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AAVV – JISEI

AAVV, JISEI. POESIE DELL’ADDIO – SE, MILANO 2017

Curata da una delle nostre migliori orientaliste, Ornella Civardi – che scrive anche un’esauriente postfazione – questa antologia pubblicata dall’editrice milanese SE raccoglie più di mille anni di poesia giapponese, così come si è espressa nella forma del Jisei, cioè della brevissima composizione scritta, o dettata ai familiari e agli amici, poco prima di morire. Si tratta di addii, di malinconici commiati dall’esistenza, che nei secoli hanno creato una tradizione letteraria, esprimendo un canone formale scandito in una metrica rigorosa e basato su metafore ripetute.

Troviamo infatti in questi versi l’utilizzo reiterato di immagini tratte da elementi atmosferici, dalla vegetazione o dal paesaggio, a indicare l’inevitabile distacco dalla vita, l’illanguidirsi della vitalità fisica, lo svanire dei ricordi: la rugiada, la nebbia, la neve, il succedersi delle stagioni sono i temi più presenti, sullo sfondo di montagne invernali, di placidi laghi o di mari sconfinati appena mossi dallo sciacquio delle onde; il cielo è terso e luminoso, pronto ad accogliere l’ultimo respiro del poeta accompagnato dal canto degli uccelli (il cuculo, in particolare, messaggero della notte e guida nell’aldilà); la luna, soprattutto se riflessa nell’acqua, illumina il buio con la sua benevola e tiepida luce; gli alberi perdono le foglie e i fiori, indicando il rassegnato trascorrere del tempo e la fugacità della bellezza. L’atmosfera che pervade le composizioni è di tranquilla accettazione del distacco, di rappacificazione col mondo dei viventi, di saggia ammissione dell’annullamento di sé: nessun furore eroico, o vibrata protesta contro il destino, o prometeica esaltazione del proprio passato. La maggior parte degli autori rappresentati sono monaci zen, e ovviamente il buddhismo (arrivato in Giappone dalla Cina nel VI secolo) ha improntato tutta la filosofia che sta alla base del jisei: la consapevolezza della transitorietà delle vicende umane, la certezza del Nulla da cui proveniamo e a cui siamo destinati, la gratitudine verso lo splendore della natura che ci circonda, la cognizione dell’essenza divina presente in tutte le creature.

Di ognuno dei poeti antologizzati, Ornella Civardi offre brevi ragguagli biografici e un puntuale commento formale, teso a inquadrare i versi nel periodo letterario cui appartengono, con le conseguenti eredità o innovazioni formali. Il volume si apre con la struggente lievità delle parole di una poetessa dell’ottavo secolo, Ono no Komachi («Che malinconia / se penso alla fine, / il mio corpo / sopra i prati in rigoglio / sfumare in nebbia sottile…»), e si chiude con i jisei di famosi letterati novecenteschi (Akutagawa Ryūnosuke, Yosano Akiko, Dazai Osamu, Mishima Yukio), a testimonianza di una tradizione compositiva che si è mantenuta nei secoli, esattamente come la cerimonia del tè, il seppuku, il kimono ed altri fenomeni culturali della civiltà nipponica.
L’insegnamento che anche un lettore occidentale (così tenacemente individualista e freneticamente pragmatico) può trarre da queste composizioni è senz’altro l’accettazione della propria finitudine, la convinzione di fare parte di un ciclo armonico di morte e rinascita universale, la consapevolezza umile del suo non essere indispensabile al mondo, il dovere di riconoscenza per quello che di bello ha potuto godere: «Tersi cieli di ghiaccio, / per la via che ho fatto a venire / me ne ritorno», «Nel momento / della fine comandata, / ogni fiore / di questo mondo sia fiore, / ogni uomo sia uomo», «A mani vuote sono venuto, / me ne vado a piedi nudi, / la partenza e l’arrivo confusi / in un unico sogno», «Anche se me ne vado / e lascio la casa sguarnita, / tu, susino mio / nel cortile, saprai da te / quand’è primavera», «Vecchio corpo mio, / gocciola di rugiada / troppo greve alla foglia», «Una frescura, / come l’inabissarsi fulmineo / del gabbiano».

© Riproduzione riservata                «Poesia» n. 329, settembre 2017

 

 

 

 

RECENSIONI

AAVV – LA CULTURA CI RENDE UMANI

AAVV, LA CULTURA CI RENDE UMANI – UTET, TORINO 2018

Gli otto interventi raccolti in questo volume edito dalla Utet indagano in maniera diversa il ruolo che la cultura occupa nella società contemporanea, e in particolare quanto essa incida sul carattere e sul comportamento di un individuo, rendendolo più consapevole di sé e del suo agire tra gli altri.Sono saggi di consistenza e interesse differenti, alcuni esposti in termini discorsivi (essendo la trascrizione di conferenze), altri più meditati e specialistici. La cultura ci rende umani suggerisce nel sottotitolo (“Movimenti, diversità e scambi”) quali siano gli ambiti in cui gli autori situano le loro analisi.

Nel primo contributo, Edoardo Albinati si interroga sul lavoro che svolge da più di vent’anni come insegnante di lettere nel carcere romano di Rebibbia, chiedendosi se i suoi studenti, adulti condannati per reati anche molto gravi, possano trarre vantaggio da quello che imparano, allontanandosi così dal delinquere e avvicinandosi invece alla bellezza della poesia e dell’arte.«In effetti la cultura non salva nessuno. Non salva proprio nessuno. Mi dispiace dirlo a chi è convinto che un uomo che ha letto un libro sia sicuramente migliore di uno che non l’ha letto: be’, non è così. Tra i peggiori e i pessimi ci sono tanti uomini colti, uomini che possedevano biblioteche e ascoltavano musica sublime. La cultura non rende migliori le persone». Tra i nazisti, tra i finanzieri corrotti, tra i mafiosi, ci sono persone erudite, a cui evidentemente il sapere non ha insegnato a essere moralmente migliori. Un libro non cambia la vita, ma forse leggere tanti libri può aiutare ad aprire spazi mentali prima ristretti: ed è in questi spiragli che deve saper penetrare un insegnante, sfruttando ogni singolo momento di lezione senza prefissarsi di raggiungere risultati tangibili, ma facendo comprendere agli allievi che qualsiasi fallimento o errore esistenziale può essere riscattato e reso più dignitoso anche da una terzina dantesca, dall’ascolto di un brano operistico, dall’osservazione di un dipinto.

L’antropologo Stefano Allovio utilizza gli strumenti della paleontologia per sottolineare quanto la cultura (intesa non solo in senso nozionistico, ma come insieme di usi, abilità, tradizioni) abbia contribuito a plasmare l’umanità dalla preistoria: l’utilizzo del fuoco e della cottura dei cibi ha trasformato gli ominidi nell’homo sapiens, capace di vivere in solidarietà con il gruppo, dando inizio al percorso millenario della civiltà. Altri saggi presenti nel libro in questione discutono sulla decentralizzazione della cultura occidentale in luoghi e tempi diversi (Jean-Loup Amselle commenta la fondazione del nuovo museo del Louvre ad Abu Dhabi, John Eskenazi indaga sulle reciproche influenze tra buddhismo e ellenismo, Adriano Favole mette in guardia dalle pretese contemporanee di modificare il corso degli eventi naturali utilizzando nuove e arroganti tecniche “prometeiche”, Vittorio Lingiardi ci orienta sulle differenze tra generi e identità sessuali), nell’utopia più o meno condivisibile di una culturalizzazione globale, in grado di superare frontiere geografiche e temporali.

Dulcis in fundo, due donne, Paola Mastrocola e Marta Mosca, tentano di smuovere polemicamente le acque rassicuranti dei precedenti interventi ponendo ai lettori alcune stimolanti riflessioni.La prima ripropone le sue note tesi in difesa di una cultura che sappia mantenersi «ristretta, puntiforme e non nebulosa», in una scuola che insegni contenuti e non solo metodi, know how, problem solving e competenze specifiche utilizzabili nel mercato del lavoro. Una scuola che trasmetta un sapere «radicato e affondato», recuperando un rapporto vitale con il passato. Marta Mosca chiude poi questa interessante miscellanea di spunti teorici ragionando sull’insorgere di preoccupanti chiusure ideologiche di fronte ai sempre più massicci fenomeni migratori e all’inevitabile meticciato antropologico e culturale che ne deriva. «Dopotutto, chi siamo?», si chiede, concludendo che «ogni essere umano, in quanto tale, è frutto di inesauribili contatti».

© Riproduzione riservata         https://www.sololibri.net/La-cultura-ci-rende-umani.html

19 febbraio 2018

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AAVV – LA PREGHIERA DI CHI NON CREDE

AAVV, LA PREGHIERA DI CHI NON CREDE – MONDADORI, MILANO 1994

Chi non crede prega? Forse sì, più spesso di quello che si pensa. Può pregare per un’abitudine assunta durante l’infanzia, per paura, per disperazione. Può pregare – come probabilmente fanno quelli che Hermann Hesse definiva “die Suchende”, coloro che cercano –, nella speranza di essere ascoltato. O, come suggeriva Giorgio Caproni in un suo insuperato e troppo poco ricordato poemetto del 1964, Lamento (o boria) del preticello deriso, “prego … non, come accomoda dire / al mondo, perché Dio esiste: / ma, come uso soffrire / io, perché Dio esista”.

In un volume pubblicato da Mondadori nel 1994, ancora recuperabile online, La preghiera di chi non crede, diverse ma tutte ugualmente coinvolgenti sono le considerazioni espresse da tre personaggi (uno psicanalista, una filosofa e poeta, un monaco zen) riguardo al quesito che viene loro posto. Coordinate da un’introduzione, da tre commenti e da una conclusione del Cardinale Carlo Maria Martini, le tre ipotesi di percorso sulla preghiera sono state registrate durante alcune lezioni tenute alla VII Cattedra dei non credenti di Milano, nella volontà manifesta di aprire un dialogo e un confronto con chi non aderisce ad alcuna religione ufficiale.

Lo psicanalista Mario Trevi, in un intervento che sembra essere il più supportato da esperienza (o sofferenza) umana e tensione emotiva, prende in esame le risposte possibili alla domanda: “Chi non crede prega?”, non prima di aver chiesto venia per la tentazione professionale di ridurre i fenomeni spirituali alla dimensione psichica, ricadendo così nel relativismo psicologico, già stigmatizzato da Buber nella sua replica a Jung. Trevi cita l’affermazione coraggiosa di Primo Levi che, da ateo coerente, aveva rifiutato la preghiera come richiesta d’aiuto anche nei momenti più tragici della sua detenzione nel lager. Un’altra ebrea, invece, Simone Weil, suggeriva una risposta paradossale all’ipotesi di un colloquio col divino da parte di chi non crede: “Pregare Dio, non solo in segreto rispetto agli uomini, ma pensando che Dio non esiste”. Pregare, diciamo così, “gratuitamente”, “abolendo il dativo di ogni richiesta… l’oggetto di ogni lode”, per arrivare magari alla purezza esaltante dell’esortazione di Sant’Agostino: “Nolite quaerere a Deo nisi Deum”. Trevi accenna quindi alla sua esperienza personale, anch’egli ebreo ma cresciuto in un ambiente misto, assolutamente tollerante e pluralista, portato a credere in un ecumenismo senza confini: definendosi incapace di pronunciare alcun credo, ma nello stesso tempo in grado di pregare, si dichiara convinto che Dio e preghiera siano la stessa cosa, e che in essa si possa “sperimentare la vertigine di una condizione spirituale” intesa come pietà religiosa nella forma dell’amore.

Il secondo, coltissimo intervento di Roberta De Monticelli, docente di filosofia e poeta, si interroga su “La poesia è preghiera?”, e partendo dall’Inno omerico alle Muse e ad Apollo, attraverso Aristotele e Platone, Dante e Montale, Husserl e Max Scheler, in un crescendo di rimandi e citazioni dotte, postula un’origine comune alla poesia e alla preghiera, come a ogni parola “sorgiva”, individuabile nel canto di riconoscenza, un grazie che appartiene alla nostra memoria inconscia, quella poetica, vicina alle radici dell’essere, più tardi razionalizzata nella memoria conscia della ricerca filosofica.

A un monaco buddista è affidata la terza riflessione del volume, riguardante la preghiera intesa come “cammino verso il nulla”, dato che per il buddismo fine ultimo di ogni percorso umano è appunto l’approdo al nulla, al vuoto. Un intervento, questo del monaco Shoten Minegishi, attento alle pratiche di preghiera più rigorose, al simbolismo severo di una religione intesa non tanto come filosofia, quanto come pratica di vita, cammino verso l’ineffabile, attraverso lo svuotamento di sé e la comunione con l’altro da sé.

Il Cardinale Martini, promotore dell’iniziativa e ideatore del tema del convegno, si è riservato il compito di concludere il volume, collegando tra loro le tre testimonianze attraverso l’individuazione di un filo comune, che indica nella preghiera un elemento connaturale alla nostra esistenza storica e uno strumento di adesione al mistero dell’Essere. Preghiera come passaggio dalla ratio (soliloquio, esplorazione teorica) all’oratio (dialogo con l’Altro, abbandono fiducioso), per arrivare all’adoratio (adesione e compenetrazione nell’Essere), aldilà di qualsiasi facile fideismo e intento di persuasione volto a chi non crede, o pratica una fede differente dal cristianesimo.

 

© Riproduzione riservata      «La Poesia e lo Spirito», 14 febbraio 2023

 

 

 

 

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AAVV – LE OPERE DELL’UOMO I FRUTTI DELLA TERRA

AAVV, LE OPERE DELL’UOMO I FRUTTI DELLA TERRA – CROCETTI, MILANO 2015

Un libro importante e raffinato, questo che Nicola Crocetti ha curato e pubblicato nel 2015, con presentazione di Jérôme Lambert (CEO Montblanc) e postfazione di Daniele Piccini. Il volume è stato ideato e prodotto in occasione dell’Expo di Milano, seguendo i contenuti tematici proposti all’interno del percorso espositivo del Padiglione Zero, ed è illustrato con immagini di incisioni rupestri provenienti dai maggiori siti archeologici mondiali. Si tratta di un’antologia di poesie, con testo originale a fronte, che hanno come tema principale le varie modalità con cui l’uomo si è procurato il cibo, utilizzando agricoltura, caccia, pesca e allevamento, a partire dall’Antico Egitto fino ai giorni nostri.

I versi d’apertura, nel loro afflato di sacralità, sono tratti dall’Inno al Nilo, databile intorno al 2100 a.C. («Signore dei pesci, che conduci moltitudini di uccelli selvatici /… tu generi le messi di grano, porti l’orzo, assicurando vita eterna ai templi, / ma se in quella stagione non ti manifesti, / allora manca il respiro a tutto ciò che esiste»); quelli conclusivi sono stati scritti da due poeti brasiliani nel 1982, e lamentano le condizioni lavorative dei braccianti nelle piantagioni di caffè («Svegliati negro per sgranare il caffè. / Negro sono già le cinque / È ora di alzarsi /… Negro piange / Piange per conservare la sua fede»).

Se gli antichi poemi indiani celebrano latte e miele come l’Esodo, il nostro Virgilio glorifica l’uva, le spighe, le greggi, rendendo grazie agli dei munifici, ai Fauni e alle Costellazioni. Ovidio e Ausonio decantano l’animato brulichio di vita nei mari e nei fiumi, elencando le varie specie di pesci che vi nuotano, e offrendo consigli ai pescatori («Fondali rocciosi, bada bene, richiedono / canne flessibili, ma lungo le spiagge tranquille / usa pure le reti»).  I raccoglitori di riso in Cina già esibivano la proverbiale propensione asiatica alla tranquillità dell’anima e del corpo («Non è forse duro il lavoro dei contadini?…  / Affaticare tutt’e quattro le membra equivale però ad ammalarsi. / Lavarsi e riposare sotto la gronda, slacciare il colletto / e rilassarsi con acquavite nel bicchiere»).

Il persiano Abu Nuwas nell’800 d. C. esalta l’ubriachezza: «La vita dell’uomo sta in questo: una sfilza di sbornie; perché se anche è lunga, la vita, il tempo è pure breve. / Se sobrio tu mai mi vedessi, sarebbe l’imbroglio; se invece barcollo, già fradicio, è questo il guadagno». Gnocchi, zuppa, formaggio, salsicce e polpette sono glorificate da Teofilo Folengo in pieno Rinascimento; i poeti svizzeri cantano i pascoli montani, le mandrie pasciute, le stalle, la mungitura e il caglio nei secchi di ferro; gli inglesi dell’800 onorano eleganti scene di caccia («La vecchia volpe s’ingegna invano / Mentre segugi e corni la incalzano / Ora lascia il bosco per la pianura / Il corno ne suona l’avvistamento»).

E il barbuto Walt Whitman? La sua ode al cibo è come sempre un peana glorioso rivolto all’America: «Parole esultanti, parole alle terre della Democrazia. / … Terra del carbone e del ferro! Terra dell’oro! Terra del cotone, dello zucchero, del riso! / Terra del grano, della carne bovina e suina! Terra della lana e della canapa! Terra della mela e del grappolo! / Terra di pascoli, tu pascolo del mondo!». Gabriele D’Annunzio nell’Alcyone presta voce a un vecchio agricoltore orgoglioso dei prodotti del suo campo; Antonio Machado glorifica aranci e limoni andalusi; Sergej Esenin si perde malinconicamente tra i boschi e le paludi della sua sconfinata Russia; Francis Ponge ritrae con perizia pittorica la bellezza di un’ostrica; Pablo Neruda, reso familiare ai telespettatori da un famoso spot pubblicitario sul pomodoro, qui canta la cipolla «chiara come un pianeta». E poi il pane, le patate, il vino, tutto quello che la terra ci dona, mantengono nelle parole dei poeti il sapore, il gusto e l’odore delle cose buone e sane.

Come raccomanda Khalil Gibran, se dobbiamo cibarci di carne, ricordiamoci che anche noi siamo fatti di carne: «Ma giacché dovete uccidere per mangiare e rubare al nuovo nato il latte materno per estinguere la vostra sete, sia allora il vostro un atto di adorazione. E la vostra mensa sia un altare sul quale i puri e gli innocenti della foresta e dei campi sono sacrificati a ciò che è più puro e più innocente nell’uomo». Giustamente conclude Daniele Piccini nella postfazione: «Il cibo, la fatica e la cura nel procurarselo, nel modificarlo, nel prepararlo costituiscono uno degli elementi culturali identificativi dell’uomo… Ciò che l’uomo usa come cibo, entra in una grammatica culturale, in un sistema di segni».

Segni incisi nei versi millenari, e nei graffiti preistorici riportati in questa preziosa e originale antologia.

 

«Il Pickwick», 29 aprile 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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AAVV – MACELLAI

Giuseppe Calogiuri (Lecce 1978), avvocato, giornalista e musicista, accomunato spesso ad altri giallisti pugliesi (Gianrico Carofiglio, Donato Carrisi e Omar Di Monopoli), in un breve racconto ha evidenziato come la figura del macellaio venga tradizionalmente rappresentata nell’immaginario popolare, e spesso anche nella letteratura, come quella di un uomo truce, amante del macabro, capace di azioni efferate: in grado di sezionare carcasse di animali senza provare emozioni, e addirittura esibendo una sorta di gusto sadico nel maneggiare coltelli, far sgocciolare sangue, appendere a ganci arrugginiti agnellini e vitelli, squartare ventri e disarticolare ossa. Il suo protagonista, Roberto Deruta detto Tino, discendente da una generazione di beccai, gode in paese della meritata fama di gustosofo, gastronomo esperto di alta cucina, generoso dispensatore di consigli culinari ai vari clienti. I quali tuttavia lo osservano con sospetto e diffidenza, alimentando i pettegolezzi più crudeli e fantasiosi da quando sua moglie Fedora è sparita senza lasciare traccia di sé, e cercano indizi del macabro uxoricidio nel negozio, nella cella frigorifera, nei pezzi di scottona in bella mostra sul banco di vendita, timorosi di essersi incautamente e cannibalmente cibati di una vittima incolpevole.

In un romanzo di Alina Reyes (Bruges 1956), considerato un caposaldo della letteratura erotica di consumo, un macellaio sessuomane avvia una morbosa relazione con una giovane studentessa, in una disinibita esaltazione della corporeità: «E il macellaio che mi parlava di sesso per tutto il giorno era fatto della stessa carne…  aveva i suoi pezzi di prima e di seconda scelta, esigenti, avidi di bruciare la loro vita, di trasformarsi in polpa», «Chi ha detto che la carne è triste? La carne non è triste, è sinistra. Sta alla sinistra della nostra anima, ci cattura quando meno ce lo aspettiamo, ci trasporta su mari densi, ci affonda e ci salva; la carne è la nostra guida, la nostra luce nera e spessa, il pozzo d’attrazione in cui la nostra vita scivola a spirale, risucchiata fino alla vertigine…».

Di tutt’altro genere è il macellaio descritto da Anna Momigliano (Milano 1980) nella biografia del presidente siriano Bashar al Assad, figura tormentata che non ha saputo sfuggire al proprio destino di figlio di un patriarca-tiranno. In un volume pubblicato nel 2013, la giornalista ha ricostruito parzialmente e in un’ottica eurocentrica, la vicenda umana e storica di Bashar, dagli studi universitari di oftalmologia a Londra all’elezione presidenziale avvenuta a soli 34 anni; dalle prime e timide aperture democratiche con la “primavera di Damasco” del 2001 a capo di un regime totalitario. Illustrando l’ambivalenza politica di Assad nella sua relazione altalenante con l’Occidente (con cui nei primi anni di guerra ha cercato discusse alleanze e che in seguito ha accusato di ingerenze delittuose, tradimenti e stragi di civili inermi), l’autrice ha descritto e commentato i rapporti del governo siriano con il potere economico più corrotto, le faide di palazzo, l’eliminazione degli avversari, il siluramento di generali, la cancellazione di elementari diritti umani della popolazione, il sostegno al partito libanese dello Ḥezbollāh, la protezione dei palestinesi di Ḥamās, l’inflessibile ostilità mostrata verso Israele. Riguardo alle carneficine perpetrate dal suo esercito, così Assad si giustificava candidamente nel 2012: «Quando un chirurgo si trova in sala operatoria, tagliando, amputando e ripulendo, e la ferita sanguina, gli si dice che le sue mani sono sporche di sangue oppure lo si ringrazia per avere salvato il paziente?»

I macellatori di cui scrive in versi Ivano Ferrari (Mantova 1948) profanano spietatamente la sacralità della vita, animale e umana, all’interno di un mattatoio, «la grande sala dove si esibisce la morte», in cui lo stesso autore ha prestato un umile e umiliante servizio negli anni ’80. Meno di cento brevi poesie compongono il libro, esponendo agli occhi del lettore un universo degradato di sofferenza, sopraffazione, crudele indifferenza, in cui lo squartamento della carne si mescola a sangue, letame, sperma, bava di mucche, tori, vitelli, cavalli, maiali; nel liquame scorrazzano topi, annegano vermi e larve, ronzano mosche. I gesti automatici e impietosi degli addetti alla macellazione (facchini e veterinari, operai e ufficiali sanitari), e dello stesso poeta che si ritrae con perfida sincerità in azioni addirittura brutali e oscene, assumono l’intollerabile e talvolta beffarda concretezza di un imperdonabile massacro: «Sventrate intere famiglie / oggi / lunedì di intensa macellazione. / Una vacca ha partorito un vitello / negli occhi la paura di nascere / il foro in mezzo il nostro contributo / a tranquillizzarlo», «Dalla vasca d’acqua bollente / emerge un enorme maiale / bianco come uno spettro / che oscilla impudico fino a quando / dal finestrone il sole / accende quintali di luce», «Lo stanzino in fondo allo spogliatoio / è detto delle seghe / affisse a tre pareti foto di donne / dalla vagina glabra / nell’altra il manifesto di una vacca / che svela con differenti colori / i suoi tagli prelibati».

Qui potremmo citare il grande quadro dipinto da Annibale Carracci nel 1585, ed esposto ad Oxford nella Christ Church Gallery, Bottega del macellaio, in cui alcuni lavoranti si applicano a operazioni diverse. In basso, un giovane sta per sezionare un capretto, un altro appende mezzo bue a un gancio, un terzo sistema la carne sul bancone, un quarto con un grembiule bianco sorregge la bilancia, mentre carcasse penzolano dall’alto e ritagli di carne danno mostra di sé sul piano inclinato, in un contrasto coloristico di rossi, bianchi, neri. Carracci, che spesso amava riprodurre figure umili di popolani (cfr. Il mangiafagioli) si era ispirato al lavoro di uno zio, il cui negozio gli aveva offerto materiali di studio, e in misura maggiore alla pittura fiamminga di genere, che presentava scene di cucina o di bottega. Inoltre aveva svolto un breve apprendistato presso Bartolomeo Passerotti, il quale, dipingendo frequentemente interni domestici o di lavoro, ritrasse negli stessi anni una Macelleria in cui due omacci ostentano pose grottesche e triviali, con un intento derisorio del tutto assente in Carracci, più interessato invece a rendere con realismo e verosimiglianza documentaristica le attività lavorative svolte.

Infine, agghiacciante beccaio-carnefice è quello che Sándor Márai (Košice 1900) descrisse nel racconto che segnò il suo esordio come narratore nel 1924, e che ora Adelphi ripropone nella traduzione di Laura Sgarioto. Il protagonista Otto Schwarz era nato a fine ’800 in una cittadina poco distante da Berlino, figlio di un rude sellaio protestante e di una donnina timorosa e mesta. Concepito nella notte in cui i suoi genitori avevano assistito terrorizzati a un tragico incidente in un circo, nato di dieci mesi, di sei chili e già con i denti, aveva nella violenza del parto ucciso la madre, ipotecando in questo modo il suo futuro destino di massacratore. La vocazione sadica alla macellazione gli era sorta già nella prima infanzia, assistendo all’uccisione di una mucca, poi replicata come un rito nei suoi giochi perversi di bambino: «L’istante in cui vide balenare la scure e subito dopo l’animale stramazzare a terra, senza emettere alcun suono e senza dibattersi, si impresse in lui come il ricordo di una sorta di gioia trionfale… Stava vicino alla carcassa e osservò con occhi ardenti come le si avventavano sul collo con seghe e coltelli: il sangue sgorgò in un fiotto abbondante, le interiora schizzarono fuori dalle costole, e di lì a poco la testa del bovino, tranciata rozzamente via dal corpo, giacque accanto al tronco». Divenuto adulto, Otto riesce a esaudire il suo sogno, e viene assunto nel mattatoio centrale di Berlino. Le due pagine che Márai dedica alla prima visita del giovane in questo edificio, sono di un’esemplare concisione e pacatezza nel loro astenersi da qualsiasi considerazione moraleggiante, consapevoli che la pura descrizione dell’ambiente non necessita di alcun artificioso commento letterario: «In angusti box, da cui provenivano i muggiti terrorizzati delle bestie, sordi schianti e imprecazioni, e il sangue fluiva in rigagnoli densi e neri attraverso scanalature praticate nel pavimento, stavano giovanotti dal volto imbrattato di sangue fino all’attaccatura dei capelli, con lunghi stivali che arrivavano all’inguine come quelli dei pescatori, grembiuli sudici e insanguinati e le maniche rimboccate, alcuni dei quali segavano in due lungo la colonna vertebrale gigantesche carcasse appese al soffitto, mentre altri recidevano con coltelli ricurvi la gola di ovini collocati su cavalletti di legno senza badare al copioso fiotto di sangue che schizzava loro in faccia, o strappavano le pelli dalle carni fumanti nello stesso modo in cui si sbuccia un frutto. Davanti all’ingresso dei box i garzoni lavavano le interiora, e il tanfo asfissiante del sangue, della carne fumigante, delle budella putrescenti e degli escrementi colpiva chi entrava, a meno che non vi fosse avvezzo, come qualcosa di tangibile. Si udiva fragore di ossa spezzate, e ovunque si volgesse lo sguardo si vedevano balenare le scuri e gli animali crollare al suolo con le zampe puntate dritte verso l’alto; di tanto in tanto qualche muggito turbava il ritmo monotono del lavoro. La scena meccanica e ufficiale dell’uccisione era in stridente contrasto con la frotta spaurita di coloro che stavano là a guardare, per lo più vecchi e vecchie che si aggiravano davanti ai box con in mano scodelle e pentole: i derelitti e gli emarginati della metropoli che con l’umile e patetico scintillio della fame negli occhi cercavano di carpire uno sguardo compassionevole dei garzoni macellai, sgomitavano con foga bestiale per afferrare le interiora e gli scarti di carne che cadevano qua e là. Vi erano anche vecchie vestite di stracci che si appostavano nel cortiletto che dai recinti conduceva ai box, e attraverso il quale venivano sospinti i bovini destinati alla macellazione, per poter acciuffare una vacca macilenta che, mentre la bestia percorreva il suo ultimo tragitto, mungevano in tutta fretta con il tacito assenso dei bovari. Si spintonavano strillando per poche gocce di latte, e nei loro gesti c’era qualcosa della furia dei rapaci necrofagi».

Otto non tradisce nessuna emozione di fronte al dolore degli animali e degli uomini, e mantiene la stessa imperturbabile indifferenza in tutti i suoi rapporti con il mondo circostante: con le donne che frequenta, con le rare amicizie, con gli avvenimenti storici che stanno conducendo il suo paese nel baratro della prima guerra mondiale; dimostra un’unica sensibilità nei confronti della figura del Kaiser, che ai suoi occhi incarna l’ideale di autorevole e superiore dominio su tutto l’universo animato. Non appena riesce ad aprire un negozio in proprio, viene richiamato alle armi, e inviato sul fronte serbo.

La maestria narrativa di Sándor Márai si esprime nella geniale invenzione di posticipare gli avvenimenti che condussero il protagonista alla perdizione, annunciandone invece in anticipo la soluzione finale e fatale, in modo che il lettore scopra da solo e lentamente l’abiezione assoluta del personaggio. Sia che tratti con bestie o con esseri umani, Otto Schwarz incarna il prototipo della violenza bruta, illogica e irresponsabile, compiuta con una gratuità quasi fanciullesca, seguendo il richiamo tribale del sangue. In guerra, mentre striscia nel fango delle trincee, scopre il riscatto dallo stato di avvilimento animalesco in cui è ridotto, solo durante gli attacchi corpo a corpo con il nemico: «’Io sono un macellaio», pensò, emozionato per l’improvvisa illuminazione «anche questo accanto a me è un macellaio, siamo tutti macellai, e bisogna aprire la pancia alle bestie con il coltello’. Macellaio-coltello-pancia. In quell’attimo la sua vita acquistò un senso. Aprire la pancia alle bestie, pensò entusiasta, bisogna aprire la pancia a tutti quanti per… e qui si interruppe un istante… per la patria. Poco dopo si corresse: per la patria e per l’imperatore». Sarà proprio l’idolatrato imperatore a decorarlo per i suoi atti di eroismo, promuovendolo di grado («Hai fatto bene il tuo dovere, figliolo»); lo stato di esaltazione che gli deriva da tale riconoscimento ufficiale, lo spinge a guidare spietati assalti in rappresaglie e spedizioni punitive contro innocui abitanti di villaggi sperduti nelle retrovie. Tornato a Berlino, il sergente Otto Schwarz si ritrova svuotato e incapace di riprendere le abitudini di normale cittadino, e viene travolto da un rancore profondo verso la vita imbelle e improduttiva che è costretto a condurre. Le pratiche autodistruttive e i vizi a cui si abbandona lo portano inevitabilmente a sprofondare in un baratro di colpa, follia e morte.

Forse Sándor Márai non si rese conto, scrivendo questo tragico racconto quasi un secolo fa, di aver offerto un fondamentale contributo a due importanti ideali etici: il pacifismo e il vegetarianismo.

 

© Riproduzione riservata      «Il Pickwick», 12 aprile 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AAVV – MERAVIGLIARSI COME BAMBINI

AAVV, MERAVIGLIARSI COME BAMBINI – CASTELVECCHI, ROMA 2017

Il critico letterario Filippo La Porta nell’ambito del Futura Festival 2015 di Civitanova Marche ha avuto l’incarico di moderare e insieme di stimolare un dibattito con tre noti intellettuali (Massarenti, Morelli, Varzi) sull’importanza della filosofia nella società contemporanea. Il confronto derivatone viene ora riproposto da Castelvecchi in edizione cartacea e in e-book.
Probabilmente è superfluo indicare in cosa i vari interventi dei tre studiosi si differenzino, poiché si muovono tutti sulla stessa lunghezza d’onda, e concordano nell’affermare che fare filosofia oggi significa interrogarsi, porsi domande sulla propria vita e sull’esistenza in generale, Meravigliarsi come bambini di fronte alla complessità delle cose, e soprattutto pensare autonomamente.
Studiare filosofia certamente serve (tuttavia, non nella maniera asetticamente comparativa in uso oggi nei nostri licei), se non altro per conoscere le risposte che nel corso di circa tre millenni di storia si sono dati pensatori, scienziati, teologi e poeti di ogni latitudine: ma non sono tanto le asserzioni definitorie, i punti esclamativi, gli Eureka!, che devono coinvolgere le nostre intelligenze, quanto gli interrogativi, l’indagine, la ricerca, la pratica del dubbio e della critica, sull’esempio socratico della messa in discussione di ogni certezza condivisa.
Cosa significa, quindi, “filosofare”? «Sottrarsi alla via comune», suggerisce Paolo Morelli. «Non pensare che il mondo sia come siamo abituati a vederlo o come vogliono farcelo vedere», puntualizza Achille Varzi. «Sollecitare la mente», aggiunge Armando Massarenti. Cercare di essere padroni delle proprie azioni e dei propri pensieri, non adagiarsi sulle consuetudini indotte dall’uso, dalle mode, dalla tradizione o dalle imposizioni mediatiche.
Filippo La Porta si chiede se essere filosofi richieda anche uno stile di vita coerente alle proprie convinzioni teoriche, e se sia necessario impegnarsi in un’auto-educazione al fine del raggiungimento del bene, personale e collettivo: filosofia come paideia e imperativo etico. Non sempre i filosofi sono stati esempi di specchiata virtù, privata e politica (da Rousseau a Nietzsche, da Bacone a Heidegger…). Morigerati e integerrimi pare siano stati in pochi: tra loro Montaigne e Hume. Ma anche se non è sulla purezza del comportamento che si deve giudicare il pensiero dei Maestri, tuttavia l’esempio dei grandi può essere d’insegnamento nell’esercizio della vita quotidiana. Come invita a fare Armando Massarenti, persona tollerante e benevola, dovremmo ripetere come un mantra la sentenza di Democrito «Sii buono e imita le persone buone», per raggiungere la serenità interiore e aiutare il mondo ad essere più felice.
Non basta quindi affrontare gli studi scientifici più avanzati, né disambiguare le contraddittorietà linguistiche, o tantomeno affidarsi a un fideismo religioso acritico.
Solo il rovello della domanda filosofica, il suo rinnovato meravigliarsi di fronte al miracolo della vita e il suo incessante chiedersi quale sia lo scopo dell’esserci, può dare un senso al nostro pensare. Come scriveva Wittgenstein, «Quand’anche la scienza avesse risposto a tutte le domande, l’enigma dell’esistenza non sarà nemmeno sfiorato».

 

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19 aprile 2017

RECENSIONI

AAVV – POESIA

AAVV, POESIA – CROCETTI/FELTRINELLI, MILANO 2021

Il numero 8 (luglio-agosto 2021) della Rivista internazionale di cultura poetica Poesia, diretta da Nicola Crocetti, presenta come sempre un variegato e stimolante ventaglio di interventi su dufferenti produzioni in versi, declinate sincronicamente e diacronicamente a livello internazionale. Così troviamo articoli riguardanti la poesia italiana che spaziano dal primo Novecento di Giovanni Camerana e Dino Campana (firmati rispettivamente da Roberto Rossi Precerutti e da Silvio Ramat), artisti segnati da un uguale destino di sofferenza psichica e morale che li condusse l’uno al suicidio, l’altro alla reclusione manicomiale. Leggiamo poi un penetrante studio critico di Lorenzo Chiuchiù sull’ultimo volume di Milo De Angelis, Linea intera linea spezzata, e la rubrica curata dallo stesso De Angelis sui poeti di trent’anni, che in questo caso si occupa di Damiano Scaramella (Palestrina, 1990). Infine, una interessante sezione conclusiva dedicata ad Alessandro Moscè (Ancona 1969) e alla sua silloge Aspettiamo la mezzanotte.

Per ciò che riguarda la poesia classica, il germanista Gio Battista Bucciol introduce e commenta l’ode Alla Gioia di Friedrich Schiller, composta nel 1785, che Beethoven rese immortale nell’ultimo movimento della Nona Sinfonia.

In questo numero estivo della rivista (in realtà si tratta di un vero e proprio libro, a partire dalla nuova serie pubblicata in coedizione Crocetti-Feltrinelli, distribuito in edicola, nelle librerie e per abbonamento), ampio spazio è riservato agli stranieri. Gabriele Morelli ci racconta la nascita e il rilievo culturale della rivista di Neruda Caballo verde, fondata nel 1935, con il suo provocatorio “manifesto della poesia impura”; Angela Urbano, che da tempo si occupa di poesia orientale, presenta il Canzoniere di Li Yu, sovrano cinese nato nel 937; Antoniska Pozzi compie un breve excursus biografico e letterario su Leonel Rugama, guerrigliero nicaraguense ucciso ventunenne nel 1970 dalle truppe della guardia somozista.

Ma il pezzo di apertura di Poesia, intitolato L’urlo del mare e il buio, è riservato alla leggendaria figura di Malcolm Lowry (1909-1957), autore di un capolavoro della letteratura novecentesca, Sotto il vulcano. I Selected Poems of M.L., ripubblicati quest’anno proprio da Crocetti nella versione di Francesco Vizioli rivista da Massimo Bacigalupo, furono editi da Lawrence Ferlinghetti nel 1962 con la prefazione di Earle Birney che Poesia qui ripropone, insieme a una scelta delle composizioni più note dello scrittore britannico. Nel ritratto che ne fa l’amico Birney, Lowry aveva un atteggiamento “in bilico su una corda di comicità immaginosa tra la grandezza e l’autocommiserazione, tra l’esultanza per la propria potenza e l’agonia del disprezzo di sé… tutta la sua vita è stato un lento affondare  nei grandi mari dell’alcol e del senso di colpa”: Ne sono testimonianza questi suoi versi, bellissimi e disperati: “Non c’è alcuna poesia mentre ci vivi: / le pietre son tue, i rumori la tua mente: / i tram stridenti e ansanti, le strade che ti legano / al bar sognato dove ti disperavi, sono tram e strade: la poesia è altrove”, “Dio, dà da bere al bevitore che si sveglia all’alba / farfugliando in petto a Belzebù, già stracco…”, “Speri solo nel prossimo bicchiere. / Se vuoi, va’ a fare due passi. / Non c’è tempo per fermarsi a pensare, / speri solo nel prossimo bicchiere”, “Non sei tu il primo uomo che sia colto a mentire / né a cui si dica: guarda, stai morendo”.

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Poesia-rivista-Crocetti          29 luglio 2021

RECENSIONI

AAVV – POESIA CIVILE

AAVV, POESIA CIVILE E POLITICA DELL’ITALIA DEL 900 –  RIZZOLI, MILANO 2011

Questa antologia curata da Ernesto Galli della Loggia è un ammirato omaggio alla forza e alla nobiltà della poesia, quando sa elevarsi a voce politica di un comune sentire popolare, perché «forse solo nella letteratura risiede la vera storia morale e civile dell’ Italia in quanto nazione». A partire da Platone, spesso filosofi, storici e governi hanno guardato con sospetto ai poeti, perché intellettualmente inaffidabili, poco concreti, minacciosamente utopistici. Eppure la poesia ha da sempre accompagnato e talvolta incoraggiato i più importanti cambiamenti sociali e politici del nostro paese, da Dante in poi. Soprattutto il processo di unificazione nazionale dell’ 800 «assistette a un massiccio intreccio fra la poesia e l’impegno civile, il verso e la politica». Nel XX secolo, poi, autori e pubblico manifestarono un interesse crescente nel confrontarsi con gli avvenimenti fondanti della storia: dal futurismo degli interventisti, alla prima guerra mondiale (così intensamente raccontata da Ungaretti), dal fascismo che trovò stuoli di intellettuali proni a celebrarlo retoricamente e con interessata piaggeria, alla “tregenda” montaliana della seconda guerra mondiale, ai versi sofferti di Sereni nella prigionia algerina, fino alla resistenza di Pavese e Fortini. Infine, gli anni del dopoguerra, della ricostruzione e del boom economico, trovarono nella «disperata consapevolezza» di Pasolini e nell’amara ironia di Pagliarani voci più coraggiosamente impegnate che nel provocatorio sperimentalismo della Neoavanguardia. Forse programmaticamente, infatti, Galli della Loggia ha ignorato l’intellettuale più organico della sinistra italiana, Edoardo Sanguineti, rinunciando abbastanza malinconicamente a citare nomi di poeti contemporanei dichiaratamente schierati: fanno capolino, ma con versi non eccezionali, Cavalli e D’Elia. E meritavano almeno una citazione Giudici, Maiorino, Rosselli.

«L’Immaginazione» n.276, luglio 2013

RECENSIONI

AAVV – POESIE DEL SILENZIO

AAVV, POESIE DEL SILENZIO – GARZANTI, MILANO 2021

La curiosa antologia proposta da Garzanti, Poesie del silenzio, raccoglie decine di versi sul silenzio, sparsi in duemila anni di scrittura mondiale. Secondo il prefatore Andrea Di Gregorio, il silenzio è un termine povero di sinonimi (quiete, pace, mutismo si avvicinano al suo significato senza però esserne equivalenti): indica l’assenza di suoni e di parole. Richiama la meditazione, il sogno, la pensosa solitudine, il vuoto, e forse per questo è gradito ai poeti, che in esso trovano lo spazio per l’immaginosa riflessione, l’espressione malinconica, il desiderio di conforto, la nostalgia dell’amore. Può impoverire e arricchire, spaventare o consolare, indicare l’inizio o la fine di qualcosa, celare imbarazzo colpa perplessità, o al contrario attesa e speranza.

Quante parole per raccontare il tacere, lodarne la nobiltà, premiarne la discrezione, biasimarne la superbia o la viltà: questo piccolo libro ci offre un ventaglio di immagini, a volte luminose a volte fosche, tra cui il lettore può spaziare a piacimento.

Il primo a citare il silenzio in letteratura è stato Omero, nell’XI libro dell’Odissea, nominando Aiace che, rifiutandosi sdegnosamente di perdonare Ulisse, ritorna nell’Erebo “tra le altre ombre dei morti”. Anche Virgilio nel VI canto dell’Eneide descrive un’addolorata Didone che non riesce a prendere sonno nella notte in cui tutta la natura, partecipe del suo sconforto, tace. E in un famoso passo dell’Antico Testamento (1Re 19, 11-13), è Dio a rivelarsi a Elia con “il sussurro di un silenzio leggero”, dopo aver negato la propria presenza nel vento, nel terremoto, nel fuoco. Nella tacita compostezza di Laura, Petrarca scorge un indizio di riflessiva maturità, mentre alla malinconica introspezione di Tasso fa eco “l’amico silenzio de le stelle”. Per Shakespeare “Il silenzio è il più perfetto messaggero della gioia”, per Alexander Pope è “coetaneo dell’Eternità”, per il nostro Leopardi “la profondissima quiete” si confonde con “sovrumani silenzi”. Se Baudelaire celebra le “lunghe cene, e silenziose” passate con l’amata, Emily Dickinson in una quartina sottolinea la duplice natura del tacere, oscillante tra minaccia e segreta comunicazione: “Il Silenzio è la più grande paura. / C’è riscatto in una voce – / Ma il Silenzio è l’infinità. / Volto per sé non ha”.

Carducci vede riflesso nell’occhio di un bue “il divino del pian silenzio verde”, Oscar Wilde sospetta che il mutismo tra due amanti sia sintomo dell’indifferenza che prelude al distacco. Nei suoi aforismi Tagore esalta la saggezza del non dire, del non sprecare parole vane: “La piccola verità ha parole chiare. La grande verità ha il grande silenzio”, “L’uomo si tuffa nella folla chiassosa per affogare il clamore del suo silenzio”, “Polvere di parole morte incombe su di te. Lava la tua anima con il silenzio”. Per il prolifico e verboso D’Annunzio “si tace la luce e il silenzio risplende”, per il raffinato Paul Valery il niente immenso del silenzio “esiste solitario, per sé stesso”. Rilke ritiene che un gatto faccia più grande il silenzio, quando “levigato dell’inverno” lascia il posto “a un silenzio che canta” in primavera. Per Khalil Gibran è il più elevato strumento di conoscenza, di sé e del mondo: “ci separa, il silenzio, da noi stessi, ci porta a navigare il firmamento dello spirito, proprio vicino al Cielo”. D.H. Lawrence odia la morte che “inghiotte il rumore degli uomini”, cancellandone anche il ricordo. Per Campana il silenzio è colorato, per Lorca è ondulato, per Marina Cvetaeva è solenne, per Antonia Pozzi è “l’arabo avvolto / nel barracano bianco / che ascolta Dio maturargli / l’orzo intorno alla casa”.

I poeti sanno spesso usare parole migliori del silenzio per aiutarci ad amare la vita. Nel caso contrario, quando la parola si fa chiacchiera futile, volgarità od offesa, è meglio taccia, come suggerisce il motto che Salvator Rosa incise alla base dell’autoritratto esposto alla National Gallery: “Aut tace, aut loquere meliora silentio”.

 

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Poesie-del-silenzio       22 settembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AAVV – POESIE SUGLI ALBERI

AAVV, POESIE SUGLI ALBERI – GARZANTI, MILANO 2022

L’antologia recentemente pubblicata da Garzanti in cartaceo e digitale, a cura di Giuliana Mancuso, raccoglie un’ottantina di Poesie sugli alberi scritte da autori internazionali di tutte le epoche, a partire da Petrarca per arrivare ad Antonia Pozzi. Proprio il nostro grande aretino inizia il catalogo arboreo rendendo omaggio a una “giovene donna sotto un verde lauro”: alloro definito “dolce, duro, vivo, ben colto”, essendo comunque evidente che l’attenzione del poeta si volge più che alla vegetazione a “’l bel viso e le chiome” dell’amata. Matteo Bandello, brindando in allegria, esalta la “nova vite” che dona “uve gialle”. Tra i romantici, l’inglese Charlotte Smith ringrazia il rude olivo, dai sacri rami emblema della pace: “Sebbene i tuoi pallidi fiori essenza non effondano / Nell’aria che i venti sollevano, / In te risiede il vero valore”; Goethe apprezza l’esotico Ginkgo biloba; il sognante Hölderlin loda le querce, figlie del monte, “liete e libere dalle possenti radici” (“Ma voi, voi querce gloriose! Vi ergete come un popolo di titani / Nel mondo addomesticato, e siete solo vostre e del cielo, / Che vi nutre e vi ha cresciuto, e della terra, che vi ha dato la vita”); Novalis ringrazia gli ontani “dai rami frondosi”, che regalano ombra agli abbracci degli amanti; Karl Meyer onora il “Vecchio pioppo tedesco” (un po’ di sano nazionalismo non guasta!), mentre Joseph von Eichendorff ricorda di aver intagliato il nome della sua fidanzata sulla corteccia di un tiglio. Il cantore dei boschi John Clare azzarda una similitudine: “Grande olmo dal tronco spaccato, tutt’inciso e sfregiato, / Simile è il tuo destino a quello di un guerriero!”, e Heinrich Heine si commuove osservando la fredda solitudine di un abete nordico. Poteva mancare nell’elenco Giacomo Leopardi? Malinconicamente segue con lo sguardo il volteggiare di una foglia di faggio. Se Walt Whitman si rispecchia orgogliosamente in una robusta quercia della Louisiana (“E il suo aspetto rude, deciso, vigoroso mi ha fatto pensare a me stesso”), con una sensibilità tipicamente femminile Luise Büchner si accorge che il faggio protegge le specie animali e vegetali più piccole e indifese. Nel classico trio ottocentesco italico, celeberrimo è il verde melograno di Carducci, mentre il mite Pascoli accarezza con grato pensiero l’agrifoglio, e il ricercato D’Annunzio glorifica l’astrusa siliqua. L’imperialista Rudyard Kipling ossequia tutti gli alberi che “adornano la vecchia Inghilterra”, mentre più modestamente la lombarda Ada Negri celebra l’albicocco del suo giardino: “Nei tre più alti rami / fiorì, leggero: in sua bianchezza alata / ride all’azzurro con stupor d’infanzia”; anche l’americana Amy Lowell si rivela affezionata al melo. Chissà se le due poetesse preparavano nelle loro cucine – come me! – conserve e marmellate, e per questo dimostravano riconoscenza agli alberi da frutto… Rilke raffinato e altero amava gli alti cipressi scuri, il solare Machado le palmette nane e l’arancio, il sensuale Lawrence il mandorlo in fiore, l’estenuato Lorca il limoneto. Infine la giovane, dolce, infelice Antonia Pozzi scriveva versi tristemente premonitori: “Io / sotto l’abete / in pace / come una cosa della terra, / come un ciuffo di eriche / arso dal gelo”…

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net › Poesie-sugli-alberi           5 giugno 2022