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RECENSIONI

BUONAIUTI

ERNESTO BUONAIUTI, GESÙ IL CRISTO – E/0, ROMA 2019

Ernesto Buonaiuti (Roma1881-1946), uno dei maggiori esponenti del modernismo cattolico, professore di storia del cristianesimo all’università di Roma, storico insigne e direttore di diverse riviste teologiche, era stato ordinato sacerdote nel 1903, ma nel 1926 venne colpito da scomunica ed esonerato dall’insegnamento, quindi destituito per non aver prestato giuramento al regime fascista. Come studioso indagò molti aspetti e figure della storia della Chiesa, spesso in polemica con le direttive e le gerarchie vaticane.

Il saggio Gesù il Cristo è la sua opera più controversa, iscritta nell’Indice dei libri proibiti come eretica da papa Pio X. Fu pubblicata per la prima volta nel 1926, e due anni fa è stata ripresa dalle edizioni E/O nella “Collana di pensiero radicale” diretta da Goffredo Fofi.

Perché questo piccolo libro ha potuto creare tanto scandalo in ambito ecclesiastico? Si tratta di un emozionante e appassionato excursus sulla vita di Gesù, inserita nel contesto storico cui apparteneva. Aprendo la sua narrazione con le parole profetiche di Malachia (“Sulle vostre fronti, tementi il mio nome, sorgerà un sole di giustizia, i cui raggi arrecheranno la guarigione. Voi ne trasalirete di gioia e ne tripudierete, come vitelli tratti fuori dalla loro clausura”), Buonaiuti celebra il sole di giustizia che si annuncia per gli uomini con la venuta di Cristo, dopo il regno di Erode il Grande e durante la dominazione romana.

Un Gesù uomo tra gli uomini, quindi, che appare all’interno di eventi storici luttuosi, violenti, iniqui, a divulgare parole di pace e giustizia, di mitezza e speranza. Lo precede la ribellione anti-romana di un fanatico zelota, Giuda; lo precede Giovanni il Battezzatore che purifica nelle acque del Giordano chi è alla ricerca di un rinnovamento interiore; lo precede una “inquietudine aspra e tremante di ansiose aspettative, nutrite di brividi e di singhiozzi”.

In una prosa forbita, immaginosa e inebriante, Buonaiuti ripercorre tutta la vicenda umana dell’“artigiano trentenne, venuto da Nazareth”, descrivendone l’anelito spirituale, l’ansia missionaria, i dialoghi amichevoli e le discussioni infervorate, i luoghi attraversati, i desideri e le delusioni. Quindi il distacco dalla famiglia e dalla bottega del padre, l’abbandono della sospettosa e ingrata città natale, l’arrivo a Cafarnao, le prime predicazioni e i primi seguaci, i prodigi e le guarigioni attuate in mezzo a “una folla oscillante di curiosi, di malati, di pezzenti, che sembrava suggere dalle sue parole un segreto e inesprimibile sentimento di sollievo e di conforto”.

Come e cosa insegnava Gesù? “Egli impartiva il suo insegnamento semplice e disadorno, cogliendo le più modeste occasioni, facendo appello ai motivi più familiari della vita quotidiana, traendo lo spunto dagli incontri meno previsti, utilizzando le più consuete nozioni della tradizione religiosa ufficiale”.

Perché un libriccino così ispirato e intenso ha provocato reazioni tanto feroci e isteriche all’interno del Vaticano? Più che al contenuto del testo, le censure e i timori clericali erano rivolti al diffondersi della filosofia modernista, di cui Ernesto Buonaiuti era uno dei principali esponenti. Il modernismo cattolico proponeva infatti di ripensare il messaggio cristiano alla luce delle istanze della società contemporanea, suggerendo una lettura razionalista della Bibbia e dei riti religiosi, rispettosa dell’autonoma determinazione dell’individuo e collettività, emancipata da ogni prospettiva e sistema di valori compiuto e di carattere assolutistico. La Chiesa aveva già condannato il modernismo come eresia a partire dagli inizi del ’900. In epoca fascista, di dittatura ideologica e di compromessi con l’istituzione cattolica (ricordiamo che i Patti Lateranensi furono firmati nel 1929!) tale condanna fu ribadita e aggravata da scomuniche e persecuzioni varie.

La tesi del libro che più poteva sembrare pericolosa era la distinzione tra il Cristo della fede e il Gesù della storia, narrato dai Vangeli canonici, che nulla potevano o dovevano affermare della sua divinità. La severa accusa di fariseismo rivolta alla tradizione religiosa vigente nella Palestina neo-testamentaria venne letta dalla gerarchia ecclesiastica come allusione alla precettistica illiberale e dogmatica, al formulario legalista e alla liturgia codificata messa in atto dalla Chiesa del XX secolo.

Come poteva essere altrimenti? Ecco le parole innamorate che Buonaiuti scriveva sul Figlio dell’Uomo: “La stupenda originalità del suo messaggio sarebbe stata tutta nella riduzione, così della disciplina etica farisaica come dell’aspettativa escatologica cantata nella letteratura apocalittica”, in favore del “programma rovesciatore” espresso nel Discorso della Montagna: “Quattro promesse di beatitudine, quattro minacce di maledizione, null’altro. Ma in esse era racchiusa la dottrina sociale più sottilmente sovvertitrice che fosse mai stata bandita al cospetto degli uomini”.

Di un Gesù rispettoso della Legge (“Non un accento ne sarà cancellato”), ma altresì convinto della necessità di un rinnovamento del culto, il teologo scomunicato scrisse: “Gesù rivendica la santità elementare della legge morale, eterna quanto il cielo e la terra. Ma in pari tempo sa di bandire un messaggio cui i poteri costituiti e le autorità religiose resisteranno con accanimento barbaro e con violenza cieca, tratti da una fatalità tragica a reagire brutalmente contro chi ripristina i valori da cui pure essi trassero i titoli e le ragioni della loro esistenza, e con ciò stesso, a segnare, inconsapevoli, il proprio verdetto di morte”.

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 29 luglio 2021

 

 

 

 

 

 

 

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BURGER

HERMANN BURGER, L’ILLETTORE – L’ORMA, ROMA 2017

«Cara Signora e sovrana di Blankenburg, Amica del cuore, eccelsa Lettora, La ringrazio anzitutto per l’indefessa lettura, chi meglio di me, affetto da illessia …». Così inizia la prima delle sette lunghe lettere pseudo-autobiografiche (il sottotitolo del romanzo suona “una confessione”) che il protagonista scrive a una coltissima e illuminata Principessa, cultrice delle Arti e della Letteratura, raccontandosi e raccontandole del proprio esistere fuori dal mondo, ossessionato da fantasmi mentali e paure, idiosincrasie ed esaltazioni improvvise: ma soprattutto straziato da una misteriosa malattia, il “morbus lexis” (una sorta di catatonia cerebrale, derivata dall’infiammazione delle “terminazioni nervose pre-sinaptiche”) che gli impedisce di leggere, o anche solo di avvicinarsi fisicamente alla carta stampata.

L’Illettore – che si definisce Accantato, morto vivente, catalettico – vive recluso in uno scantinato (catapecchia, tubo, cappella fredda, cisterna, arca) senza rapporti con il prossimo, fatta eccezione per la stizzosa “serva druda” che tre volte la settimana gli riordina il bugigattolo, ragguagliandolo un poco sulle novità esterne. Dal suo buco infossato nel buco imperviamente e nebbiosamente naturale di Schruns-Grächen in Austrizzera, l’uomo scontento di sé comunica epistolarmente con Donna von Fürstenfeld (Lettora suprema, Signora benigna, musa degli intarsi variopinti, bibliofila contessa, regina delle mille e una veste, Governatora, onnivora liseuse, nobile Corsiva gotica), la quale vive in uno sfarzoso castello incastonato all’interno di un ancora più sfarzoso parco a Blankenburg, servita e riverita dal domestico Loontien e dal segretario Arpagaus. In tono sarcasticamente reverenziale e beffardamente rispettoso, l’Illettore illustra alla sua amica di penna la propria esistenza amorfa e sprecata di recluso, in passato gran divoratore di libri al punto da diventare egli stesso una lettera dell’alfabeto («ho assorbito così in profondità queste pietre preziose dell’umano spirito che nessuno le potrebbe estirpare dalle mie viscere e dalle mie ghiandole») e, all’invito di lei a trasferirsi nel suo castello come esperto bibliotecario, confessa orgogliosamente di sapersi accontentare di una conversazione epistolare «elisia e sferica e serafica ed eolica».

Il turbinoso e caleidoscopico monologo del protagonista si nutre di citazioni letterarie soprattutto di area germanica, con rapsodiche incursioni tra gli scrittori russi; ma anche di considerazioni sui mala tempora politici e sociali, e di descrizioni paesaggistiche dei panorami montuosi della Svizzera interna, supportate da un’approfondita conoscenza delle scienze naturali (geologiche, stratigrafiche, morfologiche, icnologiche). Le sue divagazioni narrative si avvolgono a spirale, in una scrittura fagocitante, alimentata di se stessa, che esibisce uno sfoggio di erudizione sottilmente compiaciuto e ironico nell’affrontare gli argomenti e le discipline più varie: dall’architettura alla neurobiologia, dalla linguistica all’erboristeria, e disserta sul fumo, sulla posta, sui costumi popolari, per tornare sempre al tema principe, la letteratura. L’amore per il libro, inteso anche come oggetto di culto e da collezione, sovrasta ogni altra passione: l’Illettore, privato a causa del suo “morbus lexis” di qualsiasi interesse per la concretezza della quotidianità, vive di memorie librarie, e forse proprio grazie ad esse, in conclusione del volume, riuscirà a ritrovare la salute e la capacità di uscire dalla sua tana: «Mi darò da fare, voglio provarci».

L’autore di questo “testo multiforme” (come lo definisce l’attenta traduttrice Anna Ruchat), pubblicato nel 1986 e per la prima volta adesso dalle edizioni romane de L’Orma, è uno dei più importanti e originali scrittori svizzeri, Hermann Burger (1942-1989), che qui ha inteso sperimentare non solo una tecnica narrativa provocatoriamente dissacrante, ricca di citazioni, neologismi, excursus eruditi, didascalismi, cacofonie verbali: ma anche e soprattutto ha voluto offrire ai lettori il documento di uno stato paralizzante di depressione clinica, descritta nel breve saggio conclusivo, di cui egli stesso ebbe a soffrire per anni, e che lo portò a suicidarsi, proprio come uno dei poeti più citati in queste pagine, Paul Celan, che in un suo verso incoraggiava inutilmente se stesso a vivere: «Smetti di leggere: guarda!»

Libri che salvano, libri che annientano. Hermann Burger (l’illettore) scriveva con severità: «in letteratura le cose non vanno diversamente che nella vita, ovunque ci si giri, si incontra subito l’incorreggibile plebaglia dell’umanità, onnipresente a legioni, e tale folla innumerevole lorda ogni cosa, come le mosche d’estate; di qui il numero mostruoso di cattivi libri buoni o di buoni libri cattivi, nessuno dei quali, nel giro di dieci anni, sarà sopravvissuto». Eppure, una scrittura meritevole come quella di Burger continua a vivere e a interessarci, sopravvivendo ad ogni depressione, mentale e culturale.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/L-illettore-Hermann-Burger.html;     7 aprile 2017

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BURNSIDE

JOHN BURNSIDE, LA CASA DEL SILENZIO – MERIDIANO ZERO, PADOVA 2007

John Burnside è un poeta scozzese di sessantacinque anni. Un ottimo poeta. Che ha scritto anche alcuni romanzi. La casa del silenzio è il primo, composto nel 1997 e pubblicato da noi dieci anni dopo. Non è il suo libro più famoso, ma è senz’altro esemplare dello stile e degli interessi di questo autore, che si situano tra scienza, fantascienza e psicologia, mantenendo però uno sguardo attento ai valori etici della società contemporanea, così spesso contraddetti dalla corsa al successo e al profitto.

Il romanzo ruota intorno al tema del linguaggio: la parola come invenzione e come trappola, come salvezza e come condanna. Protagonista è Luke, un intellettuale trentenne interessato alla neurologia e al cognitivismo, non solo per passione scientifica, ma soprattutto per il desiderio di penetrare nella psiche altrui, sondando contemporaneamente anche le abilità esplorative della propria mente. La domanda principale che Luke si pone è se la capacità di parlare sia innata o acquisita. Tale questione lo affascina dall’infanzia, da quando la sua amatissima mamma, perduta precocemente, gli raccontava la storia dell’imperatore mogul Akbar, il quale aveva fatto costruire un edificio in cui dei servitori muti dovevano allevare alcuni neonati, in modo che non arrivasse loro nessuna parola, impedendo di fatto ai bambini qualsiasi possibilità di comunicazione. Luke già da piccolo subiva il fascino della reazione dei corpi al mutamento delle condizioni di vita: ossessionato dall’idea della morte, terrorizzato al pensiero di poter perdere sua madre, andava in cerca delle carcasse di animali per osservarne la decomposizione; collezionava vegetali per studiarne l’appassimento; teneva l’elenco di tutti i decessi di persone che aveva conosciuto.

La scrittura di Burnside, densa e precisa, sinuosa ma priva di pedanteria o autocompiacimento, segue con perspicacia psicologica il tortuoso avvilupparsi della perversione di Luke, sempre più coinvolto in un voyeurismo necrofilo: “C’era qualcosa di stupendo nell’immobilità della morte, nella sua irreversibilità, ma ora volevo qualcosa di più di un cadavere. Volevo aprire l’essere vivente, vedere il battito del cuore e la circolazione del sangue; volevo a un tempo essere testimone e celebrante di una sorta di rituale, volevo sentire pulsare gli organi, osservare la vita che sfuggiva… Volevo vedere com’era la vita quando finiva, e lasciava solo la materia inerte”.

Se, nella sua morbosa ricerca dell’origine della coscienza, da piccolo Luke dissezionava gli animali, crescendo comprende che il soffio vitale può essere reperito esclusivamente nel pensiero, e in ciò che lo esprime: la parola. Divenuto adulto, si interessa quindi ai ragazzi con ritardo nello sviluppo del linguaggio: bambini-lupo, bambini-selvaggi, bambini-cavie di esperimenti scientifici, attratto dall’idea di indagare qualche caso simile non solo sui libri, ma di persona. Viene così in contatto con una vicina affascinante ma gelida e formale, e del suo piccolo Jeremy, chiuso in un mutismo difficilmente classificabile (forse organico, forse comportamentale), preda di atteggiamenti aggressivi o catatonici. Mamma e bambino appaiono a Luke inquietanti, vittime di un feroce isolamento sociale, ma anche minacciosamente enigmatici. Con la madre Luke intreccia presto una relazione sessuale ambigua e violenta, da lei accettata in totale passività, mantenendo nello stesso tempo un rapporto professionale di studio sull’infermità del figlio.  Ben presto però l’uomo entra in un vortice di ansia e sadismo, espressi in atti di tortura fisica nei confronti delle sue vittime. Come succede nelle ossessioni maniacali, Luke non riesce a dominare i suoi impulsi, che lo porteranno a intrecciare un nuovo rapporto con Lillian, un’adolescente senzatetto semi-analfabeta e muta, schiavizzata da un gruppo di balordi. Invaghitosi di lei, la porta a casa sua costringendola in una sudditanza fatta di minacce e continui regali. Deciso a mettere in atto un progetto sperimentale accarezzato da anni, di diabolica gestazione, Luke si sbarazza brutalmente di chiunque possa rappresentare un ostacolo al suo piano, e si trasforma in un infernale demiurgo creatore di mostri. I due gemelli partoriti da Lillian diventano cavie della sua paranoica ossessione scientifica, letteralmente “animali da laboratorio”, immolati sull’altare della pazzia, in un’inaspettata e macabra soluzione finale.

Un ottimo romanzo, questo di John Burnside, dalla scrittura elegante e sostenuta, che non cede mai a volgarità o scaltrezze narrative, e indaga invece con controllata intelligenza i meandri della complessità mentale di un uomo lucidamente folle, riuscendo a offrire pagine di intensa poeticità nonostante i drammatici temi affrontati.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/La-casa-del-silenzio-Burnside.html     I marzo 2020

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BURROUGHS

WILLIAM BURROUGHS, VICOLO DEL TORNADO – STAMPA ALTERNATIVA, ROMA 1997 (ebook)

 

William Seward Burroughs (1914-1997) è stato uno degli esponenti più noti della letteratura beat, amico di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Nato a Saint Louis, laureato a Harvard, viaggiò e soggiornò a lungo in Messico, in Perù, In Europa e nel nord Africa, sperimentando ogni genere di droga. Dalla tossicodipendenza non riuscì mai a uscire definitivamente, nonostante lunghe cure di disintossicazione, e la sua critica feroce allo stile di vita americano e più generalmente occidentale continuò a esprimersi in modo radicale e violento sia nella scrittura, sia nelle scelte esistenziali e politiche. Omossessuale, appena tollerato ma sempre mantenuto dalla famiglia ricchissima, non ebbe mai un’occupazione stabile: si sposò due volte, e dalla prima moglie, uccisa accidentalmente maneggiando una pistola, ebbe un figlio. Scrisse diciotto romanzi, sei raccolte di racconti, quattro raccolte di versi, cinque libri di interviste, lettere e diari. Apparve in vari film e collaborò con numerosi musicisti e performer, ottenendo grandi riconoscimenti e premi internazionali.

“Ho usato droghe in molte forme” scrisse nell’introduzione al suo scandaloso capolavoro del 1962, Il pasto nudo. Ma già nel libro d’esordio Junkie, del 1953, fino a Terre occidentali del 1988, il tema della dipendenza veniva esplorato non solo negli effetti fisici e mentali, ma anche metaforicamente come schiavitù e assuefazione a qualsiasi altra forma di amorfa sottomissione: al sesso, al denaro, al lavoro, alla tecnologia, al nazionalismo, alla religione o a ogni altra ideologia possa rendere le persone meno libere e consapevoli delle proprie scelte.

L’ebook proposto da Stampa Alternativa nel 1997, e ancora acquistabile online a meno di un euro, può offrire al lettore una prima veloce impressione sia delle diverse tematiche, sia dei generi letterari con cui l’autore si è misurato (dall’horror al fantascientifico al trash), utilizzando – come scrive Massimo De Feo nella sua empatica introduzione -, “l’eccessivo, il rivoltante, il paradossale, la maschera del clown o il bisturi del chirurgo pazzo, per scagliarsi contro la religione del potere e i suoi derivati”.

In effetti, il filo che tiene legate queste sette brevi storie, si può chiaramente riconoscere nel dichiarato disprezzo verso il fariseismo della vita borghese, via via incarnata in rampanti giovanotti WASP, in uomini d’affari, in poliziotti corrotti e vendicativi, in medici e psicanalisti più morbosamente esaltati dei loro pazienti. Al di sopra di tutto, l’occhio vigilante e repressivo di uno stato che pretende il controllo totale e la soggezione ubbidiente dei suoi sudditi, a cui Burroughs oppose la ribellione brutale e quasi animalesca dei suoi personaggi.

Così il primo racconto si presenta come una beffarda preghiera recitata nel Giorno del Ringraziamento, festività che negli USA assume un rilievo familiare e religioso pari al Natale. L’ironica riconoscenza dello scrittore viene espressa elencando una serie di torbidi misfatti ecologici e sociali messi in atto contro la natura, gli animali, i poveri, i neri e gli indiani, i drogati e i malati: “Grazie per il tacchino e i piccioni viaggiatori, destinati a essere cacati attraverso le sane budella americane… Grazie per le rispettabili signore casa-e-chiesa con le loro facce meschine, smunte, sgradevoli, perverse… Grazie per gli adesivi ‘Ammazza un frocio in nome di Cristo’”.

Altri racconti micidiali nella loro rivoltante brutalità narrano di un ragazzo epilettico che usa come un’arma contro un raffinato perbenista le sue escrezioni corporee: sangue, sperma, saliva; di uno psichiatra che vorrebbe eliminare tutte le persone disturbate o devianti in cura da lui; di un uomo che si ritrova nell’intestino un millepiedi mutante che lo divora. E poi pusher, eroinomani, rapinatori, forze dell’ordine criminali. Violenza, lerciume, oscenità della malavita in risposta ad altrettanta sudiceria ufficiale e organizzata. “Tutto il mio lavoro è rivolto contro coloro che sono intenti, per stupidità o per programma, a far saltare in aria il pianeta o a renderlo inabitabile”, scriveva William Burroughs, cherubino osceno e arrabbiato.

 

© Riproduzione riservata        13 novembre 2019

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BUSSOLA

MATTEO BUSSOLA, SONO PURI I LORO SOGNI – EINAUDI, TORINO 2017

Matteo Bussola (Verona, 1971), architetto convertitosi alla fumettistica e alla scrittura, padre di tre bambine in età scolare, riflette in “Sono puri i loro sogni” sull’evoluzione (e sull’involuzione) dei nostri costumi nazionali nei riguardi dell’essere genitori e figli, insegnanti e alunni ed ex-alunni, cittadini più o meno responsabili della società e della convivenza civile. Lo fa in un tono garbato e lieve, con ironia priva di sarcasmo, senza nascondere dubbi, rimpianti e preoccupazioni.
Forse stiamo sbagliando qualcosa, se i rapporti all’interno delle famiglie e con le istituzioni sono diventati tanto frenetici, apprensivi, sospettosi, sempre sulla difensiva o sul piede di guerra. In particolare, c’è da chiedersi come mai siano talmente mutate le relazioni che intratteniamo con il mondo della scuola, di cui siamo o siamo stati tutti fruitori e partecipi, al punto che guardiamo ai maestri e ai professori dei nostri ragazzi con ostilità e diffidenza, ritenendoli spesso impreparati, scansafatiche, faziosi. E perché, se fino a qualche decennio fa l’insegnante veniva considerato con rispetto, oggi diviene spesso obiettivo di contestazioni, querele, motteggi e aggressioni non solo verbali, sia in sede scolastica, sia in cerchie non inerenti all’istruzione, sia online.
Matteo Bussola dedica i primi capitoli di “Sono puri i loro sogni” a stigmatizzare l’atteggiamento dei genitori (iperprotettivo, ansioso, impaurito) già da quando iscrivono i figli a scuola: nella scelta dell’istituto, degli orari, della mensa, dei trasporti, dei corsi facoltativi; ridicolizza bonariamente mamme-papà e nonni che accompagnano i pargoli fin dentro la classe, aspettandoli impazienti alla fine delle lezioni, indagando sui loro progressi nelle materie, incitandoli alla competizione, infuriandosi per ogni minimo fallimento – che ovviamente viene attribuito all’insensibilità del docente!

Ancora, indaga sul motivo che spinge i nostri giovani ad assumere comportamenti sempre più strafottenti e aggressivi, al limite del bullismo verso i compagni e gli insegnanti, in una contestazione priva di riferimenti ideologici, anzi spesso irrazionale, nevrotica, irrispettosa. Ecco: il rispetto, su cui molto insiste l’autore, pare mancare del tutto nel sodalizio che dovrebbe instaurarsi tra docenti, allievi e famiglie, in una solidale comprensione dei rispettivi diritti e doveri, delle mansioni che ciascuno è chiamato ad assolvere. Mia figlia Daria che insegna nel carcere di massima sicurezza di Opera mi assicura di aver trovato più attenzione ed educazione tra gli ergastolani che in qualsiasi altro istituto in cui ha operato. Da quali sensi di colpa sono pervasi oggi i genitori, se devono sempre ergersi in difesa dei loro figli anche qualora risultino indifendibili (maleducati, ignoranti, pigri, demotivati)? Probabilmente ci aspettiamo dall’istituzione scolastica la garanzia sul futuro delle nuove generazioni che essa non è più in grado di offrire, perché è cambiata la società, insieme al mondo del lavoro, e al valore stesso che si attribuisce all’autorità. O forse questo eccesso di paternalismo e mammismo protettivo è una caratteristica propria della nostra italianità, troppo individualista e troppo poco sensibile alle necessità degli altri: deleghiamo l’educazione dei nostri ragazzi alla scuola, perché abbiamo abdicato al nostro ruolo educativo, ma siamo prontissimi ad insorgere contro i docenti che non riteniamo all’altezza del loro compito. Temiamo l’autonomia e l’indipendenza, già quando si esprime nell’infanzia, che pretendiamo di sorvegliare e difendere persino da pericoli inesistenti.

Se posso accennare a una mia esperienza biografica, ricordo che avendo insegnato molti anni per il Ministero degli Affari Esteri in Svizzera, la mia famiglia si era dovuta adeguare alle abitudini del luogo: cosicché la nostra bambina più grande doveva attraversare Zurigo cambiando due tram per raggiungere da sola la scuola media, e la piccolina fin dalla prima settimana doveva recarsi all’asilo senza che la accompagnassimo, con l’unica protezione di un triangolo di plastica fluorescente sul petto (mentre mio marito si nascondeva dietro un’enorme quercia per seguirla almeno con lo sguardo finché la vedeva raggiungere la sua severa maestra Geissbūhler…). Altri metodi educativi, altri mondi. Ma davvero più insensibili e indifferenti del nostro? O solo correttamente responsabili? Rientrata in Italia, in un ridente paesino sul Garda, pativo la riprovazione delle altre mamme perché non accompagnavo le figlie, ormai più grandi, negli edifici scolastici vicinissimi.
Come ci ammonisce giustamente Matteo Bussola nei tanti esempi particolari che propone, non dobbiamo appropriarci delle esistenze dei nostri ragazzi, fagocitandoli nelle nostre paure e aspirazioni. “Sono puri i loro sogni”, non inquiniamoglieli già da piccoli. Non ingabbiamoli, impariamo ad essere per loro non “come mura che li tengono al riparo dalla vita, ma come porte da attraversare per raggiungerla”.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Sono-puri-i-loro-sogni-Bussola.html     15 ottobre 2017

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BUX

ANTONIO BUX, LA DIGA OMBRA – NOTTETEMPO, MILANO 2020

Antonio Bux (Foggia, 1982) ha al suo attivo numerosi e premiati volumi di versi (in italiano, spagnolo e dialetto pugliese), è presente in varie antologie, collabora a riviste e blog letterari, cura due collane di poesia. Il suo ultimo libro, pubblicato da Nottetempo, esprime una diversa consistenza tematica rispetto alla precedente produzione, una naturale coerenza stilistica determinata dall’intenso trasporto emotivo che ne attraversa le pagine.

Forse il termine che meglio suggerisce il carattere dell’intera raccolta è “sospensione”, nel senso che sospesa è l’atmosfera che l’avvolge tutta: l’ombra del titolo, ma anche le presenze aeree che la animano, e i sentimenti espressi nella loro lieve fugacità. Bux sembra prediligere l’inconsistenza materiale, nel repertorio di sostantivi che esibisce, spesso reiterandoli con una richiesta di rispecchiamento o addirittura di soccorso, pronunciata con la devozione di una giaculatoria laica ma miracolante (“Anni perché fate fiume, / dove e quanto il sogno dura, // se per durare si deve sparire d’acqua / evaporando un solo tempo / perché nel tempo si muore?”).

Angeli, dèi, rondini, nuvole si muovono leggeri e diafani in altezze più metafisiche che fisiche; vento, soffio, velo, nebbia, gocce di pioggia, piume, polvere sono gli elementi di una meteorologia incorporea e dilatata. Gli attributi relativi all’umano sono altrettanto immateriali, nell’esplicita volontà di evitare qualsiasi pesantezza: sonno, sogno, fiato, soffio, eco…

Le immagini si rincorrono e compenetrano in una imprevedibile sovversione della logica sintattica, con improvvisi capovolgimenti di soggetto, stravolgimenti di senso, quasi seguendo allucinazioni visive e uditive: “Sono stato di un albero / il sorriso che lui mi ha dato / per vedere dove un viso / è un anello, quel veto antico / che ora è già scorza / tiepida fino al vento / ma del vento sospira il luogo / freddo e così vede il cielo / sorridere se cade come foglia la foglia / che non cade mai”.

Più pacatamente diretti e freschi, più autenticamente sinceri, appaiono a chi legge i versi dedicati a una presenza femminile, amata e disamata nello stesso tempo: “Scrivere per averti perduta / non ti farà ritornare”, “Tu mi sei cara, così azzurra / e soffice quando sfiori il ramo, / ti piace l’albero, il suo svanire, / così come vedi il vento”, “Dire ancora il ricordo, e la bellezza di una schiena / ora che te ne stai girata, e davanti hai la tua vita // … ricorda per intero, quando mi hai cacciato via, / e avevo solo un corpo, il sogno di svanirti dentro, / ricorda proprio questo: che io ti bacio ancora”.

Anche gli attacchi di molte composizioni, nella loro icastica evidenza, esprimono il meglio della vocazione poetica di Antonio Bux, come si evince da questi esempi: “Sono sempre insieme le ombre. / Simili alle persone, ma più eterne”, “Sarà vero che non si muore mai. / Ma soli in vita, come un’autopsia, / conta esaminare i giorni, disperderli”, “Addio dolore. La tua sacca / chiusa è rimasta nel tempo”.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/La-diga-ombra-Bux.html      22 luglio 2020

RECENSIONI

BUX, GALLINA, GUGLIELMIN

ANTONIO BUX, FRANCESCO GALLINA, STEFANO GUGLIELMIN

L’editore milanese Marco Saya ha coraggiosamente scelto di dedicare la sua attività alla poesia, arte poco redditizia e di difficile divulgazione. Nel suo catalogo sono compresi sia opere classiche (da Esiodo a Leopardi, da Laforgue a Yeats, da Poe a Rilke), introdotte da illustri e competenti prefatori, sia volumi di critica letteraria, e soprattutto testi di autori contemporanei. Tra di loro, i nomi di Sonia Caporossi, Nicola Vacca, Luca Vaglio, Maria Angela Rossi, Gabriele Galloni, Franz Krauspenhaar, Annamaria De Pietro, Giulio Maffii, Giorgia Meriggi, Andrea Carraro e di numerosi altri poeti, si sono segnalati a livello nazionale, ricevendo premi e attestazioni di valore.

Quest’anno, le edizioni Saya hanno proposto ai lettori i lavori di Antonio Bux, Francesco Gallina, Stefano Guglielmin.

Iniziando proprio da quest’ultimo (Schio, 1961), docente alle scuole superiori e fondatore del blog Blanc de ta nuque, possiamo affermare che il suo libro Dispositivi si distingue non solo per il pensiero ideologicamente critico sotteso alle composizioni, ma anche per la coraggiosa e provocatoria scelta stilistica, lontana dagli esiti lirici della tradizione letteraria italiana, estranea a facili accomodamenti e recuperi espressivi. I dispositivi cui si riferisce Guglielmin sono quelli messi in atto dalla cultura, dai media, dal potere politico e finanziario che ci dominano per determinare i nostri comportamenti quotidiani, le nostre scelte nel lavoro, nell’alimentazione, nella vita sentimentale e sessuale, nei rapporti comunitari, nel sistema scolastico, nelle abitudini riguardanti la salute. E, ovviamente, anche nella scrittura, troppo spesso asservita alle imposizioni del mercato editoriale. I versi, oscillanti tra il sarcastico, il rabbioso e l’amaramente rassegnato, dispensano lampi di consapevolezza, volontà di resistenza, desiderio di opposizione: “non c’è ospedale o lente non c’è / olezzo o stridore che soccorra, ma dissenso vero o dispersione / per moto involontario: scegliere al bivio un senso provvisorio, / crederci, oppure tornare all’infinita diversione / ossia vivere, appunto”, “Smonto teorie e piccole chiese. Sbanco terra / promessa. Cerco garanzie sulla morte di Dio. / Offro in cambio collezione in plastica di falle / e reliquie, praticamente eterne”.

Francesco Gallina (trentenne, anch’egli docente di lettere alle superiori, ricercatore all’Università di Parma e saggista), con Medicinalia approfondisce, attraverso l’indagine sul mondo scientifico e ospedaliero investigante sintomi e cure di morbi e patologie varie, il collegamento che unisce la poesia – malattia dello spirito – con il dolore del corpo. Ogni singola infermità radiografata dall’autore, trova quindi la sua corrispondenza in una sofferenza dell’anima, che la scrittura poetica è incaricata di sondare e possibilmente guarire. La poesia colta, esplorativa, cerebrale di Francesco Gallina, disserta di cellule, cromosomi, ossa, viscere; cita nomi di famosi clinici, genetisti, farmacologi, anatomisti, psichiatri (Netter, Milgram, Evans, Koebner…); elenca malesseri fisici di ogni tipo, dal raffreddore alla cataratta al morbo di Basedow; passeggia tra i reparti ospedalieri; illustra prodotti, articoli, macchinari, suppellettili presenti nei nosocomi.  “il museo delle armi: il divaricatore / di Beckman, il fissatello atraumatico, / l’enterostato, il mosquito (avresti preferito / un mojito, ma va be’), il passafilo, / il portaaghi, rovi di forbici e forcipi / e altri ordigni barocchi”, “a vetro smerigliato il polmone / radiopaco è una costellazione / nodulare di supernove / dense, come colonie / di biomasse a legno ceppi radici, / incielate lucciole nel parenchima”. Per constatare leopardianamente, infine, che il dì natale è comunque funesto, perché “non c’è cura dalla morte, ma dal mal che deriva / dal passare dentro un corpo”.

Antonio Bux (Foggia, 1982), traduttore, critico letterario, blogger e curatore di collane editoriali, nel suo Diario dell’intruso riporta il lettore in un ambito poetico più tradizionale, che utilizza risorse e metodi tipici del patrimonio poetico universale. Le descrizioni naturali di paesaggi ed elementi vegetali o animali si rincorrono di pagina in pagina (fiori, insetti, uccelli, condizioni atmosferiche o astrali); i sentimenti, assolutamente privi di aggressività, rancore o acredine, sono orientati verso la tenerezza di rapporti amorosi e consolanti memorie infantili; lo stile è piano, scevro di azzardi sperimentali, e affidato perlopiù a frasi paratattiche e ripetizioni, nella ricerca di un’equilibrata musicalità, e in un’atmosfera di pacata limpidezza che fa dubitare di qualsiasi estraniante o negativa intrusione: “nei fischi // su in aria di un merlo / l’eco e la notte sono fuori / e tu devi imparare”, “c’è del tempo che mai si perde / quello d’una mano messa a sfiorare / le corde luminose a maggio del grano / nel verde che sale come onda di pace”.

 

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 26 aprile 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CACCIARI

MASSIMO CACCIARI, DOPPIO RITRATTO – ADELPHI, MILANO 2012

Ottantasei pagine molto dense e appassionate, queste che Massimo Cacciari pubblica per Adelphi in omaggio al Santo d’eccellenza, la cui esistenza fu pervicacemente radicata nella esemplarità della vita di Cristo: San Francesco. Il titolo del libro si presta a diverse interpretazioni: doppio è il ritratto che Giotto e Dante fecero del frate di Assisi, doppia la loro interpretazione della figura e del ruolo di Francesco nella storia della Chiesa e della cristianità. Ma doppio anche il leggendario ritratto che Giotto dipinse di se stesso e di Dante su una parete del Palazzo Pubblico, di cui parla Villani; e doppio il ritratto che Dante fa nel Paradiso di Francesco e Domenico attraverso le parole di Tommaso e Bonaventura. La persona e la missione di Francesco («nel suo tentativo inaudito di armonizzare il cuore di una mistica cristocentrica, fondata sull’imitazione del Modello… con la Chiesa storica, per necessità approssimabile soltanto a quella spirituale») ispirò ovviamente tutti i linguaggi artistici della sua epoca, pervasa da «tensioni e dissonanze», irradiandola e irradiandosi da essa sia nel fulgore accecante della sua spiritualità, sia nel rivoluzionario rovesciamento dei valori incarnato dalla sua concreta vicenda storica. Destino umano, culturale e teologico di Francesco, tenacemente votato alla perfetta imitatio di Cristo, fu quello di imitare Cristo anche nell’essere tradito: dal suo Ordine, dalla Chiesa, da chi lo interpretò, narrandolo nell’arte.
Cacciari si interroga sulla possibilità di confrontare il ritratto dantesco di Francesco con quello lasciatoci da Giotto nella Basilica Superiore di Assisi, partendo proprio dalle differenze ideologiche ed esistenziali dei due artisti: differenze che si riflettono acutamente proprio nel modo in cui consegnano il Santo alla tradizione e alla storia. La lettura che Dante fa della vita di Francesco privilegia senz’altro la sua concreta appartenenza alla realtà del suo tempo, alla missione di riforma della Chiesa, alla sua de-cisione dal mondo «per correre alle nozze mistiche con Povertà», alla sua sete di testimonianza e di martirio manifestate in particolare nella predicazione. Una lettura storica, incardinata nel suo tempo, quella che Dante ci tramanda di Francesco: «Il grande intellettuale vede in Francesco l’incarnazione di elementi essenziali del proprio progetto culturale, politico e religioso».
Molto diversa, più leggendaria e popolare, «commista a un preciso disegno edificante, governato dalla Chiesa» l’interpretazione giottesca della vita del Santo. Il Francesco di Giotto predica ai fiori e agli uccelli, esprime una nuova idea di natura, è giullare e poeta, innamorato lodatore di Dio e del Creato: «Il ciclo francescano di Assisi vuole essere immagine di questo accordo tra l’escatologia spirituale… e la dovuta reverenza all’autorità papale e alla gerarchia ecclesiastica». Giotto interpreta la volontà dei Frati Minori di radicare Francesco nella sua comunità e in un Chiesa restaurata e riappacificata, eliminando dall’iconografia del Santo tutti i tratti più straordinari e stridenti: censurando addirittura alcuni episodi della sua vita (l’incontro con il lebbroso, il dolore e lo strazio delle malattie e della morte, i chiodi delle stigmate, la scelta privilegiata e drastica della Povertà). Il Francesco di Giotto è umile, ilare, ubbidiente, «aureolato». Non «pauper». Sia Dante sia Giotto convergono nella volontà di rimuovere il tratto più scandaloso della santità di Francesco: la rinuncia, il «va’ e vendi tutto» evangelico.
E l’ultimo capitolo del libro di Cacciari assume un tono quasi profetico e ispirato nel rivendicare la portata rivoluzionaria della scelta francescana di «elezione del ptochós», del povero. «Povero non è il bisognoso, colui che manca-di, ma all’opposto, il teleios, il perfetto, colui che perfettamente imita il Figlio. Per Francesco, cioè,… il cristiano è povero o non è. Mendicante è il cristiano, così come è peregrinus et advena». La cultura del 900 ( e Cacciari cita, contestandoli, Rilke, Lukács, Heidegger, Nietzsche) non ha compreso pienamente la grandezza del messaggio francescano, che collega povertà a kenosis, allo svuotamento. Non solo dei beni, delle proprietà, ma del nostro possesso più geloso: la nostra psiché. Svuotarsi del Sé, liberarsi di ciò che ci è proprio per accogliere l’altro, «in tutti i volti con cui ci viene contra», «spossessarsi di tutto per risorgere con e per ogni ente», «La mistica francescana è amore ri-creante», «Paupertas è energia agente»: così il messaggio di Francesco ha giocato un ruolo fondamentale anche nel rinnovamento dei linguaggi artistici. Spogliandosi di ogni possesso, amando, benedicendo, non giudicando. Povertà, misericordia, letizia, perdono. Cacciari sottolinea l’aspetto femminile, materno della santità francescana, che Dante e Giotto sono riusciti a rappresentare solo parzialmente. Perché Francesco li oltrepassa e sovrasta, così come la sua “figura futuri” supera ogni progetto religioso, teologico, politico: «esattamente come quella del suo Modello resiste oltre ogni cristianesimo».

 

«Mosaico di pace»,  giugno 2012

RECENSIONI

CACCIARI

MASSIMO CACCIARI, GENERARE DIO – IL MULINO, BOLOGNA 2017

I dieci brevi capitoli in cui si suddivide il saggio di Massimo Cacciari Generare Dio, che inaugura la collana “Icone” delle edizioni Il Mulino, indagano il mito della «fanciulla dolcissima e dolente» che da più di duemila anni esercita un fascino impareggiabile e indiscutibile non solo nella devozione popolare, ma anche e preminentemente nell’arte, nella letteratura e nella filosofia.

Maria – colma di grazia, umile e alta, omnium patrona, regina coeli, sedes sapientiae, stella maris, refugium peccatorum, rosa mistica… – viene rivisitata dal filosofo attraverso le parole dei poeti (Dante, Jacopone, Hölderlin, Rilke, Rebora, Auden), di mistici, teologi e padri della Chiesa (Origene, Efrem il Siro, Meister Eckhart, Böhme, Silesius, von Balthasar, Florenskij), e soprattutto in un percorso commosso, addirittura ispirato, che illustra alcune fondamentali opere d’arte, là dove “l’icona eccede la parola”. La vita di colei che appena adolescente accettò di Generare Dio, in uno svuotamento kenotico di sé che si riempie dell’Altro, è scandita nei tre momenti basici dell’attesa, della cura, del patire. Ecco quindi una Maria silenziosa e turbata, che nei Vangeli di Matteo e Luca riceve l’annuncio inaudito di “Gabriele, l’arcangelo in tutto il suo splendore”, raffigurata in maniera indelebile nell’Annunciazione di Simone Martini, mentre dubbiosa se “scegliere di concepire colui che l’ha scelta” sembra ritrarsi impaurita davanti al messo celeste che la guarda quasi innamorato, estasiato. La fanciulla ascolta, e medita, maturando Dio dentro di sé. Diversamente, ma con uguale potenza espressiva, la ritraggono Piero della Francesca e Beato Angelico nel momento irripetibile in cui, accettando, accoglie il fuoco e la spada che sarà Gesù, e per sempre diviene Madre.

«Lascia che l’ombra si spanda su di lei e in lei, come un fiato silenzioso e leggero… Essa entra in Maria come il silenzio nel discorso, come la pausa nel canto». E l’ombra si fa carne, diventa l’infante, il puer innocente e pauper che “è” Dio: sua madre lo tiene in braccio, tenerissima e presaga del dolore futuro, lo protegge misericordiosa, nell’immagine struggente di Andrea Mantegna che giustamente Cacciari ha scelto per la copertina (sfocata quella frontale, definita e coinvolgente quella sul retro, forse con un’allusione alla Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo). Madonne col Bambino in tutta l’arte medievale e rinascimentale dell’Occidente, e nelle icone bizantine, a suggellare nell’immaginario collettivo l’idea di una maternità protettiva, misericordiosa, clemente: anche se il figlio si fa altro, non viene più compreso, “è fuori”, come Gesù quando si allontana e non può essere trattenuto nemmeno da sua madre. Il volume riproduce due ritratti di Mantegna e due di Giovanni Bellini, esploranti in maniera differente il mistero della cura oblativa di chi ha generato. Infine, nei dipinti di Giovanni Bellini, Rogier van der Weyden e Masaccio, Maria sotto la croce si fa “prossima” al figlio, sorreggendolo nella sofferenza, pregando per lui e con lui, com-patendo, finché “trafitta” dalla sua morte lo depone sulle proprie ginocchia. «Esemplare immagine di pazienza… Costruzione assoluta, necessaria, di una monumentalità che contraddice ogni enfasi».

Lontano da qualsiasi devozionismo e sentimentalismo, Massimo Cacciari restituisce al lettore un’immagine della Madonna intesa anche come “figura sacerdotale-sapienziale”, in un’esegesi filosofica che potrà forse infastidire alcune interpretazioni clericali ortodosse, altre materialiste, altre ancora visceralmente femministe. Gli ultimi tre capitoli del suo saggio commentano i Vangeli apocrifi, la gnosi e l’iconografia orientale,  privilegianti una donna «pneûma, sostanza spirituale… eleva[ta] spiritualmente oltre ogni differenza, lacerazione o molteplicità», in una rinuncia al corpo e alla sessualità che oltrepassa la divisione maschio-femmina, e ambisce tornare all’Uno originario, fuori dal tempo: «Essere perfettamente vergini come vergine, integro è l’Uno». La natività, la passione, la resurrezione diventano qui «un momento del grande mito cosmogonico volto alla reintegrazione dell’unità del pleroma». Quanto la gnosi smaterializza, tanto l’Occidente esprime «la realtà dell’incarnazione del Logos, nella molteplicità dei suoi momenti, dei suoi volti, delle sue sofferenze». Ma entrambe le rappresentazioni della figura mariana convergono nell’affermazione della sua “sovra-naturalità”, radice di tutta la creazione perché in essa si incarna il Logos.

La ricchezza con cui la pittura universale raffigura la Madonna, manifesta quanto complessa sia la simbologia alla quale fa riferimento: figlia, madre, sposa e sorella, mediatrice tra l’umano e il divino, tra relativo e Assoluto, Maria accogliendo nel suo grembo Gesù-Dio ha coniugato in sé e per noi eterno e presente, inizio-fine-e ancora inizio.

 

© Riproduzione riservata            

www.sololibri.net/Generare-Dio-Massimo-Cacciari.html   novembre 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CADIOLI

ALBERTO CADIOLI, LA RICEZIONE – LATERZA, BARI 1998

In questo piccolo volume, supportato da una densissima bibliografia, Alberto Cadioli analizza “il posto che occupa la ricezione nel processo di comunicazione”: essa è “il punto d’arrivo del processo – più o meno lineare – seguito da un messaggio dopo essere stato emesso”. Ogni emittente affida infatti al suo messaggio la funzione di raggiungere un destinatario, e quindi anche su quest’ultimo è necessario che si concentri la critica letteraria. Per ciò che riguarda la letteratura, davanti ad ogni opera in prosa o in versi, ci si trova di fronte a tre elementi costitutivi: la scrittura e chi scrive, il testo nella sua autonomia una volta pubblicato, e la lettura, ovvero la ricezione del testo stesso. Cadioli in questo saggio si concentra appunto sulla destinazione del testo, delineando una breve storia della critica della ricezione così come si è venuta delineando nell’ultimo scorcio del novecento. Tra i precursori di queste indagini, più storico-sociologiche che estetico-ermeneutiche, individua Walter Banjamin, Eric Auerbach, Jean-Paul Sartre e Paul Ricoeur. Ma indicando poi i nomi che, a partire dagli anni ’60, con più originalità si sono occupati sia degli aspetti produttivi e distributivi del libro, sia del suo consumo da parte del pubblico: Roberto Escarpit, Hans Robert Jauss, Wolfgang Iser. Di ciascuno di loro analizza i contributi di pensiero che hanno arricchito di nuovi significati l’interpretazione letteraria: dallo studio del mercato editoriale alla differenziazione delle varie tipologie di lettori, dall’attitudine al tradimento del testo all’orizzonte di attesa in cui esso si colloca, fino alla trasformazione della realtà e alla creazione di un nuovo immaginario prodotto dalla lettura. Il libro non è quindi “un oggetto stabilizzato sulla base di caratteristiche immodificabili”, ma si definisce come “risultato del processo di integrazione tra il testo e il lettore”.

IBS, 30 maggio 2014