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RECENSIONI

BOREL

HENRI BOREL, WU WEI – NERI POZZA, VICENZA 1999

Henri Borel, studioso olandese di culture orientali,scrisse questa “Fantasia ispirata dalla filosofia di Lao Tzu” nel 1898: non un saggio o un’opera divulgativa, ma una commossa composizione fantastica fondata sugli insegnamenti del Taoismo. In essa immagina che un giovane desideroso di imparare la verità eterna dell’universo e la pace del cuore si recasse in una disabitata isoletta cinese per incontrare il “Saggio venerabile che aveva penetrato i segreti del cielo e della Terra, di nome Lao Tzu”. E qui giunto interrogasse il Maestro nel tentativo di raggiungere la luce interiore, la perfezione dei sentimenti e del pensiero. E il primo insegnamento che ne trasse fu quello di abbandonarsi al fluire del tempo e della vita, con lo stesso respiro di ogni cosa esistente, con la stessa docilità del mare che si muove senza saperlo, delle stagioni che si susseguono, del giorno e della notte che scandiscono inarrestabili le loro ore, dei fiori, delle nuvole e degli uccelli. Questo è il “WuWei“, non l’inerzia del non agire, ma l’accordo con il flusso cosmico, con la bontà della natura, con l’adesione al Tao, che è la via, la parola, Dio: l’Unico,i l Principio e la Fine, ciò che contiene tutte le cose, e a cui tutte ritornano. Tao è in tutto, nella vita e nella morte, in ogni luogo e persona. Tao è poesia e amore, eternità e nulla, armonia e bellezza, pace e ristoro.”Potremo raggiungerlo solo attraverso la rinuncia del desiderio, anche del desiderio della bontà e della saggezza… Così tu pure scivolerai verso Tao, e quando lo avrai raggiunto non lo saprai, giacché sarai diventato Tao tu stesso”. Il giovane allievo continuò a interrogare il saggio sull’essenza dell’amore, imparando che ci si deve liberare da ogni illusione di gloria, competizione, volontà di possesso: e che è vano cercare altrove risposte che possiamo trovare in noi stessi, e nel cuore di qualsiasi espressione vitale, in una metropoli come nel deserto.”E’ in mezzo alla vita che bisogna crescere, non ai suoi margini. Tao è ovunque”.

IBS, 27 agosto 2011

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BORGES

JORGE LUIS BORGES, LA CECITÁ, L’INCUBO – MIMESIS, MILANO 2012

Jorge Luis Borges, maestro della letteratura fantastica, si interroga in queste due conferenze tenute a Buenos Aires nel 1977, e riproposte dalla casa editrice Mimesis nel 2012, sul buio di due condizioni, fisiche e mentali: La cecità e L’incubo. Riguardo al primo stato, la cecità progressiva che ha colpito l’autore in modo definitivo nel 1955, ma segnalandosi già dall’infanzia per una sindrome congenita ed ereditaria, veniamo informati del non-buio che circonda gli ipo-vedenti, «un mondo fatto di nebbiolina, una nebbiolina verdognola o azzurrina e vagamente luminosa», in cui si intravedono pochi colori: il giallo, il verde sfumante nel blu. Mai il nero, mai il rosso, raramente il bianco. Nella cecità Borges ammette di avere perso il mondo esterno, ma di averne conquistato un altro, altrettanto ricco e formativo: quello della letteratura, dei «lontani antenati» greci, scandinavi, anglosassoni, medievali.

«Ho sempre sentito che il mio destino era, anzitutto, un destino letterario… Uno scrittore, o meglio ogni uomo, deve pensare che tutto ciò che gli succede è uno strumento; tutte le cose gli sono state date per un fine e questo deve essere più forte nel caso di un artista».

Altri grandi hanno preceduto Borges nella cecità. Non solo i suoi predecessori nella direzione della Biblioteca Nacional Argentina, Groussac e Mármol; ma soprattutto Omero, Milton, Joyce, Prescott, forse maggiormente in grado di esplorarsi nell’anima proprio grazie alla loro menomazione: «Chi può conoscere meglio se stesso, se non un cieco?» L’altro buio raccontato da Borges è quello del sonno, che interessa ogni essere vivente, «la modesta eternità che possediamo ogni notte». E se alcuni poeti e narratori hanno ipotizzato che tutta la nostra esistenza sia un sogno, in molti affermano che questa sospensione della vita, quando sia animata dagli incubi, cada in possesso di un demone, come suggeriscono i termini inglesi e tedeschi, “nightmare” e “alp”. Lo scrittore argentino confessa quali siano i suoi incubi ricorrenti: il labirinto, lo specchio e la maschera, che metaforizzano tutti lo smarrimento, il rispecchiamento mendace, l’inganno. E aggiunge di essere affascinato dal sogno, anche nella sua versione più orrifica e drammatica, perché si tratta dell’«attività estetica più antica», di cui ciascuno di noi è artefice, e in cui «siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo». Sognando, diventiamo tutti pittori, poeti, registi, autori drammatici, strumenti di un sovrannaturale che non dominiamo e ci domina, liberandoci da una realtà opprimente e immodificabile.

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/La-cecita-l-incubo-Borges.html     14 novembre 2016

 

 

 

 

 

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BORGES

JORGE LUIS BORGES, SOGNARE E SCRIVERE – IL CLUB DI MILANO, 2013 (ebook)

Di Jorge Luis Borges ((Buenos Aires,1899-Ginevra,1986), scrittore, saggista, poeta, filosofo, traduttore e bibliotecario, sono raccolti in questo economicissimo ebook alcune conferenze tenute negli ultimi anni di vita sulla letteratura, considerata dal punto di vista di chi scrive e di chi legge. Sognare e scrivere è un titolo indovinato e accattivante, espunto da uno dei saggi editi nel 2007 in Una vita di poesia. Esplicita è già l’epigrafe: “… si vantino altri delle pagine che hanno scritto; quanto a me, m’inorgogliscono quelle che ho letto. La mia lettura è molto più importante della mia scrittura”.

Partendo dai poemi medievali islandesi sulla guerra tra le forze del bene e le forze del male, in una lotta che segna il crepuscolo degli dei e l’inevitabile apocalisse, Borges passa a citare Shakespeare e Cervantes, Schopenhauer e Whitman, confessando di non riuscire a pensare al passato se non rifacendosi concretamente a esperienze letterarie, e ugualmente di non essere in grado di decifrare il presente, nella confusione delle cronache giornalistiche. Immaginandosi immortale, come ogni essere vivente, riesce solo a proiettarsi nel futuro più prossimo, scandito da azioni e progetti concreti.

“Io vedo la storia come un lungo sogno, un lungo sogno arbitrario e, quello che forse è più strano, è che è un sogno che sogna se stesso. Un sogno senza sognatore. Forse questo mi allontana dal cristianesimo e mi avvicina al buddismo”. Riguardo alla propria esistenza individuale, ritiene sia meglio rimanga velata, inconoscibile a se stesso e agli altri, mentre per ciò che concerne la propria scrittura, sa che essa si produce come per miracolo: “Sento all’improvviso che qualcosa sta per occorrermi e allora la mia anima, la mia coscienza, stanno in atteggiamento passivo, e aspetto, e qualcosa occorre, che può essere una favola. Di questa favola mi è dato vedere il principio e la fine, non quello che succede tra il punto di partenza e la meta: questo, devo scoprirlo io”.

L’arte accade, e l’artista si deve porre in una posizione di attesa, in modo di accoglierla nel suo avvenire. Le teorie estetiche, le scuole e le correnti non hanno alcun rilievo nell’ispirazione e nella composizione di un’opera: interviene qualcosa d’altro, il subconscio, o lo spirito. Anche la storicità di un romanzo o di un poema non lo interessa, bensì solo la fascinazione prodotta dalla sua musicalità: la poesia è suono, incantevole affabulazione.

Molto interessanti sono le considerazioni che Borges fa sull’individualità, che non ha alcun rilievo come culto della propria immagine personale, in quanto siamo tutti inessenziali e destinati a morire e a venire dimenticati: “L’umanità è immortale, non l’individuo. Io non voglio essere immortale in quanto individuo… Solo la poesia e l’arte non possono morire”. Riguardo alla sua attività di autore, afferma: “Ho fatto di me questa strana cosa, un uomo di lettere, un uomo il cui destino è cambiare le sue emozioni in parole, scriverle, forse pensare non tanto al loro senso quanto alla loro cadenza, alla loro musica, alla loro suggestione, e creare sogni”.

Convinto che uno scrittore debba essere fedele non tanto alle proprie idee, quanto ai propri sogni, Borges ritiene essenziale che un poeta si dimostri sensibile a ogni cosa, e sappia poi trasformare le cose in parole: in ciò risiede il suo dovere etico. “Non so che cosa significhi la mia opera. Non so se ho un’opera. Sono piuttosto frammenti, abbozzi in cui però la gente ha trovato qualcosa e in cui, forse, c’è veramente qualcosa, nonostante le mie intenzioni”. Noi lettori prendiamo atto stupiti della modestia con cui uno dei massimi letterati del ’900 si esprime in queste conversazioni: l’umiltà delle anime grandi, che si riconoscono piccole nei confronti dell’infinito temporale e spaziale. Completano l’ebook una breve nota biobibliografica e una galleria di ritratti dell’autore.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Sognare-e-scrivere-Borges    7 gennaio 2022

 

 

 

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BORGES-BIOY CASARES-OCAMPO

BORGES-OCAMPO-BIOY CASARES, ANTOLOGIA DELLA LETTERATURA FANTASTICA – EINAUDI, TORINO 2007

«Una sera del 1937 parlavamo di letteratura fantastica, discutevamo i racconti che ci sembravano migliori; uno di noi disse che se li avessimo riuniti, aggiungendo i frammenti dello stesso tipo annotati nei nostri quaderni, avremmo ottenuto un buon libro. Abbiamo messo insieme questo libro». Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares e sua moglie Silvina Ocampo diedero avvio in questo modo, un po’ casuale e improvvisato, all’ideazione di un’Antologia della Letteratura Fantastica che è diventata un caso letterario mondiale, tracciando un percorso di studi e analisi di un genere fino ad allora sottovalutato.

Prima edizione nel 1940, seconda nel 1965; nel 1980 l’edizione italiana, ripresa poi da Einaudi nel 2007. Senza enunciare alcun canone del fantastico, nelle prefazioni gli autori parlano solo del criterio edonistico che ha guidato le loro scelte, secondo uno sguardo soggettivo deciso a rivendicare a se stesso la responsabilità di includere o scartare autori diversi per epoche e origini, per fama e stile, ma accomunati dalla volontà di “raccontare una storia fantastica sostenuta da una trama precisa”, in polemica con la letteratura psicologica o realistica imperante a livello mondiale tra 800 e 900. I tre antologisti scelsero di allineare i testi in ordine alfabetico, aldilà di qualsiasi classificazione cronologica o geografica o di valore, creando così nel lettore effetti di straniante sospensione, attesa, curiosità. Così autori medievali seguono o precedono scrittori d’avanguardia, il nostro Papini succede all’americano O’Neill, Kafka anticipa Kipling. Si passa da uno stile all’altro, da un argomento all’altro, da una lunghezza di parecchie pagine alle poche righe di un aforisma.

«Antiche come la paura, le storie fantastiche precedono la scrittura», scriveva Bioy Casares nella prefazione del 1940, assicurando che spettri, incubi e fantasmi esistevano già nella Bibbia, in Omero, nelle Mille e una notte; da sempre ciò che caratterizza un racconto fantastico è l’ambiente in cui si svolge, l’atmosfera di mistero, la sorpresa, la dislocazione spaziale o temporale, l’esaudimento di desideri, la metamorfosi, l’orrore, il fatto soprannaturale o metafisico. Insomma, tutto ciò che non è facilmente e razionalmente spiegabile e motivato. In questo senso, aggiungeva Borges, «tutta la letteratura è fantastica»: proprio perché non si potrà mai ridurre a calcolo, profitto economico o interesse politico. E concludeva: «Le più belle antologie le fa il tempo», salvando nella memoria dei lettori anche pagine consunte dal trascorrere di decenni e secoli: infatti qui troviamo Petronio, Niu Sengru, Rabelais, Carlyle. Ma anche Poe, Wells, Joyce, Cortàzar e gli stessi tre autori. Perché, come scrive Ernesto Franco nella presentazione, questa più che un’antologia, «è l’autoritratto di un’amicizia».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Antologia-letteratura-fantastica.html   27 febbraio 2017

 

 

 

 

 

 

 

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BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA SOLITUDINE DELL’ANIMA – FELTRINELLI, MILANO 2013

Il Professor Eugenio Borgna, psichiatra di fama internazionale, ha dedicato un suo libro al tema affascinante e vastissimo della solitudine. I suoi precedenti volumi (otto nell’ultimo decennio, tutti editi da Feltrinelli) indagavano il mistero della sofferenza umana, nei vari aspetti della malattia psichica: dalla schizofrenia all’ansia, dalla malinconia alla depressione. Ma sempre con cuore attento ad ogni vibrazione dell’anima e della mente umana: quindi anche alle emozioni, alle attese, alle speranze che nutrono il vivere quotidiano delle persone, sane o malate che siano. In quest’ultima opera, è appunto l’universo infinito delle varie solitudini che viene affrontato anche con l’ausilio di apporti culturali diversi, che sconfinano nella filosofia (i nomi più citati sono quelli di Pascal, Kierkegaard, Nietzsche, Schopenhauer: per arrivare ai novecenteschi Simone Weil, Husserl, Jaspers, Wittgenstein, Barthes ), nella religione (Sant’Agostino, i mistici, Santa Teresa di Calcutta), nel cinema e nella musica (Ingmar Bergman, Bach, Chopin), nella letteratura e poesia (Leopardi, l’amata Emily Dickinson, Rilke, Bernanos, Etty Hillesum): tutti intellettuali che hanno esplorato più le intermittenze del cuore che le diverse forme della razionalità. L’epigrafe di apertura porta la firma della Dickinson, con due suoi illuminanti versi : «Forse sarei più sola / senza la mia solitudine», che ben esemplificano il rapporto di quasi riconoscenza, di quasi confidenza e familiarità che tutti dovremmo avere con la solitudine. La quale è cosa ben diversa dall’isolamento, che Eugenio Borgna definisce «come solitudine negativa, in cui si è chiusi in se stessi, perduti al mondo e alla trascendenza nel mondo». Perché ««ci si può sentire soli anche nel contesto di una folla, e non si è soli, ci si può non sentire soli anche nel deserto: quando questo sia riscattato, e redento, da una palpitante apertura a noi stessi e, benché assenti, agli altri». E ancora: «La solitudine, come il silenzio, è esperienza interiore che ci aiuta a vivere meglio la nostra vita di ogni giorno…rientrando nella nostra vita interiore…avvertiamo l’importanza della riflessione e della meditazione, della sensibilità e della carità, delle attese e della speranza, della contemplazione e della preghiera».

Quali sono invece le cause che inducono a isolarsi, a chiudersi in una «prigione senza porte, che è quella della lontananza dagli altri»? Borgna ne elenca molte: «la malattia depressiva, la mancanza o la perdita di persone amate, la dissolvenza di ruoli sociali significativi…ma anche la nostra indifferenza e la nostra noncuranza, la nostra desertificazione emozionale, il nostro rifiuto dell’amore…». Il dolore del corpo e dell’anima, le crisi di fede, la timidezza, i sensi di colpa per colpe mai commesse, l’acutizzarsi di conflitti sociali, l’angoscia, le tante paure che paralizzano le nostre ore: sono tutti fattori che spingono le persone a chiudersi in se stesse, come monadi senza finestre. Ma non si deve, per questo, ghettizzare con giudizi impietosi chi si ammala di solitudine; l’autore ha parole molto dure verso coloro che si vantano di una loro presunta e presuntuosa normalità: «Guai a consegnarsi ai pregiudizi astratti di una normalità apparentemente portatrice e creatrice di valori che non conosce i significati, e i valori, della sofferenza e del dolore». Nell’esplorare i più diversi percorsi umani, dalla mistica alla ricerca di una felicità perduta, dall’immaginazione poetica al baratro della malattia e della morte, Borgna arriva a dare della solitudine una visione anche positiva, quasi salvifica: «come compagna di strada che ci salva, nel silenzio, dai discorsi inutili e dagli impegni lacerati, e contaminati, della insignificanza». Questo ricchissimo e necessario volume si chiude con un capitolo dedicato alla cura del dolore, in grado di analizzare in quali situazioni sorga e si perpetui la scelta della solitudine; e con quali interventi si possa soccorrere chi soffre: attraverso quali parole e silenzi, con quali carezze e attenzioni, con quanta presenza delicata e generosa insieme. Soprattutto, con quali terapie mediche, offerte dalla più avanzata psichiatria fenomenologica, che si affida alla cura farmacologica unita a quella relazionale, «nutrita di dialogo e di ascolto». Ecco quindi l’umanissimo invito finale: «Siamo gentili con chi sta male: una psichiatria gentile, che rifiuti l’indifferenza e che sia suscitatrice di speranza, è ancora possibile».

«Orizzonti» n. 53, giugno 2014

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BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA FRAGILITA’ CHE È IN NOI – EINAUDI, TORINO 2014

La fragilità è un difetto, una colpa, la spia incontestabile di uno stato di precaria e instabile debilità?
Il Professor Eugenio Borgna, psichiatra e fenomenologo di fama, le dedica questo prezioso volumetto pubblicato nella collana  Le vele  di Einaudi, da subito prendendo le sue difese: «La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi».

Fragile è il silenzio, espressione spesso di timidezza o incapacità comunicativa, e fragili sono anche le parole, inadeguati scandagli dell’anima propria e altrui. E quanto fragili, trepide e vulnerabili sono le emozioni che ci vivono dentro, siano esse positive come la gioia, la speranza e la grazia, impalpabili e transeunti, siano invece negative come la tristezza, la malinconia, la nostalgia, che oscurano gli orizzonti delle nostre giornate e i rapporti con gli altri. Eugenio Borgna riflette sulla natura della fragilità come esperienza interpersonale («… è il nostro destino… nasce, si svolge e si articola in una stretta correlazione con l’ambiente in cui viviamo, e cioè con gli altri da noi»), e si addentra empaticamente con la sua decennale esperienza professionale negli stati fisici e psichici più segnati dalla fragilità: la malattia, in particolare quella mentale, nei suoi aspetti patologici e clinici.

La follia non è evento naturale bruciato dalla sua insignificanza, ma è esperienza storica ed esperienza sociale: non c’è follia nel regno animale. La follia non è qualcosa di estraneo alla vita: in alcuni fra noi essa si manifesta con grande intensità e con un diapason fiammeggiante di angoscia e di tristezza, di disperazione e di dissociazione; ma la follia nella sua radice più profonda è una possibilità umana, che è in ciascuno di noi, con le sue ombre più o meno dolorose, e con le sue penombre, con le sue agostiniane inquietudini del cuore. Il dolore e la stanchezza di vivere possono suggerire a chi soffre la strada definitiva del suicidio, seguita con severa determinazione dalla giovane poetessa Antonia Pozzi, o possono murare l’individuo nel «fine pena mai» dell’Alzheimer, malattia tuttora circondata «dal filo spinato del pregiudizio». E gli anni più scalfibili, le età dell’esistenza più aggredibili dal sentimento della propria inadeguatezza, sono secondo Borgna l’adolescenza e la senilità, «cittadelle assediate» da paure, sconfitte, solitudini, dipendenze emotive, subalternità ideologiche: periodi di vita non ancora sfruttabili o già totalmente sfruttati dal mondo produttivo e consumistico che ci condiziona tutti. Eppure, scriveva San Paolo nella Lettera ai Corinzi, «quando sono debole, allora sono potente». Come non riconoscere, infatti, una vittoriosa forza di resistenza in alcune esperienze mistiche solo all’apparenza inquiete e angoscianti, come quelle di Teresa di Lisieux e di Teresa di Calcutta, o nelle esili figure artistiche di Alberto Giacometti? E cosa ci può indicare la vulnerabilità del carattere femminile, più sensibile e introspettivo di quello maschile, capace di riconoscere non solo le proprie ferite, ma anche quelle altrui, quando riesce a trasformare con tenerezza «le relazioni umane, immergendole in atmosfere di accoglienza, e di non conflittualità»? La fragilità, conclude Eugenio Borgna, non è «una forma di vita inutile e antisociale, e anzi malata, e che non merita nel migliore dei casi se non compassione»: essa nasce «dalle falde più profonde e creatrici della nostra interiorità», ha l’inconsistenza di un sorriso, la sua gratuità, ma anche la sua profonda dolcezza e mite iridescenza.

 

«incroci on line», 14 dicembre 2014

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BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA DIGNITA’ FERITA – FELTRINELLI, MILANO 2013

L’ultimo volume pubblicato dal Professor Eugenio Borgna (Primario Emerito di Psichiatria a Novara e libero docente presso l’Università di Milano) traccia – con la consueta, acuta, sensibilità e con esemplare attenzione a vari e arricchenti contributi letterari – una mappa delle diverse ferite apportate alla dignità umana, «in emblematiche situazioni fenomenologiche e antropologiche, come quelle della malattia, della solitudine e dell’immigrazione», ma anche negli stati d’animo più fragili e nei momenti emotivi di più scalfibile sofferenza, quali le attese deluse, le speranze infrante, le terrificanti risonanze dell’ignoto, o lo spettro nullificante della depressione. Seguendo l’intuizione offerta dal titolo di un volume di Simone Weil (L’ombra e la grazia), Eugenio Borgna indaga sia la pesantezza del dolore, della sventura, della malattia mentale, sia le “stimmate luminose” della grazia, nelle declinazioni in cui essa sa offrirsi e consolarci: gentilezza, mitezza, sorriso e lacrime.
E in questa sua esplorazione degli «abissi dell’anima» si avvale della testimonianza della poesia, che più delle gelide e spesso indifferenti indagini psichiatriche, è in grado di descrivere ««il cammino friabile e oscuro» di ogni sofferto sentire umano: quindi i versi di Leopardi, Hölderlin, Rilke, Dickinson, Montale, Celan, Sachs sono alternati a riflessioni altrettanto emotivamente partecipi di grandi filosofi, medici, mistici come Sant’Agostino, Kierkegaard, Heidegger, Guardini, Binswanger, Hillesum, Bonhoeffer, e della stessa Simone Weil. Proprio la letteratura, con il suo «linguaggio rabdomantico e fosforescente» può consentire alla psichiatria di avvicinarsi al senso profondo della vita, esprimendo «l’inconoscibile e l’inesprimibile» di ogni oscura e tragica esperienza esistenziale.
Le tre parti in cui si articola il volume (dignità lacerata, dignità perduta, dignità salvata) affrontano da diverse e complesse prospettive i molteplici modi in cui la dignità di una persona può essere sfregiata dalla noncuranza, dall’egoismo, o addirittura dalla crudeltà e dal sadismo del mondo: ma anche in che maniera questa stessa dignità ferita possa venire curata e portata in salvo.
Nella prima parte, Eugenio Borgna si confronta con gli elementi formali, filosofici e giuridici che definiscono le fondazioni etiche dei diritti umani, riflettendo con amarezza sulle colpe morali di una psichiatria che spesso si è asservita (come nella Germania nazista) a un potere politico oppressivo e discriminante, o che tuttora si riduce a curare l’infermità mentale con metodi brutali, nell’esibito disinteresse verso la soggettività e l’autodeterminazione del malato. Con estrema empatia, l’autore denuncia l’insensibilità (il disprezzo, il pregiudizio) con cui la società contemporanea disattende le speranze di riscatto degli immigrati, degli anziani, delle donne, degli ultimi: «ogni uomo, al di là di ogni altra sua connotazione filosofica, conta», «solo l’uomo è persona, e questo significa che non è mai sostituibile». E il suo richiamo a una deontologia medica che metta in primo piano il dovere di «aiutare a vivere» il paziente, considerando dotata di senso ogni sua sofferenza, è forte e chiaro, «al di là delle selvagge associazioni farmacologiche oggi dilaganti», e delle terribili pratiche della contenzione.
La seconda parte del volume si occupa delle ferite inferte alla dignità in situazioni vitali più umbratili e meno facilmente definibili, quali le attese e le speranze deluse, gli incubi derivati dall’esperienza dell’ignoto, la malinconia e la fatica depressiva di vivere. Ecco allora pagine vibranti e commosse sull’attesa della morte (o di Dio, di una risposta, di un riconoscimento sociale e morale) e sull’aspettativa frustrata di un aiuto; sull’illusione di chi lascia il suo paese in cerca di riparo e salvezza, non solo economica, scontrandosi invece con i fantasmi perturbanti dell’ignoto; sui destini contrassegnati dalla tristezza, dalla depressione, dall’anoressia e dalla volontà di suicidio, esemplificati da Borgna in una stretta relazione simbiotica intrattenuta con una sua giovane paziente, dalle dolorose esperienze emozionali.
Infine, la terza sezione, forse la più ispirata e lirica del libro, descrive «forme di vita che cambierebbero davvero il mondo, rendendolo più umano e più capace di ascolto, e di attenzione agli altri»: la gentilezza e la mitezza, il sorriso e le lacrime. L’invito pressante dell’autore, in queste pagine che lui stesso definisce «errabonde e nomadi», e «extraterritoriali» rispetto alla psichiatria più ortodossa, è a volerci educare alla gentilezza, che «non costa nulla», per cui «non contano davvero la cultura, la lettura di libri, o la formazione psicologica». Una gentilezza e una mitezza d’animo che sappiano esprimersi in gesti discreti, in carezze, in incontri di sguardi, in accettazione della sofferenza altrui: «virtù deboli» che hanno forse un’inconsistenza mondana ma splendono di una loro «trascendenza oltremondana», spirituali e non materiali, estranee alla violenza, alla sopraffazione e all’offesa. Virtù inattuali, quindi, disusate: ma che secondo Eugenio Borgna «siamo chiamati a conquistare faticosamente ogni giorno; e questo è possibile se usciamo dai confini del nostro io», perché “non siamo prigionieri del nostro destino». Imparando o reimparando a sorridere, e a non vergognarci delle lacrime, quando sorriso e lacrime («queste nuvole del volto umano») siano espressione di delicatezza, e di «luce interiore dell’anima».

 

«criticaletteraria», 3 marzo 2014

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BORGNA

EUGENIO BORGNA, DI ARMONIA RISUONA E DI FOLLIA – FELTRINELLI, MILANO  2012

Le affermazioni che definiscono il senso e i fini della psichiatria, in questo volume del Professor Eugenio Borgna, sembrano essere molto più recise ed esplicite che nei suoi lavori precedenti (che nell’ultimo ventennio hanno indagato sempre, con estrema e profonda sensibilità, tutte le pieghe delle malattie dell’anima: dalla depressione alla schizofrenia, dalla solitudine alla malinconia): e forse è il caso di citarne alcune, nella loro convinta ed esigente severità.

«La psichiatria o è psichiatria sociale o non è psichiatria… scienza umana e non solo scienza naturale», «La psichiatria, quando si fa cura, non è se non incontro, dialogo, colloquio, comunità di destino, e non solo comunità di cura; … incontro fra un io e un tu che si realizzano fino in fondo solo nel noi, al di là di ogni categoriale distinzione fra malattia e non malattia, fra normalità e patologia…», «dilatare l’area della normalità nella follia, e della follia nella normalità».

Fautore appassionato di una psichiatria che sappia «scendere nelle strade», farsi ascolto empatico del dolore del paziente, Eugenio Borgna, da sempre considerato tra i più importanti clinici e studiosi della malattia mentale, a lungo solidale con la lotta di Franco Basaglia contro i manicomi («luoghi di sorveglianza e di esclusione»), esprime con categorica indignazione il suo rifiuto nei riguardi di cure farmacologiche e ospedalizzazioni che, evitando approcci più umani, attenti e partecipi alla sofferenza psichica, finiscono per produrre un «vortice di ostinati e persistenti fenomeni di emarginazione che trascinano con sé isolamento sociale e solitudine radicale». In questo libro l’autore si propone di indagare non solamente la malattia mentale in sé, ma anche quelle particolari fragilità, inquietudini, timidezze, ipersensibilità, emozioni ferite «oggi considerate come esperienze inutili e svuotate di senso: inconciliabili con le esigenze di efficienza e di produttività che sono gli idoli della modernità».
Da questi stati d’animo di accentuata emotività possono nascere anche folgoranti manifestazioni creative, non solo negli artisti più geniali, segnati talvolta da dolorose crisi psichiche, ma anche in comuni pazienti affetti da patologie: Eugenio Borgna include allora nelle sue pagine brani di diario, poesie, riflessioni strazianti e di fulgida bellezza di adolescenti autistici, di giovani anoressiche, di donne schizofreniche pietrificate nella non comunicabilità di un male oscuro e terribile, da lui avute in cura all’Ospedale Maggiore di Novara. E accanto a queste angoscianti espressioni e richieste di aiuto dei suoi pazienti, esplora con una partecipazione che è pure ammirata condivisione di eccellenze artistiche, le creazioni sublimi di poeti e narratori, pittori e registi, filosofi e mistici toccati da esperienze neurotiche o psicotiche di particolare gravità. Ecco quindi l’insondabile tormento espresso dai versi di Nelly Sachs e di Paul Celan, entrambi lacerati dalla tragedia della Shoah, o di altri poeti smarriti in una loro dolorosa e annientante solitudine come Hölderlin, Leopardi, Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Georg Trakl (da una sua poesia è tratto il suggestivo titolo del volume). Poeti che sono arrivati talvolta ad immolarsi nell’estremo rifiuto del suicidio. Filosofi come Kierkegaard o Nietzsche o Simone Weil, scrittori come Virginia Woolf e Etty Hillesum, pittori come Van Gogh e Modigliani, straziati dalla follia, o altri in grado di rappresentare la malinconia con «affascinate risonanze emozionali»: Friedrich, Böcklin, Corot, e il nostro Daniele Ranzoni. Registi quali Lars von Trier o Bergman; grandi mistiche che hanno sperimentato l’estasi e il dubbio, la presenza luminosa e il silenzio di Dio: Teresa d’Avila, Teresa di Lisieux fino a Madre Teresa di Calcutta. Di ciascuno di loro Eugenio Borgna ci sa restituire le parole più disperate e toccanti, le più indifese e fragili, nella loro adesione alla ricerca dell’infinito e allo scandaglio del mistero che ci circonda. Esprimendo così la speranza che «anche un libro possa avere un suo significato nel sottolineare drasticamente la dignità della sofferenza psichica».

 

«Qui Libri», luglio 2013

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BORGNA

EUGENIO BORGNA, TENEREZZA – EINAUDI, TORINO 2022

In questo decimo libro pubblicato con Einaudi, Eugenio Borgna esplora uno dei sentimenti umani tra i meno considerati nel mondo contemporaneo, forse addirittura irriso per la fragile, delicata e disponibile attenzione attraverso cui si rapporta con l’alterità: la tenerezza.

Il Professor Borgna (Borgomanero 1930), esponente di punta della psichiatria fenomenologica, è stato Primario emerito di psichiatria dell’ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Ha firmato decine di pubblicazioni scientifiche e numerosi volumi divulgativi, indagando l’arcipelago delle emozioni (titolo di un suo successo librario del 2001) che investono l’essere umano, sia come patologia clinica (schizofrenia, depressione, malinconia, autismo, anoressia) sia come sentimenti che riguardano più generalmente la persona nella sua individualità e nel relazionarsi con l’esterno: ansia, solitudine, nostalgia, disperazione, senso di colpa, turbamento, sfiducia.

La sua scrittura si ricollega sempre non solo con l’esperienza medica vissuta in decenni di pratica ospedaliera, ma anche con le suggestioni derivate dalle molte, partecipi letture di autori amati e studiati per tutta la vita: Pascal, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Simone Weil tra i filosofi; Sant’Agostino, i mistici, Santa Teresa di Calcutta tra i religiosi; Leopardi, Emily Dickinson, Rilke, Celan, Mann, Cristina Campo, Antonia Pozzi tra gli scrittori e i poeti. Senza trascurare il cinema e la musica classica.

In questo saggio proposto nella collana einaudiana Le vele, Borgna rileva quanto la tenerezza, sorella della gentilezza, sia necessaria alla cura del corpo e dell’anima altrui, “nell’attenzione e nell’ascolto, nel silenzio e nella solidarietà”. In particolare allo psichiatra, più ancora che ad altri specialisti, è richiesto di avvicinarsi a chi soffre con empatia e generosa disponibilità. Criticando severamente le cure ospedaliere e universitarie asservite oggi al mito esasperato dell’oggettività e del rimedio farmacologico, l’autore sottolinea l’importanza fondamentale dell’avvicinamento soggettivo e interiore al paziente, da mettere in atto con l’uso di parole che sappiano aprirsi alla comprensione e alla rispondenza affettiva: “Non c’è comunicazione autentica se non quando si evitano parole indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e anonime”.

Alle parole adeguate si deve accompagnare poi il linguaggio del corpo, dei gesti, degli sguardi. Borgna rivaluta l’importanza del sorriso, delle lacrime, delle carezze: segnali fisici che indicano grazia e vicinanza, comunione e umana simpatia, capaci di produrre vaste risonanze emozionali, sebbene spesso vengano interpretati come indice di debolezza e affettazione. La tenerezza si può e si deve imparare, ad essa ci si deve educare, non esclusivamente quando si esercitino professioni di servizio sociale, ma nei rapporti quotidiani di amore, amicizia, confronto che hanno il diritto di essere preservati dall’indifferenza e dalla noncuranza: altrimenti si smarriscono, svaniscono nella distrazione e nella superficialità. Parole educate e gentili, quindi, evitando aggressività e prepotenza; senso del pudore nell’approssimarsi alle emozioni altrui, soprattutto nell’età fragile dell’adolescenza; gesti misurati e non invasivi, lontani tuttavia dalla freddezza dell’impassibilità.

Ci sono stati psichiatri che hanno saputo trattare il disagio mentale con rispetto e dedizione, restituendo ai malati il senso della dignità e della libertà: Basaglia, Tobino, Callieri, Selz… Da loro Borgna ha tratto insegnamenti culturali e umani. Altrettanto riconosce di avere imparato da scrittori e poeti, le cui testimonianze letterarie vengono riportate con ammirazione e gratitudine, e con l’intenzione di celebrare “Il mistero della poesia che, quando è grande, ci fa conoscere l’indicibile nella vita, e le scintille di luce nelle notti oscure dell’anima”. Maestri di tenerezza sono stati Leopardi, Pascoli, i crepuscolari, Etty Hillesum, Antonia Pozzi. Leggendoli e rileggendoli, possiamo aprirci agli orizzonti della trascendenza e uscire dai confini asfittici del nostro io: “Nella tenerezza si incrinano le barriere che separano le une dalle altre le persone, e si rinnovano gli slanci del cuore, che sanno creare relazioni fondate sulla reciprocità”.

Ricordando l’amichevole frequentazione telefonica ed epistolare che anni fa ci aveva avvicinati, mi permetto di segnalare al Professor Borgna un distico di Sandro Penna, non citato nel suo libro, che potrebbe forse rappresentarne una degna e penetrante epigrafe: “La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 20 giugno 2022

 

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, L’ORA CHE NON HA PIÙ SORELLE – EINAUDI, TORINO 2024

Il titolo dell’ultimo libro di Eugenio Borgna, L’ora che non ha più sorelle, è ripreso da un toccante verso di Paul Celan dedicato al tragico momento del distacco dalla vita. Il Professor Borgna, illustre neuropsichiatra, psicoanalista di indirizzo junghiano e saggista di fama, è stato dal 1963 direttore del servizio psichiatrico dell’Ospedale Maggiore di Novara, di cui ora è primario emerito: scrive qui non solo con evidente cognizione di causa, ma anche con l’acuta sensibilità che caratterizza ogni sua pubblicazione, del “mistero insondabile” del suicidio, soffermandosi in particolare sulla morte volontaria messa in atto dalle donne.

Borgna individua nella fragilità una delle premesse che possono portare all’atto autodistruttivo (sia pure condizionato da diverse motivazioni esteriori, o da stati depressivi e psicotici), a causa dell’esposizione al pericolo di ferite inferte “da contesti ambientali freddi e indifferenti, che destano con maggiore facilità dolorose risonanze interiori” nell’anima femminile.

Il suicidio maschile, numericamente più esteso a livello mondiale, rivela aspetti differenti, con tratti aggressivi, lucidamente pianificati, talvolta espressamente determinati da una ribellione ideologica o sociale. L’autore cita gli esempi della fine di alcuni scrittori novecenteschi (Pavese, Trakl, Benjamin, Zweig, lo stesso Celan), segnata da una disperazione e da un impeto lacerante lontano dalla rassegnata malinconia che contraddistingue la rinuncia alla vita delle donne.

Se di Virginia Woolf e di Amelia Rosselli è riconosciuta scientificamente la disposizione psicotica che le aveva portate a lunghe degenze ospedaliere e a pesanti cure mediche per tutto il corso dell’esistenza, in altre figure di scrittrici e poetesse care all’autore si delineava già dall’adolescenza una propensione al suicidio, non determinata da infermità mentali, ma dalla vulnerabilità della loro condizione ferita dalla solitudine, e dal desiderio disatteso di realtà diverse da quelle sperate, come in Marina Cvetaeva, Sylvia Plath, Simone Weil, Antonia Pozzi.

Forse che in Simone Weil la decisione di non nutrirsi più nell’estate del 1943, poco più che trentenne, devastata dall’angoscia per l’avanzare del nazismo, e da un senso opprimente di estraneità alla storia, non può a ragione venire considerata una precisa volontà di morte, già accarezzata nelle fantasie adolescenziali descritte nei suoi diari? E in Antonia Pozzi, poetessa amatissima da Eugenio Borgna, la malinconia leopardiana che ha accompagnato la sua breve esistenza, non ha accentuato il continuo desiderio di morire, che le sue relazioni, ogni volta franate e incomprese, hanno concorso a realizzare? I versi di Antonia tratti da composizioni adolescenziali (Largo, Novembre, La porta che si chiude, Prati, Grido) facevano già presagire la volontà di concludere la vita a ventisei anni, nel dicembre del 1938, annunciando ai genitori con una lettera agghiacciante e disperata la sua decisione (“voi dovete pensare che questo è il meglio. Ho tanto sofferto…”)

“O lasciate lasciate che io sia / una cosa di nessuno / per queste vecchie strade / in cui la sera affonda // – O lasciate lasciate ch’io mi perda / ombra nell’ombra”, “E poi – se accadrà ch’io me ne vada – / resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo – / resterà un’esile scia di silenzio / in mezzo alle voci / – un tenue fiato di bianco”, “io sono stanca, / stanca, logora, scossa, / come il pilastro d’un cancello angusto / al limitare d’un immenso cortile”, “Non avere un Dio / non avere una tomba / non avere nulla di fermo / ma solo cose vive che sfuggono / – essere senza ieri essere senza domani / ed acciecarsi nel nulla – / – aiuto”.

Borgna nella sua lunga attività ospedaliera si è imbattuto in pazienti che esprimevano questa stanchezza di vivere, o che avevano tentato di uccidersi: racconta commosso di alcune di loro – Margherita, Emilia, Stefania – e dell’angoscia provata nel timore di non saperle aiutare, convinto che la propria missione di “psichiatra dell’interiorità” dovesse trovare la più alta e umana realizzazione soprattutto nella disponibilità all’ascolto, a una comprensione partecipe, in grado di allontanare ogni intenzione o progetto suicidario delle degenti a lui affidate.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 24 novembre 2024

 

 

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