi e infine nell’ictus che lo costringe oggi a una vita dimidiata, solitaria, impossibilitata a esprimersi: motivi sufficienti a spiegare “l’energia fredda e compressa e mista di intransigenza” di questo autore, i “sentimenti di inadeguatezza, inappartenenza e precarietà”, la “durezza” e lo “smarrimento” di cui parlano i suoi commentatori. In un’intervista radiofonica del 2012, Mario Benedetti diceva di sé “Sono nato malato… anche da bambino… avevo sempre qualcosa»: ma la sua pare al lettore una malattia più dell’anima che del corpo, l’impossibilità di adattarsi al reale, il sentirsi eternamente fuori luogo, in uno stato di perenne provvisorietà”.

Se leggiamo le poesie tratte da Umana gloria (quale gloria, c’è da chiedersi, se non quella sconfortata e avvilita della pura sopravvivenza), troviamo ripetuto il simbolo del muro: scrostato, “strappato”, che più che a proteggere serve a rinchiudere, a limitare, a imprigionare. Intorno, erbe, sassi, campi da dissodare, la fatica di un lavoro pesante e senza parole. L’infanzia, regno mitico del ricordo, è malinconia e stupore, un domandarsi impauriti perché si è sulla terra, a fare cosa e come, maldestri nei gesti e nell’espressione: “non so come dire”, “Dove sono? / io dove sono?”, “perché sono qualcuno?”, “Servirebbe guardare da lontano, pensare che si guarda. / Pieno un pomeriggio di dormiveglia voglio stare”, “Mattine senza sapere di essere in un posto, dentro una vita / che sta sempre lì”. Le persone si muovono con lentezza e rassegnazione; sono i nonni, i genitori, il fratello, e altre comparse di cui si citano i nomi, tanti nomi paesani oggi in disuso (Dino, Vanni, Agostino, Ernesta, Rina, Giacomino…) quasi fossero a disagio anche nel solo sentirsi chiamare. Se il poeta si allontana dal paese per andare in altre città più grandi, o all’estero (la Bretagna e il mare del Nord tornano spesso, con i loro freddi) rimane comunque estraneo ai luoghi, confuso, in attesa di una identificazione che non arriva mai, senza alcuna volontà introspettiva o di scavo psicologico. Il lessico semplicissimo, lo stile volutamente dimesso, la sintassi sconvolta, con frequenti anacoluti e tautologie, sembrano voler sottolineare l’incapacità di adeguarsi alle aspettative di chi legge. Questa volontà spiazzante e provocatoria della lingua è tanto più evidente in Pitture nere su carta, in cui Benedetti approda a una scrittura sincopata, scarnificata, quasi celaniana, che denuncia l’assurdità del vivere, poiché è la morte che alla fine vince, e tutto si dissolve nel turbinoso rincorrersi di anni, secoli, millenni, di cui solo i musei, i cimiteri e i reliquari manterranno testimonianza: “Ma nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino”, “Infinite mattine, infinite notti. / Va dolce il nulla, // il dolcissimo nulla”, “Non l’ascolto, sta la veglia, senza. / Carriole di muri, non raccontate”. Il verso diventa balbettio, chiede soccorso a termini stranieri, alla pittura di Goya, di Cézanne, di Mondrian, alla storia e alla preistoria, alla teologia: “Rinnegato il canto. / Gli altari. / Perché tutti possano udire”.

La riflessione sul tempo cede il passo, nell’ultima raccolta Tersa morte, al pensiero ossessivo della morte, al disfacimento dei corpi che diventano ossa, teschi, putridume, assediati in ospedali e case di riposo, tra personale impaziente, cateteri, diarree. Il poeta, o il suo sosia (poiché non è lui davvero che fa visita al padre, alla madre malati, agonizzanti: il dolore lo costringe a uscire da sé, a costruirsi una controfigura), si muove come sonnambulo, in una incomunicabilità totale con gli altri per pudore e vergogna della propria fisicità, aspettando una liberazione o una condanna: “Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole”, “Il gas dei corpi, / i vestiti smangiati, i femori, / le mascelle, i denti, il loro sorriso, / il bacio dei denti, senza labbra”, “Non è valsa la pena affaccendarsi”.

Siamo sostituibili, irrilevanti, e nemmeno la poesia ci salva, come ammoniscono questi versi testamentari e purtroppo profetici: “Non saprai di essere morto, / non sarai, quel nulla che nella vita diciamo / non sarai, non ci sarai più, non saprai di te. / Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere / la pura inconcepibile assenza, non distrarti”, “Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia, / io nella mia vita non ho letto nessuna poesia. / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta”.

 

© Riproduzione riservata        «Nazione Indiana», 12 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BENEDETTI

TARCISIO BENEDETTI, ALBORADA. LA TIPOGRAFIA DELLA LIBERTÀ – EDIZIONI LAVORO, ROMA 2021

Il colpo di Stato dell’11 settembre 1973, che in Cile portò alla fine dell’utopia socialista di Salvador Allende e al suo suicidio, provocando la salita al poter del regime dittatoriale di Pinochet, aveva provocato nel mondo e in particolare nel nostro paese un’emozione fortissima. In Italia trovarono rifugio e concreta solidarietà migliaia di profughi cileni, mentre cresceva l’interesse per la cultura della nazione sudamericana attraverso la diffusione della poesia e della musica di artisti impegnati quali Victor Jara, Violeta Parra, Pablo Neruda, gli Inti Illimani, i Quilapayún. Furono soprattutto le confederazioni sindacali a mobilitarsi per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla violazione dei diritti democratici del popolo cileno, sulle torture inflitte agli oppositori, sulle disastrose condizioni economiche in cui il golpe aveva ridotto il paese. Vennero avviati fattivi progetti di formazione politica e ricostruzione materiale: tra questi suscitò grande interesse e partecipazione la creazione di un centro grafico ed editoriale cui fu dato il nome augurale di Alborada (Nuova Alba), gestito da una ong della Cisl, la Iscos, che avviò l’installazione di una tipografia utilizzata per stampare manifesti, riviste e quotidiani di opposizione. Tra i più incisivi furono il “Fortín Mapocho”, “La Epoca”, “El Siglo”, che partendo da una situazione di semi o totale clandestinità, raggiunsero presto una straordinaria popolarità tra i lettori, contribuendo così alla ripresa delle libertà costituzionali. Queste testate giornalistiche, spesso prese di mira dal regime con boicottaggi e censure, giocarono un ruolo fondamentale sia nel favorire la campagna per il No a Pinochet nel referendum del 1988, sia nell’appoggiare l’elezione di Patricio Aylwin Azocar alla Presidenza della Repubblica nel 1990.

In questa difficile contingenza storica si inserisce la vicenda umana e politica di Tarcisio Benedetti, che alla sua esperienza di vita e di lotta in Cile ha ora dedicato un libro di memorie e testimonianze: Alborada. La tipografia della libertà. Benedetti, nato in provincia di Verona nel 1947, appena sposato si trasferì in Cile con la moglie pochi mesi dopo il colpo di Stato, per fare il servizio civile in sostituzione di quello militare, insegnando per quattro anni (1974-1978) in una scuola professionale della cittadina mineraria di Curanilahue, nella provincia di Arauco. Braccato dalla polizia del regime per aver stampato bollettini clandestini, fu costretto a lasciare il paese sudamericano per rientrare a Verona, tornando al suo lavoro di grafico alla Mondadori. Nel 1987 partì nuovamente per il Cile proprio per contribuire alla realizzazione del Progetto Alborada, dirigendo la tipografia impegnata a stampare materiale di lotta e resistenza.

Grazie alla sua abilità, alle sue conoscenze tecniche e all’acquisto di una nuova rotativa, i giornali pubblicati raggiunsero presto tirature nazionali, centrando in pieno gli obiettivi programmati di propaganda libertaria e opposizione alla dittatura fascista, e incoraggiando la transizione verso la democrazia. Solo dopo la caduta del regime militare, Benedetti tornò in Italia con la famiglia, continuando nel suo impegno costruttivo di sindacalista e operatore sociale.

Il volume di cui trattiamo prende avvio da una suggestiva e commovente ricostruzione della saga familiare dell’autore: l’infanzia poverissima, sesto tra otto figli, cresciuto in un ambiente rurale e fortemente marchiato dal cattolicesimo; la scuola professionale e il lavoro di apprendista meccanico; la decisione di entrare diciottenne in seminario con il desiderio di diventare missionario in America Latina; il fascino esercitato da figure importanti del cattolicesimo sudamericano (i vescovi Hélder Câmara e Pedro Casaldáliga, il sociologo Paulo Freire… ); l’impegno sindacale e l’obiezione di coscienza; la decisione di abbandonare gli studi teologici e di sposare una giovane fisioterapista, salpando con lei verso Valparaíso nel 1974.

Aldilà delle pur interessanti vicissitudini biografiche, risulta coinvolgente per il lettore seguire lo sviluppo della coscienza civile e intellettuale di Tarcisio Benedetti, la sua dedizione all’ideale di libertà e sviluppo dei paesi sottosviluppati, il coraggio di abbracciare scelte ideologiche ed etiche non scontate, e spesso drammatiche. Vibranti di indignazione appaiono le pagine che raccontano le torture a cui i militari sottoponevano i civili negli anni della sua doppia permanenza in Cile, le perquisizioni e le minacce subite a livello personale e familiare, l’orgoglio per l’attività generosa svolta dalle ong italiane nel soccorrere situazioni di emergenza sanitaria, alimentare e produttiva del paese, i rapporti di amicizia e collaborazione intessuti con singoli e istituzioni.

Ai quindici capitoli in cui si articola il volume, si aggiungono i commenti introduttivi e conclusivi di Alberto Cuevas e Andrea Gandini, l’ultimo discorso di Salvador Allende, una poesia di Mario Benedetti e una bibliografia orientativa.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 23 febbraio 2021

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BENEDETTI

CARLA BENEDETTI, LA LETTERATURA CI SALVERÀ DALL’ESTINZIONE – EINAUDI, TORINO 2021

Carla Benedetti, saggista e docente universitaria a Pisa, fondatrice del blog “Nazione indiana” e della rivista “Il primo amore”, è autrice di due volumi di successo che tempo fa hanno suscitato discussioni e polemiche: Pasolini contro Calvino (Bollati Boringhieri, 1998), e Disumane lettere (Laterza, 2011). Con questa più recente pubblicazione, La letteratura ci salverà dall’estinzione (Einaudi 2021), affronta temi di rilevante interesse politico e sociale, lanciando un grido d’allarme sulla situazione di drammatico degrado dell’habitat planetario. Mutamenti climatici, deforestazione, diminuzione della biodiversità, consumazione indiscriminata di risorse non rigenerabili, migrazioni di intere popolazioni, susseguirsi di pandemie sempre meno controllabili, sono problematiche arcinote da decenni, che ci allarmano e ci pongono domande anche sui nostri comportamenti individuali. Tuttavia, a quest’ansia generalizzata che invade l’opinione pubblica internazionale, non sembra corrispondere una altrettanto acuta presa di coscienza da parte dei poteri economici, politici e giuridici sovranazionali riguardo alle strategie da porre in campo per evitare la catastrofe in cui rischia di soccombere l’intera specie umana. Si impone allora non solo un cambiamento radicale negli stili di vita collettivi, ma soprattutto nella sensibilità, nel modo di pensare, nelle forme culturali in cui ci siamo colpevolmente e irresponsabilmente adagiati. Una vera e propria metamorfosi del nostro stare al mondo.

Come recita l’aforisma attribuito a Einstein scelto da Carla Benedetti in esergo al libro, “Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”: dobbiamo trovare soluzioni nuove per risolvere problemi vecchi e incancreniti. Per salvare noi stessi e le generazioni future dobbiamo farci “acrobati del tempo”, secondo quanto scriveva Günther Anders, mettendoci nei panni di chi vivrà dopo di noi.

Nei sette capitoli che compongono il volume, l’autrice auspica che possano essere la letteratura e la filosofia a offrire agli abitanti del pianeta-terra le modalità adeguate a trasformare schemi di pensiero obsoleti: espandendo le nostre facoltà cognitive, liberando energie vitalizzanti, risvegliando risorse dimenticate, stimolando la fantasia, approfondendo una nuova sensibilità, ma soprattutto incoraggiando una solidarietà altruistica con tutti gli esseri viventi. Leggere, studiare, comprendere i capolavori letterari del presente e del passato, lasciarsi permeare dalla forza suscitatrice della parola poetica e narrativa, può aiutare a sviluppare l’empatia che favorisce i legami sociali in una società democratica e multietnica. “C’è bisogno di immaginare e di inventare qualcosa di diverso dall’esistente, di creare altre possibilità rispetto   al corso odierno della vita e della storia”: non solo nelle scienze ambientali, ma anche nell’arte e nella cultura umanistica.

Oggi sono molti gli autori che si occupano dell’Antropocene e dei “processi di degradazione   in atto nella biosfera, prospettando scenari futuri verosimili”, attraverso una solida problematicità d’indagine teorica. Carla Benedetti ne cita alcuni: Bruno Arpaia (Qualcosa, là fuori),   Cormac McCarthy (La strada), Antonio Moresco (Il grido), insieme a tutta la fantascienza apocalittica, post-apocalittica o collassologica, che tuttavia – facendo leva sul solo sentimento della paura per la catastrofe che ci aspetta – può indurre alla paralisi e alla rassegnazione più che alla ribellione.

Esiste però anche una scrittura profetica “suscitatrice” che, prospettando con realismo il disastro futuro, mira a scuotere gli animi dall’indifferenza, e a provocarne una motivata reazione di contrasto, “spac cando la cornice usuale con cui si è abituati a inquadrare la realtà, e creando varchi per altre visioni del  mondo”.

Tra i “profeti inascoltati” che hanno cercato con le loro opere di risvegliare l’interesse dei lettori, Günther Anders, Ernesto De Martino, Theodor Adorno, Guy Debord, Amitav Ghosh, Chinua Achebe, Richard Powers, Pier Paolo Pasolini, Antonio Moresco e scienziati come Stephen Hawking, si sono espressi con la tragica consapevolezza dell’ineluttabile estinzione della specie umana, non solo per quanto concerne il suo futuro di sopravvivenza biologica, ma anche riguardo alla totale cancellazione del suo passato storico e culturale. “Il crollo dell’illusione della posterità è ciò  che caratterizza l’esperienza odierna della fine, differenziandola da tutte le fini del mondo immaginate nei  secoli precedenti”.

L’apocalisse prospettata dalla filosofia e dalla scienza, resa ancor più verosimile dall’affermazione di un potere di sorveglianza di impronta totalitaria, si situa al di fuori di ogni orizzonte religioso che prometta rigenerazione e salvezza. La consapevolezza dell’emer genza ecologica viene impedita o ritardata, negata o rimossa non solo da arcaici fideismi, ma anche dal cieco ottimismo capitalistico sull’illusoria e infinita prosperità economica determinata dallo sviluppo industriale: entrambe le ideologie utilizzano ancora una cultura umanistica basata su pratiche letterarie arretrate, passatiste, a-scientifiche, che hanno modellato forme mentali passivamente abitudinarie, sottomesse, rinunciatarie.

Eppure, ci sono stati grandi autori classici, da Omero a Gadda, che inserendo l’uomo all’interno dell’ambiente naturale, in uno scambio proficuo e generoso con ciò che lo circonda, sono riusciti a immaginare un’alleanza collaborativa e non prevaricatrice con l’ecosistema. A questa coscienza etica di largo respiro, alla forza rigenerante sprigionata dai capolavori letterari, “che par che ingrandisca l’anima del lettore”, come scriveva Leopardi, dobbiamo saper tornare per rinnovarci culturalmente e moralmente, recuperando modalità scartate o distrutte di leggere il mondo di adesso e quello che verrà. Con la vividezza dell’immaginazione, la   forza delle illusioni, la capacità di meraviglia che ci stanno insegnando i nostri giovani più sensibili ed entusiasti, impegnati a difendere il loro diritto a un futuro migliore di quello prospettato dalla nostra generazione di boomer egoisti.

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 25 marzo 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BENJAMIN

WALTER BENJAMIN, LIBERAMI DAL TEMPO – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2011

Questa selezione di 25 sonetti di Walter Benjamin fa parte dell’unica opera poetica del filosofo tedesco, composta tra il 1915 e il 1925, e rimasta manoscritta fino al 1981, per essere pubblicata poi in Italia da Einaudi. L’editrice pistoiese Via del Vento la propone nella nuova traduzione e cura di Claudia Ciardi, che così la commenta nella postfazione: “La forza lirica di Benjamin, lettore di Hoelderlin e Rilke, vi si esprime in maniera originale, pur nell’ambito della tradizione del sonetto europeo”. Si tratta di liriche composte in ricordo dell’amico poeta Christoph Friedrich Heinle, morto suicida nel 1914: una sorta di viaggio sensuale e romantico, rigorosamente inscritto nei canoni della classicità, teso al recupero di una figura amata, e immerso nelle ombre di una natura lussureggiante e partecipe, palpitante dello struggimento che deriva da qualsiasi separazione, e dal vuoto doloroso di un’assenza. Benjamin supplica l’amico in un dialogo sospeso nell’attesa di una risposta che non può più arrivare, rivolgendosi a lui con un tu implorante: “Se avessi divinato il tempo del tuo morire al mondo / la natura avanti a te nella fine sarebbe precipitata”, “se in me soltanto il tuo nome consacrato / innalzi come amen sconfinato senza icona”, “sul bordo del cammino siede/ la morte al posto tuo e io nel bosco sono / più smarrito di un cespuglio e di un albero nella notte”, “Amico mio, fu tolto a me il tuo esserci, / ti bramo come il dormiente la corona/ tra i capelli, cercandoti nelle ore scure”. L’ombra, la notte, l’angoscia della solitudine invadono l’atmosfera onirica di questi versi, sulle orme di Novalis, di Baudelaire, di Trakl: rari i raggi di sole, le radure chiare, l’aria mattutina a cui chiedere conforto e refrigerio: “Come può rallegrarmi l’irradiarsi di questo giorno / se con me non entri nei boschi…”. Ma proprio e solo nell’immersione nella natura Benjamin cerca di trovare, nella più pura delle tradizioni letterarie, conforto e rispondenza al suo dolore.

IBS, 7 settembre 2014

RECENSIONI

BENJAMIN

WALTER BENJAMIN, UN ANGELO DI NATALE – IL MELANGOLO, GENOVA 2018

Questo breve racconto di Walter Benjamin (1892-1940) è tratto dalla sua raccolta Infanzia berlinese. Le edizioni genovesi de “Il melangolo” lo ripropongono con testo tedesco a fronte, nella traduzione di Selena Pastorino. In Un angelo di Natale i temi più tipici del filosofo tedesco (la povertà, la memoria, l’evento prodigioso, l’angelo come messaggero di una realtà più nobile di quella umana) vengono rielaborati nel tono fiabesco e incantatore scaturito dall’attesa ingenua di un bambino durante la magica notte di Natale.

Cinque paginette scarse ricreano l’atmosfera sospesa e inquieta in cui la sensibilità infantile si interroga e interroga il mondo intorno a sé riguardo a un futuro aspettato e invocato, eppure anche temuto nel suo mistero. Il ricordo prende spunto dalle impressioni nate nei giorni precedenti la festività, con gli abeti decorati agli angoli delle strade, i mercatini che offrono giochi, decorazioni e leccornie ai clienti, il suono malinconico degli organetti che si diffonde in città, il profumo delle mele e del marzapane, le noci in vista sulle tavole agghindate. Insieme a questa sentimentalità imposta ed esibita per la Berlino più ricca, la fila dei poveri questuanti a cui porgere un’elemosina colpevole. Poi si affaccia nella mente l’immagine dell’albero acquistato in segreto dalla mamma e lasciato in veranda, prima di essere spostato nel salotto la sera della vigilia.

Il bambino Walter attende nell’oscurità del crepuscolo spiando le finestre delle abitazioni vicine, alcune illuminate dalle candele e dalle luci degli alberi, altre racchiudenti nel buio “la solitudine, la vecchiaia e lo stento – tutto ciò di cui le povere genti tacevano”. L’emotività di un’attesa gioiosa si fonde nell’animo infantile con la vaga tristezza di chi sta imparando a condividere, a compatire: “Aspettavo nella mia stanza che volessero farsi le sei. Nessuna festività in più tarda età conosce quest’ora che vibra come una freccia nel cuore della giornata”. Quando improvvisa si manifesta una presenza strana accanto a lui, impalpabile come un alito di vento: “Mi ero appena voltato dalla finestra, con il cuore così gravido come solo la vicinanza di una gioia sicura può renderlo, che percepii una presenza estranea nella stanza”. Un angelo, forse?

Al bambino tornano sulle labbra le parole di una filastrocca natalizia, che in tedesco mantengono le rime: “Alle Jahre wieder, kommt das Christuskind, auf die Erde nieder, wo wir Menschen sind”. È un attimo fugace, la presenza silenziosa si dissolve, e il piccolo Walter viene chiamato dai genitori nella sala dove l’albero addobbato si erge in una gloria che glielo rende estraneo e ormai indifferente, privo di incantesimo e di qualsiasi spiritualità.

La novella di Benjamin appare nella collana “Nugae”, che significa “cose minime”, e ha il respiro breve e luminoso di una poesia.

 

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https://www.sololibri.net/Un-angelo-di-Natale-Benjamin.html     28 agosto 2019

 

 

 

RECENSIONI

BENNATO

EDOARDO BENNATO, GIROGIROTONDO CODEX LATITUDINIS – BALDINI&CASTOLDI, MILANO 2020

Non c’è bisogno di presentare Edoardo Bennato, uno dei più grandi rocker italiani, autore di brani famosissimi, caratterizzati sempre da una forte dose di ironia e da dissacranti parodie del potere che seduce e ammorba.

Quest’anno ha pubblicato il singolo La realtà non può essere questa, ispirato alla pandemia del Covid 19 (con “chitarre che suonano da sole, nel silenzio di nessuna festa”…), e si è confrontato per la prima volta con la pagina scritta, esordendo con il volume Girogirotondo Codex Latitudinis, in cui si fa interprete di una lettura critica e insieme propositiva della contemporaneità.

Definendosi modestamente “cantautorucolo”, Bennato si propone “di raccogliere una serie di appunti, spunti, elementi, riflessioni e analisi «geopolitiche e non»” in un libro composto di tre parti e diciotto capitoli, illustrato con fotografie, mappe e disegni. Destinataria privilegiata del suo messaggio è la figlia adolescente Gaia, e insieme a lei i lettori più giovani, a cui è fatto compito di salvare il futuro del mondo. Tuttavia la prima sezione si rivolge anche a un pubblico più maturo, cioè a chi ha potuto condividere gli stessi anni di formazione culturale dell’autore.

La rivisitazione autobiografica prende lo spunto dalle origini partenopee di Bennato, dalla Bagnoli sede dell’acciaieria Italsider in cui lavorava il padre, barattando la propria salute con uno striminzito stipendio. Comunque (che bell’avverbio! Trascurato oggi, ma rivalutato da chi ha scritto queste pagine…), le ristrettezze economiche non hanno scalfito la serenità della famiglia, che ha assecondato con ogni mezzo il talento artistico e gli interessi intellettuali dei tre figli. Il doveroso omaggio alla madre – che non solo ha cresciuto con amore e intelligenza i ragazzi, ma si è industriata nel contribuire alle finanze domestiche -, è in realtà soprattutto un sincero riconoscimento al ruolo che le donne rivestono nella cura dell’ambiente privato e collettivo. Bennato rievoca gli studi universitari di architettura a Milano, i primi passi nel mondo della musica, la lunga gavetta fatta di estenuanti attese e di fallimentari audizioni, e poi gli incontri fondamentali con Mogol e Battisti, Mara Maionchi, Herbert Pagani, Roberto De Simone, Renzo Arbore, fino all’incisione del primo LP, Non farti cadere le braccia, che riuscì ad avere come acquirenti solo la mamma e una zia. Poi i viaggi in Venezuela, Cile, Cuba, Londra e finalmente la popolarità, i sospirati guadagni, i tour in giro per l’Italia, gli album di successo negli anni’70.

“Mi invitavano dappertutto. Giravo da solo. Viaggiavo in treno, prendendo le coincidenze al volo, con la chitarra e sulle spalle uno zaino tipo globetrotter con dentro il tamburello. Ero perfettamente autosufficiente: non avevo musicisti al seguito né manager né impresari”. Edoardo si creò da subito la fama di cantautore ribelle e alternativo: “La rabbia e l’insofferenza che avevo dentro si scagliavano contro il potere, il malaffare, i luoghi comuni, le frasi fatte, la retorica a buon mercato, i discografici. E forse, per paradosso, persino contro coloro che mi acclamavano, eleggendomi a loro idolo, ma che, se non mi fossi allineato ai loro diktat, ai loro schemi «socio-politico-mentali», insomma al «vestito» che cercavano di cucirmi addosso, erano pronti a darmi addosso e a farmela pagare! Suonavo per me, solamente per me”.

L’evoluzione professionale si accompagnò pari passo a una crescita della consapevolezza civile, a un affinamento della sensibilità nei riguardi di rilevanti temi etici: la disuguaglianza sociale, lo sfruttamento economico, il razzismo, l’inquinamento, la corruzione politica. Tale impegno ideologico viene apertamente dichiarato nella seconda e terza parte del libro, in cui sono riportati i testi delle canzoni più decisamente schierate in favore degli emarginati e degli immigrati, con un pressante invito al mondo occidentale a superare egoismi e interessi particolaristici in una visione più attivamente solidale e altruista, capace di contrastare gli squilibri economici planetari. Lo slancio utopistico di Edoardo Bennato, che si dichiara particolarmente interessato all’analisi geopolitica della situazione mondiale, si è misurato nel corso del tempo anche con altre modalità espressive (disegno, pittura, fotografia), nel generoso proposito di contribuire a rimuovere tutti i condizionamenti e i pregiudizi ideologici che zavorrano i comportamenti umani.

Il libro si conclude con un excursus storico-geografico, illustrato da un pupazzetto extraterrestre di nome Koso, che nell’indicare attraverso quali percorsi l’umanità ha raggiunto in migliaia di anni l’attuale livello di progresso, invita tutti a stringersi in un girotondo che abbracci ogni latitudine,  fisica e mentale.

 

© Riproduzione riservata                    21 luglio 2020

https://www.sololibri.net/Girogirotondo-codex-latitudinis-Bennato.html

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BENNETT

ALAN BENNETT, LA PAZZIA DI RE GIORGIO – ADELPHI, 1996

Nelle trenta pagine di introduzione a questa celebre commedia, rappresentata con successo a Londra nel 1991, l’autore afferma che “ogni descrizione di fatti politici, qualunque sia il periodo, fa affiorare analogie con fatti contemporanei”, contemporaneamente negando qualsiasi intenzione polemica nei confronti della politica britannica contemporanea. Insomma, come nei titoli di coda dei film, “ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale”. Così nella pazzia di Re Giorgio III (che forse era soltanto l’esito di una malattia organica, la porfiria) non dovremmo leggere allusioni alla monarchia Windsor o a eventuali fatti di corruzione di corte, ma solo una rappresentazione tragica e insieme ironica dell’eterno balletto che danza intorno all’esercizio del potere, ovunque e sempre. Quindi, “Siamo tutti Whigs, finché non arriviamo al governo. Poi si diventa tutti Tories”; “Qualche dannato imbecille deve aver chiacchierato. Tutti chiacchierano”; “Monarchia e follia sono due stati che hanno una frontiera in comune”; “Corrono tutti a mettersi al riparo”… sembrano osservazioni generiche che si possono riferire a qualsiasi periodo storico e a qualsiasi governo. Non sono tanto la corruzione, la cortigianeria, l’asservimento della scienza al potere, l’arrivismo, il formalismo asfissiante, il tradimento di amici e parenti a costituire il bersaglio della rappresentazione indulgente e fatalistica di Alan Bennett. Che sembra invece più interessato alla descrizione bozzettistica delle farneticazioni del re, comicamente balbuziente, improvvisamente scurrile, umiliato nella sua degradazione fisica, ma anche assolutamente umano e ingenuamente indifeso nella malattia (“Non matto però io. Non matto-matto-matto-matto. Mattestà maestà. Ma solo nervi nervi nervi sì-sss”), con poche persone fedeli intorno: per cui alla fine si parteggia per lui, e per la sua salute recuperata. “Il Re è di nuovo se stesso”.

IBS, 10 febbraio 2015

RECENSIONI

BENNETT

ALAN BENNETT, L’IMBARAZZO DELLA SCELTA – ADELPHI, MILANO 2009

I due saggi presenti in questo libriccino Adelphi ben evidenziano non solo l’indubbia e profonda conoscenza della storia dell’arte mondiale da parte dell’autore, ma anche la sua arguzia argomentativa e la dissacrante ironia con cui è stato in grado di commentare sia i quadri descritti, sia l’intera visione ideologica che ad essi soggiace. Il primo intervento fu redatto da Alan Bennett in seguito all’invito rivoltogli da una catena di supermercati a indicare quattro quadri da distribuire riprodotti nelle scuole. La scelta dello scrittore si focalizzò su quattro dipinti di diverse epoche, che per la ricchezza della composizione e dei dettagli e per il tema trattato potessero meglio catturare l’attenzione di giovani studenti. Nello stesso tempo, però, le quattro tele erano care a Bennett perché in qualche modo collegate alla sua infanzia, allo stupore provato durante le sue prime visite ai musei, e alla capacità di suscitare in lui ricordi ed emozioni profonde. “Ciò che si può dire di un’opera d’arte non deve mai andare oltre quello che l’opera d’arte dice di sé”: è un concetto fondamentale a cui Bennett si attiene nei suoi interventi, anche quando ammicca maliziosamente al lettore nel commentare il ruolo figurativo secondario di San Giuseppe, o “i bambinelli dipinti nelle Natività, alcuni striminziti, altri sovrappeso: se fossero portati in un reparto di pediatria desterebbero viva preoccupazione…”.  Il secondo saggio si propone di descrivere, nella City Art Gallery di Leeds, una quindicina tra le tele più significative. Ma anche qui lo scrittore brillante ha la prevalenza sul critico di professione, e ci divertiamo a rivivere con lui bambino dapprima il turbamento e poi la risata liberatoria della sua classe elementare davanti all’enorme seno nudo allattante di una eroina biblica, o a condividere l’ipotesi che molti tra i visitatori dei musei cerchino nelle sale, più che l’arte, comodi divani e un temporaneo riparo dagli assilli atmosferici dell’esterno.

IBS, 31 gennaio 2015