Mostra: 431 - 440 of 1.354 RISULTATI
RECENSIONI

DIANESE, BETTIN

MAURIZIO DIANESE, GIANFRANCO BETTIN – LA TIGRE E I GELIDI MOSTRI

FELTRINELLI, MILANO

 

“Strategia della tensione” fu la definizione coniata dal quotidiano inglese The Guardian subito dopo la strage di Piazza Fontana, per indicare il processo destabilizzante in atto in Italia negli anni tra il ’60 e l’80, anni contraddistinti da lotte sociali particolarmente combattive, e contrastate con forza dai governi dell’epoca, appoggiati da apparati chiave della nazione (magistratura, forze armate, forze dell’ordine, intelligence). Lo scorso 9 maggio, nella Giornata della Memoria delle vittime del terrorismo, il Presidente Sergio Mattarella ha affermato che le stragi di quel periodo sono state effettuate “con la complicità di uomini da cui lo Stato e i cittadini avrebbero dovuto ricevere difesa”, attraverso “gravi deviazioni compiute da elementi dello Stato, e per le quali avvertiamo ancora l’esigenza, pressante, di conoscere la piena verità”.

Il 20 giugno del 1980, pochi giorni prima di essere assassinato dai Nar a Roma mentre indagava sull’eversione nera, il sostituto procuratore Mario Amato aveva dichiarato di stare per giungere “alla visione di una verità d’insieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori materiali degli attacchi criminali”. Il volume di Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin, La tigre e i gelidi mostri, appena pubblicato da Feltrinelli, si propone di mettere in luce quale fosse la “verità d’insieme”, l’oscuro ordito alla base di tale disegno sovvertitore, presentando materiali originali, nomi inediti di stragisti, e riflessioni sulle sentenze giuridiche emesse in interminabili, macchinosi e discutibili processi.

Il titolo scelto dagli autori per il loro libro esige una spiegazione. Nietzsche nello Zarathustra chiamava lo Stato “il più gelido dei mostri”, nella sua funzione autoritaria e repressiva di contenimento del dissenso. “La tigre” è una metafora riferita al grande cambiamento democratico che ha investito l’Italia nei decenni presi in considerazione, in cui una profonda trasformazione socioeconomica e culturale incoraggiava l’affermazione di atteggiamenti, ideologie e sensibilità radicalmente innovative e capaci di autodeterminazione, indipendenti dai modelli tradizionali. Tale evoluzione era stata prodotta da diverse cause: lo sviluppo industriale, la mobilità interna, la scolarizzazione di massa, i nuovi media, la crescita del reddito e dei consumi, i ruoli inediti interpretati dalle donne e dagli studenti, il diffondersi di teorie e prassi filosofiche e scientifiche come la psicanalisi e il femminismo. La minaccia rappresentata da questo movimento rinnovatore (the silent revolution) spaventava l’establishment politico, culturale, economico e industriale: secondo un detto sapienziale dell’Estremo Oriente, bisogna cavalcare la tigre per domarla, dirigerla e possibilmente renderla innocua.

Un piano di restaurazione era già in atto dalla fine del secondo conflitto mondiale, durante la Guerra fredda (1947-1991), programmato da settori cruciali dell’amministrazione degli Stati Uniti, presenti sul territorio italiano con basi militari proprie e della Nato, appoggiati da servizi e strutture militari e da gangli di potere occulti (come la Loggia massonica P2), da diversi settori dell’economia e dell’impresa, da aree della criminalità organizzata, di gruppi neofascisti (soprattutto Ordine nuovo, Avanguardia nazionale, Fronte nazionale e Nuclei armati rivoluzionari)    e di agenzie terroristiche internazionali come l’Aginter Presse. Tali settori pianificarono di  usare la tensione e i traumi provocati dagli attentati per condizionare in senso moderato e “centrista” una situazione che avrebbe potuto sfociare verso la proclamazione dello stato d’emergenza, con la sospensione della Costituzione o l’attuazione di un colpo di Stato, come in Grecia nel 1967 e in Cile nel 1973, mentre erano ancora in piedi le storiche dittature franchista in Spagna e salazariana in Portogallo, e si moltiplicavano i regimi militari in America Latina e altrove.

Carlo Feltrinelli afferma nell’introduzione al libro: “In Italia hanno agito, con il supporto di settori cruciali dello Stato, militanti e organizzazioni neofasciste che non solo praticavano azioni criminali e violente, ma concepivano la strage indiscriminata come forma di lotta politica e di condizionamento emotivo del paese”.

Infatti, agivano ancora in Italia molte figure compromesse col regime fascista e con la Repubblica di Salò, con l’intento di “destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’ordine politico”.  II I maggio 1947 in Sicilia l’eccidio politico-mafioso di Portella della Ginestra, attuato dalla banda di Salvatore Giuliano al servizio dei proprietari terrieri, aveva provocato 11 morti e 47 feriti.

Su questo sfondo complesso e ambiguo si muovevano gli attori delle vicende raccontate da Dianese e Bettin, in una narrazione che pur utilizzando gli strumenti dell’analisi storica e dell’inchiesta sul campo, presenta anche la struttura e la vivacità del romanzo d’azione.

I tre episodi drammatici dello stragismo in Italia (Piazza Fontana a Milano nel 1969, Piazza della Loggia a Brescia nel 1974, Stazione di Bologna nel 1980) vengono riscostruiti puntualmente indagando nel retroterra ideologico degli attentatori, nell’ideazione e nella programmazione dei crimini terroristici, nell’individuazione di protagonisti e comprimari, nel rifornimento di armi ed esplosivi, attraverso un minuzioso resoconto di date, orari, incontri clandestini, testimonianze, registrazioni di verbali e interrogatori, e lo studio circostanziato di prove processuali e finanziarie , oltre a una “montagna di documenti, contributi storiografici, analisi storico-politiche”. Soprattutto ci si sofferma sullo scandaloso susseguirsi di depistaggi, insabbiamenti, occultamento di prove, suicidi e trasferimenti di appartenenti alle forze dell’ordine, citando nomi e ruoli dei responsabili e delle vittime delle falsificazioni e delle censure che hanno accompagnato vent’anni di attività sovversiva in Italia. Gran parte di questa documentazione è stata resa nota nella serie infinita di processi, inchieste giornalistiche, indagini della magistratura, cui si sono accompagnate spesso congetture velleitarie e interpretazioni pregiudiziali, nell’immaginario collettivo stimolato da un’incontrollata emotività e da suggestioni artistiche.

Il merito di questo nuovo volume di Dianese e Bettin, che già nel 1999 e nel 2019 avevano firmato insieme due pubblicazioni su Piazza Fontana, è quello di aver individuato e pubblicato i nomi degli esecutori materiali degli eccidi di Milano e Brescia, cresciuti fisicamente e ideologicamente negli ambienti fascisti veneti e lombardi. Di Verona, città con comprovate tradizioni reazionarie sia in campo politico sia in quello religioso, era Claudio Bizzari, militante di Ordine Nuovo, figlio di un funzionario di banca ex-repubblichino. Più volte indagato e denunciato per atti dinamitardi e diffusione di stampa sovversiva, con una formazione militare tra i paracadutisti del corpo degli alpini,

Bizzari avrebbe posizionato la bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, che provocò 17 morti e 88 feriti.

A Brescia invece l’indagine ruota intorno alla figura del ventunenne Silvio Ferrari, attivo militante neofascista nella sua città, saltato in aria dieci giorni prima dell’attentato del 28 maggio 1974 in Piazza della Loggia, mentre trasportava di notte sullo scooter un ordigno ad accensione programmata composto da un chilo di tritolo e nitrato di ammonio, destinato a esplodere contro l’agenzia pubblicitaria del “Corriere della Sera”. Se in un primo momento si era pensato a un incidente provocato dall’imperizia del ragazzo, nel corso degli anni si fece strada l’ipotesi (suffragata da numerose testimonianze e fotografie, in particolare della sua fidanzata Ombretta Giacomazzi) che la sua morte fosse stata stabilita dai suoi stessi camerati di Ordine nuovo, insieme a due ufficiali dell’esercito italiano con delicati incarichi istituzionali e a due ufficiali americani, come punizione per aver visto e parlato troppo. Il volume di Dianese e Bettin riporta nomi e cognomi di tutte le persone coinvolte sia nelle riunioni complottiste sia nelle indagini, spesso lacunose o fuorvianti. Quegli anni foschi restituiscono figure di ragazzi “che non si sottraevano all’idea di commettere una strage per odio politico e fanatismo ideologico e per venale interesse, di soldi e ruoli da acquisire nella struttura di potere occulta che li aveva ingaggiati. Ancor più…  sbalzano di fronte a noi l’infedeltà alla Repubblica e alle sue leggi, a cominciare dalla Costituzione, di uomini dello Stato disposti a tutto, anch’essi per tramare e interpretare il potere come arbitrio, per preparare una piena e palese assunzione di dominio”.

Dopo la morte di Silvio Ferrari, il 28 maggio in Piazza della Loggia venne fatta deflagrare una bomba durante una manifestazione sindacale indetta “contro l’aggressività criminale del neofascismo”: gli otto morti e un centinaio di feriti attendono ancora giustizia, dopo sei processi, di cui uno tuttora in corso.

Il clima politico italiano era all’epoca incandescente, non solo per l’avanzata elettorale del Movimento Sociale a cui si contrapponeva l’esito positivo del referendum sul divorzio, ma anche per l’intensificarsi di attentati, a cui l’Italia democratica tentava di rispondere sia in Parlamento (il Presidente della DC Arnaldo Forlani in un discorso del 72 a La Spezia aveva denunciato la pericolosità dell’offensiva reazionaria), sia per la coraggiosa attività di alcuni magistrati, come Vittorio Occorsio che aveva messo fuori legge Ordine Nuovo, e dopo di lui Mario Amato, entrambi uccisi dai neofascisti.

Sei anni dopo i tragici eventi di Brescia, fu Bologna ad assurgere a teatro di un’altra strage, la più efferata nella storia del nostro Paese, ancora una volta realizzata “non solo con l’attiva complicità e la copertura, ma con la condivisa pianificazione da parte di organi e apparati vitali dello Stato”.

85 morti, 200 feriti e una serie di processi da cui ancora non è scaturita la verità definitiva: sono stati condannati gli esecutori dell’attentato (Fioravanti, Mambro, Cavallini, Ciavardini, Bellini), tutti gravitanti nell’area di estrema destra, che dopo lo scioglimento di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale (nel 1973 e nel 1976), si era riorganizzata a livello nazionale, trovando sempre nel Veneto un ricettacolo operativo e ideologico di rilievo. Dianese e Bettin ipotizzano una collaborazione attiva da parte del veneziano Gianpietro Montavoci, esperto di esplosivi, reclutato come informatore dai servizi segreti con il nome in codice di Mambo, uomo di fiducia del leader triveneto Maggi (condannato in via definitiva per la strage di Brescia e dentro tutte le trame dell’epoca). Varie sentenze processuali avevano poi indicato in Licio Gelli, l’ex Gran maestro della Loggia massonica P2, il mandante della strage con la collaborazione di Federico Umberto D’Amato, ex capo dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, e di Mario Tedeschi, ex senatore del Msi ed ex direttore del settimanale “Il Borghese”. Precedentemente erano stati condannati per depistaggio delle indagini lo stesso Licio Gelli, il collaboratore del Sismi Francesco Pazienza, gli ufficiali del Sismi Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. La Procura generale ha poi ricostruito i flussi di denaro utilizzati per finanziare la strage, distratti da Gelli da conti del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (circa dieci milioni di dollari).

L’ attività criminosa della P2, insieme alla penetrazione gelliana nella finanza, nelle banche e nell’editoria, con l’asservimento del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, è riconducibile ai piani atlantici di prevenzione dell’espansione del comunismo in Europa, con l’impiego della controguerriglia psicologica che prevedeva anche il ricorso a stragi e pro vocazioni nelle varie forme delineate dall’operazione Chaos. Tale operazione era stata programmata dalla Cia e sviluppata nel 1967 su impulso del presidente Johnson per disorientare i movimenti degli anni 60 e 70 e le sinistre in tutto il mondo.

Malgrado queste cospirazioni internazionali e tutto il sangue innocente sparso, “il riformismo italiano ha prodotto frutti importanti: lo Statuto dei lavoratori, il Servizio sanitario nazionale, la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, la riforma psichiatrica, l’obiezione di coscienza e il superamento del servizio militare obbligatorio, l’allargamento generale della sfera dei diritti e della partecipazione politica”. Di fronte all’avanzare delle destre e del sovranismo in Italia e nel mondo, “bisogna, di nuovo, cavalcare insieme alla tigre”, opponendosi al ritorno delle ombre oscure e feroci che hanno dilaniato la storia del secolo scorso e minacciano il progresso civile di quello attuale.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 10 dicembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

nato,

RECENSIONI

DICKINSON

EMILY DICKINSON, UN VULCANO SILENZIOSO, LA VITA – L’ORMA, ROMA 2013

In una raffinata e originale veste tipografica, l’editore romano L’Orma propone a un prezzo assai conveniente dei libriccini di autori classici, contenuti in una sovraccoperta trasformabile in busta pronta ad essere affrancata e spedita. Idee regalo, quindi, preziose e molto curate. Come questa scelta di lettere di Emily Dickinson, tradotte e commentate con intelligente e delicata empatia da Marco Federici Solari. L’antologia è divisa in tre parti: la prima raccoglie brani epistolari degli anni giovanili della poetessa – vissuti con un’intensità quasi viscerale di affetti per l’amica del cuore Susan, per i fratelli e i cugini, per il mondo vegetale e animale -, che smentiscono decisamente il clichè tramandatoci da tanta critica di una Emily solitaria e scontrosa, sottolineando invece il suo ironico anticonformismo e la sua indipendenza dalle tradizioni borghesi e puritane dell’ ambiente in cui visse. La seconda sezione riporta tre coinvolgenti missive rivolte a un misterioso Maestro, sulla cui identità mai si è riusciti a fare definitiva chiarezza: scritte dalla poetessa trentenne, evidenziano toni appassionati e talvolta addirittura deliranti, in una sorta di estasi misticheggiante dai tratti quasi masochistici: «Maestro – spalancami la tua vita, e accoglimi per sempre, non ne sarò mai stanca – non farò rumore quando tu vorrai il silenzio. Sarò la tua brava bambina…», raggiungendo la stessa altezza evocativa delle sue poesie migliori. Nella terza sezione sono raccolte testimonianze della ‘improbabile’ ma lacerante passione che colse Emily quasi cinquantenne per il giudice Otis Phillips Lord («Austero come il Profilo di un Albero contro un cielo invernale»): lettere animate sia da timide strategie seduttive sia da un erotismo più esplicito e confidenziale. «L’esultanza mi inonda. Non trovo più argine – il ruscello diviene Mare – al pensiero di te», fino alla sconsolata e misteriosa frase conclusiva: «Ti perdono».

«Leggere Donna» n. 163, aprile 2014

RECENSIONI

DICKINSON

EMILY DICKINSON, IL GIARDINO DELLA MENTE – LA VITA FELICE, MILANO 2017

Nell’empatica introduzione al volume, il curatore Silvio Raffo definisce Emily Dickinson «la più pura vestale della lirica metafisica d’Occidente», e insistendo sull’«esercizio ascetico», sull’«attitudine alla contemplazione, all’interiorità dello sguardo» della poetessa di Amherst, propone una scelta di versi focalizzati sull’illuminazione estatica, sul superamento del dato empirico nella visione di una verità trascendente e atemporale: «la gioia di sfiorire – / è per me sufficiente – / sfiorire io – svanire nel Divino / e morire per tutta la vita // fin dove l’occhio giunga – / anche avendo soltanto / l’infima sua attenzione».

Un’estrema umiltà, in Emily, che a trent’anni si recluse volontariamente nella propria stanza, vestendosi solo di bianco e limitando i propri rapporti sociali alla famiglia e a una fitta corrispondenza epistolare con pochi amici: l’umiltà di chi si sa creatura mortale, effimera, transitoria nella sua fisicità: «Fu la mia sola gloria – / lascia che / sia ricordata: / io appartenni a Te», «Ho paura di possedere un corpo – / ho paura di possedere un’anima – / profonda ma precaria proprietà, / possesso non richiesto», «Indifferente sono a ogni tortura – / la mia anima è libera. / Dietro questa mortale trama d’ossa / un’altra vi s’intreccia ben più forte». La stessa modestia che la convinse a tenere chiuse nel cassetto 1775 poesie, pubblicate solo dopo la sua morte dalla sorella Lavinia: una discrezione consapevole tuttavia della propria irriducibile unicità, dignità e forza: «Ostacolarmi non può la montagna – / non il mare – / Chi è il Baltico? – / Chi Cordillera?».

Alla ricchissima sensibilità interiore corrispose sempre in Emily Dickinson una «singolare capacità visiva… un’attenzione dello sguardo» rivolto non tanto alle persone e alle loro trascurabili vicende umane, quanto al paesaggio naturale, all’avvicendarsi delle stagioni, ai fiori e ai piccoli animali, messaggeri di bellezza e di gratuità felicità: «Ho un uccellino in Primavera / che per me sola canta», «Questa piccola rosa nessuno la conosce. / Potrebbe essere una pellegrina / se non l’avessi tolta ai suoi sentieri / e serbata per te», «Quanti fiori appassiscono nel bosco / e rovinano giù dalla collina / senza la grande gioia di sapere / che sono belli –», «L’Aria non ha dimora, né vicini / non orecchie, né porta / non timore d’estranei – / Aria felice!», «I graziosi inquilini dei boschi / da amica mi ricevono. // Più forte ridono i ruscelli quando arrivo – / più sbarazzine giocano le brezze; / perché il tuo argento mi annebbia la vista, / perché, giorno d’estate?».

Degli esseri umani sembrava interessarle soprattutto il momento del trapasso, la pace raggiunta nell’ immobilità eterna della morte, il transumanarsi in una spiritualità libera da ancoraggi terrestri: così dedicò splendidi versi al sonno «lieve e profondo» di una piccola compagna di scuola, e a una  «massaia indolente» che giaceva immobile tra le margherite. Addirittura descrisse sé stessa nel dopo, in una premonizione del misterioso passaggio all’Infinità, sicura che «l’orrendo chiodo» non sarebbe stato per sempre e che «C’è un altro cielo, / sempre limpido e bello, / e c’è un altro rilucere di sole, / anche se è fitta, lì, l’oscurità»

 

«CriticaLetteraria», 10 giugno 2017

RECENSIONI

DICKINSON

EMILY DICKINSON, GRAPPLING WITH GOD – FACCIA A FACCIA CON DIO

STAMPA ALTERNATIVA, ROMA 2011

 

Emily Dickinson (Massachusetts, 1830-1886), la più famosa poetessa americana dell’800, scrisse 1775 poesie, pubblicate nella quasi totalità dopo la sua morte. Questa scelta di 35 brevi componimenti, perlopiù in quartine, è circoscritta all’argomentazione religiosa, ma da un punto di vista particolare. Non sono versi che esprimano devozione, lode, ringraziamento o preghiera: piuttosto prevale in essi uno spirito di contestazione, di confronto animoso e polemico, talvolta addirittura di ribellione, nei riguardi dell’Essere Supremo, avvertito come impositivo, o indifferente, o crudele.

Emily si misura qui, in modo lucido e trasgressivo, con l’interlocutore privilegiato della sua esistenza, vissuta in una sorta di clausura nella casa paterna, frequentando solo pochi parenti e rari amici, il Pastore e un amico segreto con cui intratteneva un’intensa corrispondenza. Il suo dialogo con il Signore è svolto alla pari, faccia a faccia, e in maniera ardita e animosa, nel rifiuto della propria piccolezza e inessenzialità di creatura mortale, e reclamando invece la dignità che sente appartenerle. Nessun timore reverenziale, pertanto, nei confronti di Dio, anzi, c’è una sfida e una richiesta continua di spiegazioni, di giustificazioni.

Nella sua interessante introduzione, Roberto Asnicar afferma: «In fondo, di questo è insaporita la storia degli uomini: di eretici, dissidenti e martiri, gente isolata e folle, che da una parte o dall’altra, abbagliati dall’umana ragione o dall’amore di Dio, non temono di darsi alla graticola». Troviamo nei versi religiosi della Dickinson sia l’orgogliosa accettazione del dolore fisico e morale: («Imparerò a convivere con la miseria / poiché è tuo dono»), sia la richiesta di avere più tempo da vivere («Signore, ci sono certi disgraziati / che esulterebbero per morire. / Perché non prendi loro / e lasci a me un’altra ora?»), o la protesta vibrante: («Ma tu ladro! Banchiere – Padre! mi lasci povera di nuovo»). Il tono feroce di molte accuse rivolte a Dio ricorda quello dei Salmi, quando arrivano all’imprecazione altera, quasi alla bestemmia: «Dio del Cielo – / riprenditi le ingiustizie / create dalle tue mani innocenti / in un momento oscuro – / Fidare di noi stessi – / ci sembra più saggio – / “siamo polvere” – / Ti chiediamo perdono / per la tua doppiezza ‒», «Dio è certamente geloso – / non sopporterebbe di vedere / che giochiamo tra di noi / piuttosto che con lui».

Per sottolineare la fragilità che rende gli uomini vittime di un potere spietato, la poetessa usa frequentemente il sarcasmo: «Per favore Dio, perdonaci! / Per cosa? Speriamo tu lo sappia – / noi ignoriamo il nostro crimine – / Rinchiusi nella magica prigione della vita / rimproveriamo la felicità / relegata al solo paradiso», «Certo che ho pregato – / ma a Dio è importato quanto / l’impronta di piume nell’aria / che grida ‘dimmi’». Il suo rimprovero a una divinità sorda e imperturbabile, che si nega e nasconde, è fermo e deciso: eppure la passione della fede la induce a pronunciare parole intense e infuocate come quelle delle mistiche medievali: «È stata la mia sola gloria – / lascia che sia ricordata: / io sono stata tua‒».

L’America ottocentesca, reazionaria e farisaica, certo non avrebbe mai capito e accettato questa donna minuta e caparbia, solitaria e cagionevole, che usava come un’arma i suoi versi per ribellarsi alle costrizioni che le venivano imposte dal suo ruolo femminile e domestico. Perciò Emily scelse consapevolmente e fieramente il silenzio e la solitudine per tutta la sua breve vita. Il curatore Roberto Asnicar nel suo commento conclude: «Esile creatura che un refolo può abbattere, volle tuttavia appigliarsi alle pareti dell’abisso, volle arrampicarsi per provare che non c’è un solo modo di credere, che è religioso anche quello spirito che si abbandona alla vertigine del vuoto. Emily lo volle e lo sperimentò nella forma inaudita del confronto – acuminato, diretto e mai blasfemo – con Dio. L’Immenso Nulla.

 

© Riproduzione riservata      7 novembre 2019

https://www.sololibri.net/Grappling-with-God-Faccia-a-facciaconDio– Dickinson.html

 

 

RECENSIONI

DIDI-HUBERMAN

GEORGE DIDI-HUBERMAN, SU GIUSEPPE PENONE – MONDADORI ELECTA, MILANO 2008

Partendo dalla definizione di “cranio” come scatola che, al pari del vaso di Pandora “contiene tutte le inquietudini di un pensiero che si volge sul proprio destino, sui propri recessi, sul proprio luogo”, il famoso critico d’arte francese George Didi Huberman propone un excursus filosofico ed estetico, documentato iconograficamente, che indaga i lavori anatomici di Leonardo (la cui “curiosità scava instancabilmente e crea nel corpo umano una rete di pozzi, punti di vista, trincee per lo sguardo”) e le rigorose geometrie di Dürer, intese a rovesciare lo spazio attraverso procedimenti logici e narrativi (con uno splendido ritratto di San Gerolamo, che con una mano si regge la testa e con l’altra sfiora un teschio, metafora di vita e morte, rapporto tra cranio e calvario…). Per arrivare a esplorare i “luoghi” della scultura di Giuseppe Penone, anche attraverso le interessanti e poetiche dichiarazioni dell’artista sul suo lavoro. Un “scultura sculpens”, la sua, che “pone la questione del suo dispiegamento come del proprio stato nascente”: realizzare una scultura è, per Penone, “fare uno scavo. È fare l’anamnesi del materiale in cui si affonda la mano: ciò che la mano toglie dal materiale non è altro che una forma presente dove si sono ammassati, inscritti, tutti i tempi del luogo particolare di cui il materiale è fatto, da cui trae il proprio stato nascente. Per lo scultore, dunque la memoria è una qualità propria del materiale stesso: la materia è memoria”.  Penone secondo Didi Huberman sviluppa sculturalmente le immagini dello scavo, della profondità, dell’interiorità: “tocca il pensiero”. “Scolpire, secondo Penone, è seguire il sentiero perduto, rinunciare alle forme prevedibili, ritrovare un progredire nell’incertezza del materiale informe.” E il critico segue affascinato le tracce dell’artista, pedinandolo, interpretandolo con finezza e entusiasmo.

IBS, 25 aprile 2012

RECENSIONI

DIVRY

DIVRY SOPHIE, LA CUSTODE DI LIBRI – EINAUDI, TORINO 2012

Il monologo che la trentenne scrittrice lionese Sophie Divry mette sulle labbra della protagonista del suo romanzo parte in sordina, un po’ rampognoso un po’ sentimental-confidenziale, per alzare il tono e gli obbiettivi di polemica man mano che si procede nella lettura. La voce che si confessa in queste pagine è quella di una matura signora che da venticinque anni cataloga libri nel reparto destinato ai testi geografici della biblioteca pubblica di una città di provincia, con devozione al suo lavoro ripetitivo, metodico, quasi rassegnato: «catalogare, riordinare, non disturbare, è tutta la mia vita». Lo scantinato in cui lavora diventa un osservatorio privilegiato per commentare sia le abitudini di chi frequenta le sale di lettura, sia i modelli e i limiti culturali del pubblico e dell’editoria, sia i rapporti umani e professionali di chi lavora all’interno dell’edificio. Lettrice onnivora ma scaltrita e dai gusti raffinatissimi, esprime giudizi taglienti e controcorrente sia sulla storia e sulla letteratura francese, sia sul progressivo imbarbarimento di quello che dovrebbe rappresentare per la comunità l’amore per il sapere.

«Mi sento la linea Maginot della lettura pubblica…. Di tutti quei libri che ti saltano addosso a centinaia, il novantanove per cento serve solo ad avvolgerci le sardine. Per le biblioteche sono una calamità. I peggiori sono i libri espresso, quelli d’attualità: ordinati, scritti, stampati, presentati in televisione, comprati, ritirati e mandati al macero in men che non si dica. Di fianco al prezzo, gli editori dovrebbero mettere anche la data di scadenza…».

Un volumetto piacevole, disincantato e amaro, che potrà essere apprezzato soprattutto da chi ama la lettura e i silenzi delle biblioteche pubbliche.

 

«Leggere Donna» n.159, marzo 2013

RECENSIONI

DODA

IRENE DODA, L’UTOPIA DEI MILIARDARI. ANALISI E CRITICA DEL LUNGOTERMISMO

TLON, ROMA 2024

In un’ottantina di pagine, Irene Doda analizza criticamente e con verve polemica la corrente di pensiero del lungotermismo, inaugurando la nuova collana Urano delle edizioni Tlon con il volume L’utopia dei miliardari, saggio che si situa tra l’inchiesta sociologica, l’analisi politica e la filosofia etica. L’autrice, giornalista trentenne, si occupa di tematiche legate al lavoro e alla tecnologia, esplorando le tesi che forniscono giustificazione ideologica alle teorie produttivistiche dei giganti del tech mondiale. Pur affrontando argomenti complessi, la sua prosa si mantiene costantemente e lucidamente accattivante e vivace, soprattutto nelle frequenti digressioni ed esemplificazioni con cui accompagna dati più aridamente impegnativi.

Già nell’introduzione, ironicamente intitolata Apocalisse in SLOW MOTION, la presentazione del mondo contemporaneo in collasso fisico e mentale appare pungente e allarmata, nell’elenco dei disastri accumulatisi durante l’ultimo secolo, e nella presentazione delle finalità del suo libro: “Questo breve testo ha come protagonisti gli autoproclamati creatori del futuro: professori di Oxford, miliardari della Silicon Valley, ideologi e guru degli ultraricchi. Mentre il resto del mondo arranca, tra il clima impazzito e la povertà, le elezioni e i colpi di Stato, le epidemie e le diseguaglianze che crescono, questo piccolo e agguerrito gruppo di potenti sostiene di avere in tasca le soluzioni, addirittura scientifiche, ai dilemmi esistenziali dell’umanità”.

I nuovi insaziabili padroni del mondo, animati da delirio di onnipotenza, propugnano un’ottimistica filosofia che sta conquistando le grandi fondazioni filantropiche, le aziende multinazionali, le istituzioni politiche, con la promessa di un futuro prospero e felice di cui l’umanità godrà tra millenni, in una florida civiltà multiplanetaria per ora solo immaginata. Questa ideologia è stata chiamata “lungotermismo” proprio a causa della sua procrastinazione molto lontana nel tempo, che non mette in discussione le attuali strutture del capitalismo, del consumo, dei cicli di produzione. Nonostante l’approccio si presenti come scientifico, esso ha in realtà una forte impronta fideistica, e presenta molti elementi simil-religiosi vicini al fanatismo, nella sua illimitata fiducia in una salvezza dall’estinzione per la specie umana, che al contrario ne garantisca l’espansione e uno stato di benessere totale, sotto la guida di pochi spiriti eletti.

Il saggio di Irene Doda è strutturato in tre capitoli, il primo dei quali analizza le origini filosofiche del lungotermismo e il profilo dei suoi fondatori e sostenitori, il secondo ne approfondisce le contraddizioni e i rischi di applicazione pratica, e il terzo esamina le possibilità di una politica alternativa alla sua visione millenaristica. Nato e diffusosi in ambienti anglosassoni attraverso l‘opera del giovane accademico scozzese William MacAskill, deriva concettualmente dalla lezione dell’altruismo efficace (a sua volta ispirato alla filosofia settecentesca dell’utilitarismo).

Secondo MacAskill, lo stato attuale della vita dei sette miliardi di abitanti della terra è meno importante della realizzazione del potenziale umano nei millenni che verranno, pertanto è necessario impegnarsi per assicurare alle generazioni future una sopravvivenza il più possibile positiva, anche se si dovessero affrontare rischi minacciosi per il presente. Nell’ipotesi di una colonizzazione futura della nostra e di altre galassie, il numero in potenza degli abitanti potrebbe essere di miliardi e miliardi di “persone”, molto diverse da quelle oggi esistenti, digitali anziché biologiche, programmate per costruire comunità stabili e sagge, capaci di reagire a eventi distruttivi, naturali o politici, massimizzando la quantità totale di “valore” nell’Universo.

Non ci troviamo davanti a ipotesi fantascientifiche ideate su internet da gruppetti di cervellotici nerd, ma a vere proprie organizzazioni come il Future of Humanity Institute, il Global Priorities Institute e il Future of Life Institute creato da Elon Musk, che stanno raccogliendo proseliti tra filosofi, scienziati, informatici, finanzieri, appoggiati da ricercatori della prestigiosa Università di Oxford. Irene Doda elenca dettagliatamente i nomi delle Fondazioni che finanziano gli studi sul lungotermismo (Effective Ventures, Open Philanthropy, GiveWell, Good Venture), dei plutocrati che ne sono a capo e dei teorici che l’appoggiano (William MacAskill, Toby Ord, Hillary Greaves, Dustin Moskovitz…). Si tratta di personalità di rilievo delle università d’élite americane e britanniche, del mondo della Silicon Valley, delle grandi banche, che rivestono ruoli decisivi nelle organizzazioni politiche ed economiche internazionali.

Come il neoliberismo ha trasformato l’economia mondiale negli ultimi decenni, promuovendo le privatizzazioni, smantellando il welfare, e riducendo gli spazi democratici, così il lungotermismo inaugura una nuova, silenziosa rivoluzione ideologica, e un’operazione culturale appoggiata da imponenti flussi di denaro, in grado di infiltrarsi nei gangli del potere internazionale.

La prima evidente falla di una tale impostazione di pensiero è che nessun organismo politico o scientifico potrà mai prevedere il complesso sviluppo di un universo interconnesso, gli eventuali sconvolgimenti cosmici, le difficoltà materiali di una colonizzazione di pianeti extraterrestri, gli imprevedibili scontri con civiltà aliene, né tantomeno le scelte etiche di singoli individui che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza di intere nazioni: un qualunque evento casuale può portare a conseguenze imponderabili e deleterie. Se è già difficile progettare soluzioni in orizzonti di tempo limitati, sembra illusorio proiettarle in ere millenarie come quelle prospettate dal lungotermismo. Oltretutto, esso ha un rapporto ambiguo con la tecnologia, che viene a volte demonizzata (si consideri l’ostilità di Musk verso l’IA) e altre volte esaltata come unica possibilità di salvare il genere umano dalla fine, soprattutto se estremizzata secondo la più recente teoria dell’“accelerazionismo effettivo”, conosciuto anche con la sigla di e/acc, che propone uno sviluppo massiccio e sregolato dell’intelligenza artificiale. La principale ambiguità del lungotermismo riguarda infatti la dipendenza dai magnati dell’industria tecnologica, che ne finanziano generosamente ricerca e propaganda, appellandosi a un fantomatico bene superiore per giustificare qualsiasi misfatto compiuto nel presente attraverso l’inquinamento, il riscaldamento globale, la desertificazione, lo sfruttamento della forza lavoro. La filosofa Alice Crary così commenta: “Il lungotermismo ci chiede di salvaguardare il futuro dell’umanità, facendoci distogliere l’attenzione dalla miseria attuale e tralasciando di esaminare strutture socioeconomiche dannose”. L’impostazione filantropica assunta da molte multinazionali appare allora un alibi per non mettere in discussione le radici delle diseguaglianze. Esiste poi un’altra contraddizione tra l’impronta ecologica di Google, Amazon, Tesla e altri giganti tech, e i loro data center, che hanno un tasso molto elevato di emissioni di gas serra, quasi che la tanto proclamata lotta al cambiamento climatico sia una gigantesca opportunità di espansione del business e di acquisizione di nuovi brevetti tecnologici.

Un’ulteriore debolezza di questa ideologia e dei suoi adepti è la totale e deliberata ignoranza dell’alterità, delle differenze, delle possibilità e dei progetti che possono essere messi in campo per raggiungere molteplici futuri possibili. Nel loro esasperato antropocentrismo, i lungotermisti ignorano tutte le altre forme di vita animale e vegetale, i cui diritti vengono appiattiti sulle esigenze umane.

Secondo Irene Doda, per inventare un itinerario di resistenza agli universalismi che tendono all’assimilazione è essenziale costruire nuove relazioni tra esseri umani, alleanze multi-specie, connessioni con l’ambiente naturale, persino con le macchine. Bisogna accettare di vivere nell’incertezza, partendo anche dal caos attuale, consapevoli della relativa inadeguatezza e insignificanza dell’essere umano, che non è e non sarà mai onnipotente, ma può costruire percorsi alternativi di giustizia sociale, di solidarietà e progresso comune, qui e ora.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 25 gennaio 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DONA’

MASSIMO DONA’, L’ANGELO MUSICANTE – MIMESIS, MILANO 2014

Massimo Donà, professore di filosofia teoretica a Milano, dedica questo suo intenso e non facile saggio a Caravaggio, alla sua “ingovernabilità”, al “fondo abissale, nero e indecifrabile” dei suoi dipinti, e al “furore essenzialmente musicale” che anima il suo atto pittorico. In realtà parla di molto altro, indaga in profondità il pensiero filosofico ed estetico che si è occupato dagli albori del rapporto intercorrente tra arte e natura, tempo e spazio, luce e oscurità, immaginazione e storia. Prendendo spunto da alcuni quadri caravaggeschi (non solo i due più esplicitamente dedicati alla musica, Concerto di giovani e Suonatore di liuto), Donà contesta l’idea di una presenza della spazialità nella pittura dell’artista lombardo, che ama scontornare i suoi modelli da ogni sfondo concreto, “preferendo farli emergere… da un confuso abisso, da un’oscura origine”, salvaguardandone “l’originaria indeterminatezza” che “conduce all’essere il non-essere”. Così facendo “il teatro pittorico caravaggesco sarebbe riuscito a restituire i personaggi di volta in volta rappresentati alla straordinaria potenza evocativa necessariamente caratterizzante qualsiasi brandello d’eternità”. Una potenza evocativa che si esprime quindi non tanto nella descrizione realistica dell’ambientazione, ma nel suggerimento di un ritmo interno, assolutamente musicale, non legato a una significazione positiva: bensì allusivo a una possibilità “altra” dell’essere. E’ inevitabile a questo punto per Donà appellarsi all’autorità di Hegel, al suo affermare “l’essere che, mentre è, non è, e mentre non è, è”. Solo la musica, e l’arte pittorica che sa farsi musicale, è in grado di “liberare la cosa e la sua statica determinatezza”, dispiegando la sua “fondante infondatezza” ed esprimendo “l’immediatezza del tempo”. Se il significato rappresenta la permanenza, il rassicurante, ecco che l’arte di Caravaggio esprime la mancanza, il non essere più e il non essere ancora. L’immediatezza imprevedibile.

IBS, 18 ottobre 2014

RECENSIONI

DONINELLI

LUCA DONINELLI, UNA GRATITUDINE SENZA DEBITI – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2018

Cos’ha insegnato Giovanni Testori a Luca Doninelli? «Giovanni Testori mi ha insegnato a difendere, magari in un modo che può apparire talvolta irritante e scandaloso, la dignità di ogni singolo essere umano, sia pure il più turpe e indifendibile. Mi ha insegnato che un uomo comincia a essere “qualcuno” solo se ha avuto il coraggio di sperimentare e affrontare il niente che è. Mi ha insegnato ad amare e cercare sempre, nell’arte come nella vita, il segno della grazia. Infine, mi ha insegnato a fare tutto ciò non a modo suo, ma a modo mio».

Un’educazione morale, prima ancora che culturale, riscoperta attraverso il rapporto, gratuito e reciprocamente gratificante, instauratosi tra discepolo e maestro, come quello che poteva stabilirsi nella “paideia” degli antichi greci.La dichiarazione di intenti di questo libro viene esplicitata già nell’introduzione: «Io credo nei maestri, e credo che un mondo senza maestri sia un mondo assai poco desiderabile, un mondo più prevedibile, più mesto. Se accetta di sostituire la gratuità di un magistero con l’ingegneria sociale, con la biopolitica delle coscienze o con la robotizzazione generale, allora l’umanità merita di estinguersi».

Doninelli rende omaggio, dunque, in Una gratitudine senza debiti, non solo alla figura di Testori, autore teatrale, romanziere, poeta e critico d’arte, suo mentore letterario e maestro di vita e di fede, ma anche all’idea di guida interiore che sappia indicare il percorso da seguire, umilmente e autonomamente, per arrivare a costruirsi come persona e come scrittore. Chi ama e ammira Testori (1923-1993), in queste pagine avrà modo di situarlo negli snodi essenziali della sua esistenza e della sua produzione artistica, oltre che nel suo contributo civile durante gli anni tormentati vissuti dal nostro paese dal dopoguerra in poi.

Doninelli lo conobbe nel 1978, nel corso delle terribili giornate del sequestro di Aldo Moro. Era allora un ventiduenne «presuntuoso, con la testa piena di letteratura e di una passione di cui lui stesso ignorava la forza», affascinato parimenti da Kerouac e Landolfi, da Barthes, Pasolini e Don Giussani. Testori lo invitò nel suo studio di Via Brera («Luca Luca», salutandolo come in un battesimo), lesse i suoi racconti e gli pronosticò un futuro di scrittore e di sofferta inquietudine. Il Giovanni Testori con cui il giovane Doninelli si misurò era un uomo caratterizzato da «uno snobismo senza limiti», che prendeva il taxi per recarsi nell’amatissima Parigi, ma scoppiava a piangere davanti al dolore innocente di sconosciuti. Un cristiano che non rinnegava la propria omosessualità, ed esaltava il corpo e la carne «come luogo di salvezza e perdizione». Uno a cui piacevano i malati, i feriti, i segnati da qualche ombra. Un intellettuale che non si definiva tale, e combatteva il nichilismo di facciata dei salotti dell’intellighenzia italiana. Un maestro, soprattutto, generosissimo nel darsi ai giovani che gli chiedevano indicazioni e suggerimenti su letture, mostre, modalità di scrittura, e che venivano da lui esortati a lavorare severamente sul testo, studiando, confrontandosi con la realtà, ulcerandosi in essa.

Ecco quindi che l’uomo Giovanni confessava al suo «Luca Luca» anche i propri cedimenti e le perdite, lo strazio per la morte della madre, la depressione, la tentazione del suicidio, la conversione a un cattolicesimo che tutto accetta e tutto perdona. Insieme ai lati negativi che riconosceva in sé stesso: l’adesione al potere berlusconiano, la vanità, l’egocentrismo, un’infantile spietatezza. Pregi e difetti che ogni maestro e ogni discepolo sanno di non doversi nascondere, quando i ruoli, intrecciandosi, diventano vicendevolmente arricchenti.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/gratitudine-senza-debiti-Doninelli.html            26 marzo 2018

RECENSIONI

DONINELLI

LUCA DONINELLI, L’IMITAZIONE DI UNA FOGLIA CHE CADE – ABOCA EDIZIONI, SANSEPOLCRO 2020

L’azienda toscana Aboca, fondata nel 1978, si occupa di cura della salute creando e vendendo prodotti alimentari e cosmetici naturali, che rispettano l’organismo e l’ambiente. Promuove anche attività culturali, attraverso l’organizzazione di eventi, convegni, mostre, e la pubblicazione di libri: da poco ha inaugurato una collana di narrativa in cui autori italiani di successo (Abate, Parazzoli, Villalta…) pongono al centro del loro testo il rapporto con la natura e il mondo vegetale.

In questo spazio a indirizzo “ecologico” è da poco uscito L’imitazione di una foglia che cade, di Luca Doninelli, racconto di un centinaio di pagine, il cui protagonista è un maturo e affermato scrittore lombardo, Ugo, impegnato in una rivisitazione della propria vita, che lentamente si trasforma in un severo inventario di cedimenti intellettuali e ammorbidimenti morali.

Tornato single dopo la separazione dalla moglie e dai due figli, dedica il suo tempo non solo alla lettura e alla scrittura, ma anche a un’attenta e approfondita disamina di ogni accadimento, materiale o spirituale, si affacci a scalfire la sua quotidianità: dalle difficoltà di un trasloco, alla casuale caduta di un tomo dallo scaffale, a un qualsiasi incontro fortuito. Ogni oggetto gli parla, ogni azione lo interroga: “Mi piace decifrare. Per me il fruscio di un ramo è un discorso, come lo sono il rumore di un aereo che passa sulla mia testa o il battito di un martello pneumatico in un cantiere lungo una via cittadina. Un tram è una lingua, come lo sono i volti di chi lo occupa, i loro abiti e le loro scarpe. Lingua è un ciuffo d’erba che spunta tra una carreggiata e un marciapiede, la cornice di una finestra, la velocità delle automobili su un viale di scorrimento”.

A un personaggio tanto introspettivo, può senz’altro apparire miracoloso e rivelatore l’arrivo inatteso di un pacchetto contenente un libro che gli era appartenuto, l’Historia Francorum di Gregorio di Tours. Sulla busta si legge solo un indirizzo, “Piazzale Martini, Milano”, privo di mittente. Sfogliando le pagine ingiallite del volume, scopre che all’interno della rilegatura è nascosto un quaderno su cui, ancora ragazzo, aveva scritto con grafia minuta e ordinata il suo primo romanzo, mai pubblicato: Gli incurabili. Inoltre, dal quaderno spunta una vecchia foglia d’acero, scura e indurita. Nel riconoscere in entrambi gli oggetti testimonianze del suo passato, Ugo è colto da un sentimento di disagio, sospeso tra gioia e timore. “La lettura di quelle mie pagine ingenue mi ricondusse non soltanto a un mondo che avevo perduto ma anche a un certo modo – non meno perduto – di stare al mondo. Avrei potuto passare ore e giorni a segnare tutti gli errori del manoscritto, ma sapevo che questo non avrebbe dissipato l’impressione di avere lasciato, proprio lì, la parte migliore di me”.

Ovviamente, la parte migliore della sua esistenza viene individuata negli slanci, nelle utopie, e nell’ingenuità della giovinezza. Ugo si rivede studente universitario, innamorato della letteratura, circondato da amici come lui impegnati a rifondare la società, immersi nella lettura di Barthes, Foucault, Derrida. La prima fidanzata, l’incontro con la moglie Valentina, gli anni economicamente precari e professionalmente problematici del matrimonio, l’ambizione di agire e scrivere in modo radicalmente intenso e incisivo. Come, dove, quando tutto ciò era andato perduto? Perché l’intransigente purezza di allora era scesa a compromessi? “Voglio solo dire che la letteratura fu responsabile, in qualche modo, del mio disastro. Una volta diventato scrittore per tutti, una volta raggiunto questo status, le mie parole cominciarono infatti a viaggiare alla velocità del mondo – senza tuttavia appartenergli – e io viaggiavo alla velocità delle mie parole, e quindi del mondo”.

All’epoca frequentava una bancarella di libri in Piazzale Martini, il cui proprietario era un anziano signore francese, Monsieur Pineau, saggio dispensatore di consigli di lettura e di vita. Al vecchio libraio, Ugo aveva venduto uno scatolone dei suoi volumi, tra i quali appunto quello di Gregorio di Tours che ora gli veniva misteriosamente restituito, con le tracce di un’esistenza ormai lontana, macchie di caffè e una foglia di acero come segnalibro. Torna quindi a cercare Pineau, ormai ultraottantenne, ma sempre seduto sulla sua poltrona, davanti alla bancarella: “un vero e proprio salotto letterario all’aperto, con uno stuolo di frequentatori perlopiù giovani e poveri”: ascolta umilmente i rimproveri di lui, e ne accoglie con discrezione le confidenze. Principalmente, quella di un incontro con un profetico, amaro e visionario Roland Barthes, capace di leggere le parole sospese nel vuoto mentre vengono pronunciate. La morte del filosofo francese si intreccia con quella di Pineau, il funerale di quest’ultimo, a cui partecipano molti intellettuali milanesi, svela nell’animo turbato di Ugo che a ogni vuoto, a ogni precipizio, a ogni fine, corrisponde un pieno di vita e di amore.

Ne sono testimoni i nostri guardiani alleati, le creature inoffensive e verdi che ci circondano e sanno tutto di noi. Gli alberi del cortile di fronte, delle pianure, dei boschi; le foglie che cadono, e quella di acero ora incorniciata in una teca di plexiglas, suscitatrice di memorie, ancoraggio a un passato che non va rimosso, ma custodito con gratitudine.

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 2 febbraio 2020

https://www.sololibri.net/L-imitazione-di-una-foglia-che-cade-doninelli.html