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RECENSIONI

FUHRMAN

CHRIS FUHRMAN, VITE PERICOLOSE DI BRAVI RAGAZZI – ISBN, MILANO 2013  

Da questo romanzo, opera prima e unica di Chris Fuhrman, morto nel 1991 appena trentenne, è stato tratto un film di successo (The Dangerous Lives of Altar Boys), con Jodie Foster, Emile Hirsch e Kieran Culkin. Tutti chierichetti nella chiesa del Cuore Benedetto, gli amici tredicenni Tim, Rusty, Wade e Francis: tutti e quattro temerariamente e baldanzosamente irrispettosi, allegramente blasfemi e ribelli, cementati nella loro amicizia dagli stessi turbamenti adolescenziali, dalle stesse gelosie amorose, dalle precoci sbronze, dalle prime irrefrenabili pulsioni sessuali. Comuni le loro esperienze familiari e scolastiche: cinghiate paterne, litigi coi fratelli, bugie alle mamme, partite di rugby, avventurose gite scolastiche, rabbrividenti lezioni di scienze naturali.

Francis, nome da femmina e un’ernia che lo tormenta quando si arrabbia o ride troppo, è la voce narrante, coscienza razionale del gruppo: innamorato cotto della bellissima e timida Margie dai capelli ricci, che nel segreto dei suoi pochi anni nasconde una sofferta inquietudine («Margie Flynn era nella mia testa come un brutto raffreddore che appannava ogni cosa. Era un nuovo genere di solitudine, un dolore che non riuscivo a smettere di stuzzicare»). I quattro ragazzi, aspiranti graffitari e fumettisti, vengono smascherati dal parroco Padre Kavanagh e dalle autorità scolastiche quali autori di uno strip osceno e sacrilego, e di conseguenza minacciati di sospensione dalla scuola. Progettano allora un diabolico piano di salvezza, che induca i superiori a soprassedere alle punizioni. Per un certo tempo le loro strategie di salvezza perdono sostanza e vigore alla luce di nuove vicende più coinvolgenti: scazzottate tra bande rivali, inaspettate confessioni sentimentali, amicizie tradite, elettrizzanti approcci con le ragazzine: «Ci sentivamo pericolosi e invulnerabili, come un piccolo esercito, come gli Hell Angels». Ma alla fine, il piano progettato per eludere le sanzioni minacciate dai professori si ritorce contro di loro, e sfocia in tragedia. Nel paesino della Georgia in cui vivono, ancora scosso da rigurgiti razzisti e da violenze di antagonisti neri, qualche consolazione alla brutalità dei rapporti umani arriva dai versi di Blake e Frost, dalle canzoni di Neil Diamond, Jim Morrison o Elton John: e dalla loro stessa solidale amicizia, più forte di ogni dolore.

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Vitepericolosebraviragazzi-Fuhrman.html       29 agosto 2017

RECENSIONI

FUSINI

NADIA FUSINI, IL POTERE O LA VITA – IL MULINO, BOLOGNA 2021

Per la collana Icone delle edizioni Il Mulino, diretta da Massimo Cacciari, Nadia Fusini ha da poco firmato un saggio, Il potere o la vita, in cui arte, letteratura, storia, filosofia, psicanalisi confondono i loro confini, compenetrandosi, avvalorandosi e giustificandosi a vicenda.

Nella seconda sala del secondo piano della National Gallery di Londra, l’enorme quadro a olio (due metri per due) I due ambasciatori che Hans Holbein il Giovane dipinse nel 1533 attira l’attenzione dei visitatori non solo per la pregnanza dei protagonisti ritratti, ma per una sorta di misterioso turbamento che pervade l’intera scena rappresentata. I due personaggi, chiaramente di alto lignaggio, sono Jean de Dinteville e Georges de Selve, diplomatici alla corte di Enrico VIII: il primo, a sinistra, in abito corto di velluto, ha un’espressione vigorosa e decisa; il secondo, più sobrio e sottile, pare severamente raccolto nella sua palandrana scura, come si addice a un ecclesiastico.

Entrambi rivolgono a chi li osserva uno sguardo “pensoso, diretto, estroflesso eppure così interiore”, quasi intendessero comunicare altro, rispetto alla pura esibizione di sé. E questo altro, segreto e inquietante, si cela nei dettagli dell’arredamento del tipico studiolo umanistico che li ospita: il tendaggio verde damascato sullo sfondo, lo scaffale a due piani contenente due mappamondi, astrolabi, calendari, orologi, bussole, un libro d’aritmetica e uno di musica, un liuto, una custodia per flauti. “simboli laici delle arti e delle scienze”, commenta Fusini, strumenti che servono a interpretare il mondo fisico conosciuto e quello immaginario, più spirituale.

L’autrice, celebre e stimata anglista, nel riflettere sul “silenzioso colloquio tra l’immanente e il trascendente”, ritiene che l’intera rappresentazione, nella sua solennità, abbia un evidente significato allegorico, raffigurando il prestigio e l’influenza del potere mondano messo in discussione da un richiamo a ciò che lo supera, lo disorienta e lo annulla. Infatti, osservando con più attenzione il dipinto, e spostandosi di lato, scorge alla sua base “una forma confusa… di colore vitreo, grigio, bianco e avorio mescolati insieme”. È un teschio, inserito a bella posta da Hans Holbein come memento del transeunte, “per affermare una irrefutabile verità; per testimoniare, cioè, che ‘passa la scena del mondo’”.

Quel particolare, il cranio scarnificato, l’osso cavo (“hollow bone”, simile a hohl-bein, probabile allusione giocosa al nome del pittore), si manifesta come “un difetto, un errore, uno sgorbio”, un campanello d’allarme che disarma e fa vacillare l’imponente pomposità dei due autorevoli funzionari, suggerendone l’inconsistente vanità esistenziale, e trascinando “ogni significato nel verso del lutto”. Altri particolari del quadro sembrano voler indicare la fragilità della vita umana, nonostante i suoi fasti esteriori. Fusini li rinviene nella raffigurazione del liuto a cui è saltata una corda, nell’astuccio dei flauti mancante di uno strumento: segnali allusivi alla rottura di un ordine, di un’armonia. Nel quadro di Holbein “risuona, squilla forte l’allerta di uno stato di schisi, di disgiunzione”. A partire da questa constatazione, la studiosa indica nella relazione aporetica tra essere a apparire la stessa fondamentale e tragica domanda di Amleto: To be or not to be? Da profonda conoscitrice e traduttrice di Shakespeare, affronta una ricerca non tanto storica, quanto strutturale, che sovrappone alla pittura di Holbein la scrittura del Bardo, alla celebrazione della sfarzosa corte di Enrico VIII la malinconica meditazione sulla caducità mortale del giovane principe danese, “affascinato dal nulla”.

Nel secondo capitolo del saggio, Il potere dello sguardo, l’autrice chiama direttamente in causa i lettori, invitandoli a riflettere su cosa sia “propriamente un’esperienza visiva”, su quanto in essa incida la memoria, l’immaginazione, la volontà di razionalizzazione, l’emotività con cui ci relazioniamo con la pittura, consapevoli che in ciò che percepiamo con gli occhi rimane qualcosa di inesprimibile, che la psicanalisi definisce perturbante: “In inglese la lingua si diverte a giocare sulla coincidenza fonica che avvicina l’occhio, eye e il soggetto parlante, I. In inglese chi dice io, dice occhio”. Sono quindi “l’occhio” di Holbein, e “l’io” di Shakespeare a guidare il percorso esplorativo di Nadia Fusini, tesa a leggere i segreti del quadro in controcanto con la fondamentale domanda amletica sulla natura dell’umano: “What’s a man? … What a piece of work is man! How like an angel… Quintessence of dust!”. Grandezza e polvere, gloria e finzione, potere e apparenza, Madame Vita e Mr. Death.

Holbein e Shakespeare patiscono la stessa profonda fascinazione per l’immodificabile e crudele transitorietà del tempo: un tempo che nella loro epoca appare scardinato, disarmonico, “out of joint”. Nel quadro la dimensione temporale è statica, sospesa: ma nella storia i cinquant’anni che separano pittore e drammaturgo sono turbinosi e drammatici. L’anno 1533, in cui Holbein dipinse I due ambasciatori, è lo stesso dello scisma anglicano, della frattura tra Roma e Londra, dei fallimenti diplomatici per ricomporre il dissidio tra le potenze europee. Tempo di negazione. Che il pittore tedesco della corte inglese dei Tudor (di cui Nadia Fusini illustra vivacemente non solo la vicenda terrena, ma soprattutto il particolarissimo e innovativo stile artistico: oggettivo, crudamente descrittivo, fedele al reale) rende utilizzando una deformazione anamorfica: “la massa obliqua fluttuante come una larva di fronte agli occhi di chi guarda, per essere riconosciuta come teschio, richiede che lo spettatore si sposti, si abbassi, quasi si inginocchi di fronte al quadro. Solo allora il teschio diviene percettibile”. Il suo occultamento spezza il punto prospettico e l’unità di senso, relegando in secondo piano le imponenti figure dei protagonisti. Il cranio vuoto di Holbein rimanda all’inazione sfiduciata di Amleto, che impugna il teschio di Yorick celebrando la vittoria della morte, e decretando la tragica rottura con l’ambiente e l’epoca cui appartiene. Uguale è nel quadro e nella tragedia la sconfessione della vita, il trionfo del nulla sull’illusione del potere, “il segreto abisso che regge la rappresentazione dell’uomo e del mondo”.

Utilizzando le lenti interpretative fornite da Freud, Lacan, Barthes e Benjamin, Nadia Fusini nell’esplorare i segreti di un quadro esplora anche sé stessa, il suo “essere insieme soggetto e oggetto di visione”, sguardo che nel percepire l’altro da sé si percepisce: “Sì, due paia d’occhi mi fissano. I due ambasciatori guardano me che li guardo”. L’occhio-eye si spalanca sull’io-I, penetrandone la verità, sconvolgente come ogni consapevolezza rivelatrice dell’inganno dei sensi e delle menzogne sociali.

 

© Riproduzione riservata                   «Gli Stati Generali», 3 settembre 2021

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GACCIONE

ANGELO GACCIONE, SPORE – INTERLINEA, NOVARA 2020

 Spore, con la presentazione di Alessandro Zaccuri e una nota di Lella Costa, è un libro di poesie di Angelo Gaccione, narratore e drammaturgo cosentino residente da anni a Milano, dove dirige il blog culturale Odissea. Spore sono le cellule riproduttrici che nei vegetali, nei funghi e nei batteri si disperdono volatili nell’ambiente, e resistendo a condizioni avverse, generano organismi vitali. Titolo appropriato per queste poesie molto particolari, che rivelano una loro robusta e pungente vivacità.

Nella prima sezione (Per il verso giusto), si presentano in forma quasi epigrammatica, sferzanti come gli aforismi dei moralisti, giocose e ironiche nei calembour linguistici, condite talvolta da una notevole dose di civile indignazione, e addolcite più spesso da un sentimento di solidale indulgenza.

Scherza, il poeta, memore del “lasciatemi divertire” di Palazzeschi, nelle composizioni più fresche e briose (“C’era una volta un occhio / che aveva un solo orbo. // Vedere tutto a metà / fu la fortuna sua”). Altrove mostra una vena irrispettosa e amaramente sarcastica persino nella rivisitazione di brani evangelici (“Tre volte cantò il gallo / e un uomo fu tradito. // Tre uomini furono traditi, / ma nessun gallo cantò”, “Beati i poveri perché… / quello che lasceranno da morti / ai vivi non nuocerà”, “Barabba! Barabba!  / gridava la folla. // È sempre l’innocenza / che spaventa il delitto”), oppure una velata malinconia nel commentare destini e comportamenti comuni agli esseri umani (“Il tempo prende a tutti le misure. // Un metro o poco più. // È tutto”, “Morì il padrone / e il cane lo seguì. // Mai avvenne il contrario”, amarezza sempre riscattata dall’aculeus del verso finale: “Piantò il pianto. / Lo seppellì profondo, // voleva eliminarlo / dalla faccia del mondo. // Nacque il salice.  / Ne fu contento”.

Giustamente Zaccuri avverte nel “piccolo canzoniere d’amore e di rabbia” di Angelo Gaccione una tensione etica “sul crinale che   sta tra attesa e memoria, tra rievocazione elegiaca del passato e scommessa caparbia su un futuro che tarda ad avverarsi”.

La seconda sezione del volume, La presenza dei morti, appare più distesamente risolta e armoniosa, come nella commovente poesia iniziale: “È sorprendente quanto siano vive, / le cose appartenute ai morti. // Non è solo il maglione, / rimasto ripiegato sul divano, / o la vestaglia appesa alla parete. // Mio padre la vede muoversi in giardino, / e ravvivare il fuoco del camino. // Le parla spesso, dice, e lei risponde. / E per quanto incredibile, gli credo”.

La rievocazione dei cari che non vivono più non ha nulla di retorico, ma dichiara tutta la propria affettuosa riconoscenza per il bene da loro ricevuto, nella consapevolezza che amore, amicizia e rispetto verranno conservati per sempre, e tramandati in chi ci succederà. “Ho consegnato il testimone a te, figlia, / e mi ricorderai. // Tu lo hai consegnato alla tua, / e ti ricorderà”.

 

© Riproduzione riservata             «Odissea», 13 novembre 2021

 

 

 

 

RECENSIONI

GACCIONE

ANGELO GACCIONE, SCHEGGE – I Quaderni del Bardo Edizioni, 2024

Narratore e drammaturgo, Angelo Gaccione ha pubblicato numerosi libri di saggi, racconti, fiabe, raccolte poetiche e testi teatrali. Vive a Milano, dove da oltre vent’anni dirige il settimanale Odissea, che vanta la collaborazione di prestigiose firme internazionali. Per il suo impegno civile gli è stato conferito il Premio alla Virtù Civica. Recentemente ha pubblicato un pamphlet di aforismi, Schegge, seguendo un’inclinazione che dall’adolescenza lo vede appassionato fruitore e collezionista di questa formula di antichissima tradizione letteraria, già in passato da lui frequentata in diverse occasioni editoriali.

Il prefatore della raccolta, Amedeo Ansaldi, individua giustamente una stringente motivazione etica alla base dei testi qui presentati, la stessa che anima tutti gli interventi giornalistici di Gaccione, risentito commentatore delle più roventi questioni politiche del nostro paese.

“Da sempre sono innamorato di massime, pensieri, sentenze, aforismi, che nascono improvvisi dalla penna di scrittori come stelle dal buio, per illuminare la notte del lettore”, esordisce nella presentazione, evidenziando la sua entusiastica adesione alla lapidaria espressione aforistica, capace di condensare in poche parole giudizi morali sferzanti, ironici, amaramente esacerbati.

Le massime antologizzate sono in parte inedite, oppure provengono da precedenti pubblicazioni, anche piuttosto lontane nel tempo (Il calamaio di Richelieu, Nero su bianco, Il lato estremo, Spore),

Non numerose, ma simpaticamente divertenti, sono quelle più innocue, volte a strappare un sorriso ai lettori: “Musulmane troppo vestire. Cristiane troppo spogliate”, “Finalmente la laurea l’aveva conseguita: ora poteva dedicare il resto della vita all’ignoranza”, “La battezzarono Assunta, ma rimase disoccupata tutta la vita”, “I denti? Costano un occhio!”

Altre sono più severamente critiche nei riguardi della società contemporanea, ritenuta inadeguata nel rispondere alle aspettative dei cittadini, quando non addirittura corrotta e corruttrice, effimera e volgare: “Dove non c’è opposizione, c’è corruzione”, “Ogni potere stupra”, “Chi segue la moda passa di moda”, “L’imbecillità è la più diffusa virtù contemporanea”.

Il richiamo etico è costantemente agguerrito e polemico: “Ci sono intelligenze messe al servizio di pessime cause”, “Pretendono un mondo migliore, ma non muovono un dito perché lo diventi”, “Alta società, bassa moralità”, “Tutti i reazionari sono stupidi, ma non tutti i rivoluzionari sono intelligenti”, “La rivoluzione senza morale è una rivoluzione immorale: cioè un crimine”.

Non mancano gli aforismi che Gaccione riserva a sé stesso, talvolta immalinconiti, spesso sarcastici. “Mi sento così postumo che dubito di essere ancora nato”, “Io non sono uno scrittore maledetto, ma un maledetto scrittore. C’è una grande differenza”; “Spero di andare in Paradiso, almeno da morto vorrei stare largo”, “Sono contrario a qualsiasi imposizione; se mi imponessero la felicità la rifiuterei”, “Scrivo per tenere a freno l’assassino che si nasconde in me”.

Alcune riflessioni sono più articolate, quindi richiedono uno spazio meno circoscritto di quelle aforistiche. Riguardano l’arte, la letteratura, la storia e la religione. Ma è soprattutto nell’idea convintamente pacifista, a cui Angelo Gaccione ha dedicato anni di militanza politica (si veda, a riprova del suo ostinato fervore antibellicista, questa intervista rilasciata a Rai Letteratura: https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2018/12/Angelo-Gaccione-Carlo-Cassola-e-il-disarmo), che il lettore riscontra una vis polemica più radicale, insieme alla consapevole asserzione del dovere civico dello scrittore, come dichiarano queste due incisive sentenze: “Se non vi piace la mia utopia del disarmo, dovere tenervi la vostra realtà della guerra”, “Non si scrive per meritarsi qualcosa, ma per un atto di verità”.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 25 giugno 2024

 

RECENSIONI

GACCIONE

ANGELO GACCIONE, POETI. VENTINOVE CAVALIERI E UNA DAMA

DI FELICE, MARTINSICURO (TE) 2025

 

“Accendere una lampada e sparire, / questo fanno i poeti. / Ma le scintille che hanno ravvivato, / se vivida è la luce durano come i soli”. Questa limpida e delicata citazione di Emily Dickinson viene posta da Angelo Gaccione a esergo del suo ultimo volume, Poeti. Ventinove cavalieri e una dama, che raccoglie trenta recenti composizioni, ciascuna delle quali trae spunto e ispirazione da uno o più versi di famosi poeti italiani del ‘900, tutti ormai (e ahimè) scomparsi.

“Chissà per quale scopo / vengono al mondo i poeti”, si chiede l’autore postillando l’epigrafe. Gli risponde nella prefazione Vincenzo Guarracino, suggerendo che i poeti qui presentati sono da immaginare come “Spiriti Guida” dell’autore, pretesto e incentivo per una riflessione sulle trasformazioni sociali e ambientali del mondo, e dello stesso modo di fare poesia.

Nella sua approfondita ed empatica introduzione, Alessandra Paganardi scrive di questo libro –rivelatore della missione non soltanto estetica, ma anche pedagogica della grande poesia italiana del Novecento –: “un singolare Bildungsroman poetico, inventato da chi affianca la propria produzione alla gratitudine verso i maestri scomparsi (alcuni dei quali realmente incontrati nel corso della vita) e fa di tale nobile sentimento un’ulteriore materia di ispirazione. Questo Poeti è dunque molto più di una raccolta di poesie: è un’autobiografia, un documentario, un laboratorio di scrittura, un formidabile archivio fotografico, un petrarchesco Secretum”.

I versi di apertura dei trenta poeti menzionati sono scritti in corsivo, quelli successivi di Gaccione in rotondo: il collegamento tra modelli ed epigono non è solamente un debito culturale, la rievocazione di un’atmosfera letteraria o un’eco sentimentale di vicinanza: spesso ricalca anche stilemi e formule linguistiche degli autori omaggiati, che sono appunto ventinove uomini (due dialettali, Loi e Tessa) e un’unica donna, Antonia Pozzi.

Evidente è l’influsso emotivo, ad esempio, della poetica di Pasolini (“Eccomi nel chiarore di un vecchio aprile… // ma oggi, oggi è un tardo aprile / con le finestre aperte sulla via / e gli operai sulle impalcature”), di Penna (“Forse la giovinezza è solo questo… / Quell’inquietudine /che mi pesava addosso / e mi faceva scontroso / io non sapevo cosa fosse”) e di Rebora (Verrà l’aurora che ti lusinga… / e allungherà la mano verso te. //… Verrà prodiga d’ogni sorta di doni / recando cornucopia d’abbondanza”.

Meno esplicita è la dipendenza formale da altri poeti, ma rimane evidente l’insegnamento etico e civile che Gaccione eredita da questi omaggiati maestri. Il tono ammonitore e indignato di Fortini, il tormento religioso di Testori, la desolazione arrabbiata di Turoldo, la dolente malinconia di Luzi, la rassegnata consapevolezza di Roversi: tutti sembrano aver segnato profondamente l’immaginario creativo di Angelo Gaccione.

Nato a Cosenza ma residente a Milano dagli anni universitari, Gaccione è narratore e drammaturgo, ha pubblicato numerosi libri di saggi, racconti, fiabe, aforismi, raccolte poetiche e testi teatrali. Dirige il giornale di cultura “Odissea”, a cui collaborano prestigiose firme della cultura italiana e internazionale, e per il suo impegno civile gli è stato conferito il Premio alla Virtù Civica.

Sia alla sua mai dimenticata terra calabra, sia all’amata città di adozione, cui ha dedicato ben cinque libri, sono rivolte alcune poesie del volume, in cui la memoria di un passato non sempre idilliaco, ma comunque più fraternamente umano e solidale, e di certo più ecologicamente pulito di oggi, viene recuperata per un impietoso confronto con l’attualità.

Milano rimodulata sulla falsariga di Angelo Barile risuona con “stridi di tram e rombi di motori”, mentre per contrasto un verso di Pavese richiama la dolcezza del paese nativo e l’affetto dei genitori: “C’è un giardino chiaro, fra mura basse…/ dove avrei voluto finire i giorni miei / con l’ombra di mia madre alle spalle / i passi di mio padre per le scale”. Allo stesso modo si rincorrono e sovrappongono immagini attuali della città di residenza con le memorie di un folklore paesano mai dimenticato: dal passato riemergono i flagellanti nella processione di Acri, la credenza tarlata della nonna, i carretti dei lattai; nel presente si impongono il volto amato della nipotina Allegra, una passeggiata con il cane attraverso il traffico cittadino, i bambini vocianti al parco.

Ma è soprattutto l’impegno civile di Gaccione che cerca nei poeti di riferimento consonanza e incoraggiamento. Ecco quindi come recupera e rende propria la lezione di Quasimodo, Tessa, Ungaretti, Zanzotto, Giudici.

Quasimodo: “Di te amore m’attrista, mia terra… / calunniata senza colpa alcuna. / Hanno svilito il nome tuo nel mondo / piegati come servi a dire sì”.

Tessa: “In questo mondo infame, pieno di affanni… // Lo inghiottisse pure l’inferno / questo tempo corrotto. // Stringevo i pugni in tasca e stavo in guardia”.

Ungaretti: “Di che reggimento siete, fratelli?… / Abbiamo disertato, fratello”.

Zanzotto: “Siamo ridotti a così maligne ore… / L’epilogo non è mai un bel vedere / ci si rintana come l’elefante / che va a morire lontano dal suo branco”.

Giudici: “Ladri di notti corte… / rubiamo il poco sonno che ci resta. / Tempo breve, fermo, immobile. / Tempo di bilancio in perdita. // … e l’illusione misera di credere / d’essere essenziale al mondo”.

Per finire con Camillo Sbarbaro, a cui Gaccione affida la sua dichiarazione d’amore per la poesia, da sempre e per sempre magistra vitae: “A noi che non abbiamo / altra felicità che di parole…  / sia consentito scrivere versi / fino alla fine dei giorni”.

 

© Riproduzione riservata           «SoloLibri», 3 marzo 2025

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GAFFORINI

LORENZO GAFFORINI, MILLIHELLEN – GATTOMERLINO, ROMA 2023

Nella nota critica a chiusura del breve romanzo di Lorenzo Gafforini, l’editrice Piera Mattei mette in luce due particolarità estremamente importanti del testo e del prodotto-libro: la metaletterarietà della scrittura e l’indovinata adesione del ritratto di copertina (una fotografia di Chiara Romanini) a spirito e trama del narrato.

Millihellen. Un incontro non segna l’esordio del giovane autore bresciano, che ha già pubblicato altri racconti e poesie: si presenta infatti come una prova matura, meditata nella costruzione del contenuto e calibrata nella resa formale. Diviso in due sezioni (Il malato di venerdì e Il lamento della bestia azzurra) scandite ciascuna in 50 brevi paragrafi, il volume racconta la tormentosa attrazione fisica e mentale che l’io narrante patisce per una misteriosa figura femminile.

Chi scrive rappresenta sé stesso come “schivo, diffidente”, in preda a una pena d’amore che lo tiene lontano dal frequentare il consorzio umano. Vede Helena per la prima volta dipinta sul quadro di un amico, e alla sua figura dedica alcune poesie. La ritrova dopo un anno, un venerdì sera di fine gennaio, ed entrambi si studiano con trepidazione nelle due ore passate a bere birra in un pub. Lei è molto alta, ha piedi piccoli e occhi azzurrissimi: non bella, ma eccitante. È ragioniera e lavora nell’azienda di famiglia: si mostra indipendente e curiosa. Lui scrive, e cura un aggiornato profilo su Instagram di articoli, commenti, poesie, foto. Si spostano nell’appartamentino di lui, bevono ancora e parlano molto. Lui esibisce narcisisticamente la propria cultura citando gli scrittori più amati, lei confessa con candida spudoratezza la sua passione per il corpo, le centinaia di amanti avuti e la soddisfazione che prova nel dare godimento a un uomo.

Il rapporto sessuale a cui i due si abbandonano viene descritto con puntuale meticolosità, insieme a un malcelato fastidio. Helena si fa riaccompagnare a casa, e promette di rifarsi viva passati cinque giorni. In realtà sparisce, e il romanzo assume una dimensione del tutto diversa, meno descrittiva, più meditata e sospesa. Un anno intero scorre veloce e monotono nella vita del protagonista, mentre Helena scompare dal suo orizzonte materiale, pur campeggiando imperiosa e ossessiva nelle fantasie mentali. Non bastano un soggiorno a Venezia, l’ambita promozione professionale, il vagheggiamento di future pubblicazioni gratificanti e la nostalgia suscitata da ricordi dell’infanzia, a distrarlo dai pensieri deliranti che lo invadono.

Accanito nell’esaminare i propri sentimenti, chi scrive è ben consapevole della irreale realtà del sentimento che lo assedia: “Non è amore, è qualcosa di ributtante e viscerale”, e oscilla tra l’aspirazione a una fredda e liberatoria razionalità da una parte, e l’abbandono al sogno e al desiderio: “Cerco Helena nel disordine calibrato e cosciente”.

Trova scampo nella frequentazione assidua della biblioteca cittadina, impegnandosi nella traduzione di un dramma tedesco del primo Nocecento: “vivo di ricerche, di messaggi subliminali dimenticati in opere catalogate e poi perdute”. Rimpiange Helena, l’approfondimento di un rapporto che avrebbe potuto trasformarsi in una relazione stabile e profonda, ma si fa irretire dai profili delle studentesse che gli siedono accanto, e in ognuna di loro vede trasfigurata l’immagine delle madonne dell’arte medievale: “Vivo nella certezza che Helena possa continuare a fuggirmi, ma anche a manifestarsi magnanima sotto altri nomi. Credo nella sua reincarnazione, questa volta più pura, audace. Un’astrusa metempsicosi. Quella che ho visto io, vissuto e toccato, è solo un’ombra di quello che potrebbe realmente essere”.

L’utopia amorosa a un tratto si svela nella sua mendacità, probabile pretesto di ispirazione letteraria “E se la mia fosse una scrittura meramente riepilogativa, senza il sano talento di trascendere il fatto? Ho avuto l’estremo bisogno di creare, per poi lasciarmi andare alle paure, alle suggestioni”.

La Helena conosciuta in una notte lontana si sovrappone ad altre ben più illustri Elene della poesia mondiale, da quella euripidea molto diversa dalla versione omerica, a quella di Marlowe, che le dedicò versi famosi: “Fu questo il viso che mille navi fece salpar?”, alla più recente citazione della poeta inglese Anne Carson. Giustamente quindi Piera Mattei nella postfazione parla per questo romanzo di metaletterarietà, aggiungendo ai riferimenti accennati da Lorenzo Gafforini, la Gradiva di Wilhelm Jensen, altra immagine fantasmatica nata dalla visione di un’opera d’arte. L’oscuro titolo del romanzo, Millihelen, viene spiegato da una nota dell’autore come derivato da un’unità di misura fittizia coniata in Inghilterra nei secoli scorsi, e poi da lui giocato riferendosi alla millesima parte della Helena umana rispetto alla Elena leggendaria, capace cioè di far salpare non mille, ma una sola nave, quella del protagonista impazzito d’amore: “Ha un tratto fosforescente il mio delirio”.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        3 ottobre 2023

RECENSIONI

GALEANO

JUAN CARLOS GALEANO, AMAZZONIA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023

Juan Carlos Galeano (poeta, saggista e traduttore) è nato nel 1958 nell’Amazzonia colombiana; emigrato negli Stati Uniti, insegna oggi all’Università della Florida. Oltre ad Amazzonia ha pubblicato un altro volume di versi e due antologie di miti indigeni. Anche in questo più recente lavoro, oggetto della sua riflessione ideologica e letteraria è il popolo della foresta, radicato nel mondo di animali e piante che il grande fiume – materno, paganamente divino – attraversa e nutre.

Delle cinquanta composizioni qui raccolte con testo spagnolo a fronte, la prefatrice Serenella Iovino sottolinea giustamente il tratto animista che accomuna in maniera metamorfica “delfini, alberi, ragazze, uccelli, serpenti, perfino oggetti all’apparenza inanimati”. Di questo universo Juan Carlos Galeano si fa interprete e avvocato difensore, come esplicita nell’epigrafe del volume: “Culture e specie viventi che non si connettono e non si scambiano con altre, si isolano, si impoveriscono, si indeboliscono. Vivere implica elaborare, tradurre e interpretare il mondo per andare avanti”.

Un impegno programmatico che lo scrittore traduce in versi simili a preghiere corali, a cantilene che mantengono l’ingenuità e la purezza dei girotondi infantili. In essi troviamo ricordi personali (il bucato steso al sole, la cameretta tappezzata da poster devozionali e profani, le notti passate a osservare il firmamento), flash di feste paesane, processioni e spettacoli teatrali, ma soprattutto la ribadita alterità degli indios, con le loro leggende e usanze, con la malinconica resistenza alla civilizzazione conquistatrice e la paura di un’espropriazione della propria cultura. Ragazzi che legano un filo intorno al collo degli avvoltoi facendoli volare come aquiloni, ragazze che si innamorano del fiume e vorrebbero diventarne le spose, bambini trasportati dalle madri in canoa e poi abbandonati nella foresta, adulti timorosi di affrontare nelle città le auto e le motociclette, villaggi impazziti di gioia per la pioggia.

Se il padre di Galeano si era trasferito con la famiglia in Amazzonia spinto dall’ideale di insegnare agli indigeni a pensare, il figlio poeta finisce per sodalizzare con la scelta dei nativi di continuare a vivere in un luogo stregato, in cui succedono cose incomprensibili alla nostra ristretta logica occidentale: le dita di una mano si trasformano in serpenti, le foglie degli alberi diventano banconote per arricchire le piante più povere, mari e monti giocano al tiro alla fune, un anaconda si addormenta solo se avvinto al corpo di un uomo, scimmie fanatiche e tartarughe giganti si aggirano minacciose a presidiare il suolo, di cui da sempre sono legittime padrone.

Tripudio delle acque del Rio amazzonico, e di cascate, torrenti, diluvi scroscianti, laghi profondi e pacifici (“Un lago è un essere solitario che non vuole problemi”), abitati da sirene, bisce, pesci esotici (gamitana, piranha, pirarucu, tucunaré…) e da pescatori che li sventrano ridendo, accerchiati dai volteggi di delfini acrobatici. Tripudio di aria e cielo, con nuvole danzanti che vanno a svernare a New York (“Le nuvole appaiono e scompaiono come se fossero pensieri”), tuoni e fulmini, satelliti, pianeti e stelle così matte da richiedere le cure di uno psichiatra.

L’immaginazione dell’artista, redivivo “Ovidio amazzonico”, rianima le cose morte come nelle fiabe di Andersen, resuscitando miti, leggende, trasfigurazioni miracolose in uno spazio magico, innocentemente sensuale.

Per il vorticoso sovrapporsi di visioni e colori, l’invenzione poetica di Juan Carlos Galeano si potrebbe accostare all’esperienza surrealista, ma in realtà è più vicina ai dipinti naif, agli sgargianti murales sudamericani, a rutilanti caleidoscopi, come nella più rappresentativa delle poesie qui antologizzate, Leticia: “Il sole e le nuvole si giocano a carte il mezzogiorno. / Quando vincono, le nuvole lasciano cadere pesci e delfini nelle strade di Leticia. / (Se perdono, scendono a prendere il sole coi turisti). / I pesci fanno i tassisti e quando scende la notte salgono a dormire tra le stelle. / Nei cortili delle case i delfini suonano la chitarra e fanno innamorare le ragazze. / Il cuore ardente di una nuvola dice che non può più competere con il sole. / Si ubriaca e si butta nel fiume vestito. / Il sole ogni notte fa il mangiatore di fuoco per il circo che viaggia lungo il fiume, / e poi fa il bagno coi delfini e le ragazze”.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese” n. XI – Novembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GALGUT

DAMON GALGUT, LA PREDA – E/O, ROMA 2024

Dello scrittore sudafricano Damon Galgut (Pretoria 1963), autore di libri di grande successo come The Good Doctor e The Promise, la casa editrice E/O ha pubblicato uno dei primi romanzi, La Preda del 1995, che certo non demerita rispetto alle opere successive.

I suoi 56 capitoli brevi, a volte brevissimi, e lo stile steinbeckiano, paratattico, seccamente oggettivo, rendono facile e veloce la lettura, in modo tale che è soprattutto l’accavallarsi rapido degli avvenimenti ad assorbire ogni curiosità di chi legge, direzionandola verso la conclusione, forse intuibile ma non scontata.

“Li guardò e loro lo guardarono e poi entrambi si guardarono l’un l’altro”; “Erano in un capannone attiguo alla casa. Erano Valentine e Small. Erano fratelli”; “E il caldo. E l’attesa. E gli occhi”. Due esempi tra in tanti che si potrebbero fare del metodo di scrittura, scarno nei dialoghi ridotti all’osso ritmato e contenuto dalla frequenza dei punti fermi, con cui Galgut procede scandendo la narrazione. Eppure, il suo studio dell’ambiente, dei personaggi, degli oggetti, è comunque attento e vigile. Le strade sterrate tra erbacce e canneti bruciati dal vento; il litorale sabbioso che scivola verso il mare appena increspato; il veld brullo, spezzato da fossi; il mondo animale in genere abbrutito o comunque disgustante (corvi, manguste, termiti, scarafaggi, cani randagi, pipistrelli); gli esseri umani perlopiù sovrappeso, sudati, oppure scheletriti, con le mani screpolate, il viso macchiato di nei e brufoli; suppellettili sformate, finestre e porte sgangherate. Tutto, insomma, sembra voler sottolineare la desolazione del mondo circostante, su cui implacabili si abbattono improvvise piogge torrenziali oppure arde un sole “giallo e costante”.

Su questo sfondo si stagliano poche, memorabili figure. La vicenda si apre con il protagonista senza nome che cammina, impaurito e stravolto dalla stanchezza, lungo una strada polverosa, probabilmente fuggendo da qualcosa: piange, ha mani e bocca piene di vesciche. Lo affianca un furgone guidato da un uomo tarchiato e quasi calvo: è un prete diretto verso una parrocchia rimasta temporaneamente vacante. Si chiama Frans Niemand, gli offre un passaggio, pagandogli una doppia colazione in una sala da tè. Quando in seguito tenta un maldestro approccio sessuale, lo sconosciuto gli spacca le testa con una bottiglia e trascina il cadavere in una cava. “La cava era nera, un’assenza nella superficie del mondo”. La cava, il burrone, la buca, la miniera dismessa, tornano spesso nell’arco della storia come metafora del nascondimento, del rimosso e del sepolto, così come il continuo lavarsi le mani, la faccia e il corpo di tutti i personaggi indica il tentativo di liberarsi di qualsiasi sporco possa essersi incrostato sulla pelle e nell’anima.

L’assassino decide di sostituirsi al sacerdote ucciso, dirigendosi verso la missione che gli era stata assegnata con il veicolo stipato di valigie, paramenti e testi sacri. “La città era piccola e dispersa e brutta. Prevaleva una sterilità di cemento. Le strade principali erano state asfaltate molto tempo prima, ma le strade secondarie erano di ghiaia. Niente era più alto di un piano”. Una donna in vestaglia lo accoglie in canonica, indicandogli con indifferenza la camera da letto. Svegliatosi nel tardo mattino, scopre che il furgone è stato svaligiato, e alla stazione di polizia dove si reca per la denuncia fa la conoscenza con il Capitano Mong. Tra i due inizia da questo momento un duello fatto di reciproci sospetti, pedinamenti, fughe, in uno scambio di ruoli tra preda e predatore, vittima e carnefice, in cui i confini di colpa e rettitudine, perdono e punizione si confondono.

Nel paesino di pescatori “taciturni e diffidenti”, il falso prete si investe del ruolo religioso usurpato dicendo messa e preparando le omelie, mentre intorno a lui l’atmosfera si incupisce sempre più opprimente quando nella cava viene ritrovato il corpo del sacerdote assassinato.

La seconda parte del romanzo assume una struttura sempre più concitata, in cui episodi violenti e inattesi si susseguono, accompagnati da uno stile ansimante, franto, punteggiato da dialoghi confusi di protagonisti e comparse, in una narrazione che continuamente ripercorre e ricostruisce il già detto. Processi farsa, poliziotti maldestri, incendi dolosi, arresti ed evasioni, inseguimenti ed esecuzioni sommarie, vengono accompagnati dalla musica euforica diffusa da un circo di saltimbanchi straccioni. L’inseguimento tra il Capitano esausto e il falso prete fuggiasco diventa emblematico dell’eterna contesa tra verità e finzione, bene e male, quando il reale sfrangia i suoi contorni in filamenti ingarbugliati, e le sembianze concrete di corpi e oggetti si trasformano in allucinazioni ossessionanti. Lo sfondo in cui si colloca lo scontro finale incombe minaccioso tra dighe e dirupi, paludi e alture, nella solitudine spettrale in cui i due uomini si fronteggiano. “Quando il poliziotto risalì fuori dalla diga, anche lui si rialzò e proseguì. Non era più sicuro che ci fosse una differenza tra loro o che fossero separati l’uno dall’altro e si spostarono insieme sulla superficie del mondo e il sole tramontò e si fece buio e continuarono a duettare. Si muovevano nella notte in vaghi contorni come i sogni che il suolo stava facendo”.

La vicenda narrata da Damon Galgut si fa allora metafora di una condizione esistenziale in cui tutti diventano malvagi torturatori e insieme pietose vittime, e il finale livellante non libera nessuno dalla colpa di vivere.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 15 gennaio 2025

 

 

 

RECENSIONI

GALLO JARRE

PAOLA GALLO JARRE, LA DONNA DAL QUADRO SOTTOBRACCIO – LA LUNA,  PALERMO 1989

Il premio letterario per narrativa inedita La luna. Città di Palermo, giunto alla sua seconda edizione, è stato assegnato lo scorso 3 marzo a Paola Gallo Jarre per il volume di racconti La donna dal quadro sottobraccio. Paola Gallo Jarre, nata a Torino ma residente a Zurigo da più di quarant’anni, è stata prescelta tra 350 concorrenti e invitata alla cerimonia di premiazione, cui era presente anche il sindaco Orlando, per ritirare il volume pubblicato appunto dalla casa editrice La luna. I quattro racconti che compongono il libro fanno parte di un gruppo più ampio di novelle zurighesi, già segnalate in una scorsa edizione del premio Ascona, e hanno come comune denominatore l’ambientazione in una Zurigo soffusa e sognante, guardata attraverso gli occhi malinconici e rassegnati di personaggi in qualche modo sconfitti e comunque sempre lontani dagli stereotipi che inchiodano svizzeri e immigrati in una sorta di museo delle cere. Imprevedibilmente, la solare e letterariamente esasperata Sicilia, così realistica e barocca nella sua narrativa, ha scelto di premiare questi racconti tanto nordici, non solo negli sfondi e nei personaggi, ma soprattutto nello stile di scrittura, lieve e quasi sospeso, lontano da declamazioni ed esclamazioni, quasi pudico nella sua descrizione. I racconti, piuttosto brevi, scanditi in capoversi staccati anche graficamente, propongono al lettore storie (brandelli di storie), stralci di esistenze, squarci di paesaggi mai definiti a tutto tondo: Paola Gallo Jarre rifugge dal rilievo, sembrando invece più attratta dall’acquerello e dalle tinte pastello, più dall’eco spenta dei sentimenti che dalle forti passioni. Il racconto che dà il titolo al libro narra la vicenda di una donna che in diverse fasi della sua vita attraversa enigmaticamente l’esistenza della protagonista, segnandone le tappe fondamentali, dall’adolescenza alla maturità, complice un quadro futurista che appare e scompare come traccia, spia di qualcosa di misterioso e indicibile. La stessa funzione allusiva che in questa storia ha il quadro, nell’ultimo racconto è affidata a una coppia formata da un elegante e maturo signore legato da un sentimento che si intuisce delicato e profondo a un giovane dagli occhi chiari. I due vivono insieme in una villetta di un quartiere residenziale di Zurigo, e il loro originale e ambiguo rapporto, fatto di dedizione e dolcezza, li rende simbolo di una nobiltà d’animo non sempre condivisa dagli altri abitanti della via, ponendoli su un piano di inavvicinabile superiorità. Non appartengono alla classe borghese i protagonisti degli altri due racconti del libro: Maia (una giovane che vive di fragili espedienti, vendendo oggetti usati al mercato delle pulci e affidandosi ad amicizie e amori instabili) accoglie con un’indifferenza quasi animalesca nella sua innocenza anche la nascita del suo biondissimo bambino, cui affibbia il nome pomposo e “remagesco” di Baldassarre: con lui tra le braccia riesce a trovare nella gelida Zurigo una culla di tepore nel giardino dell’Istituto di Agraria, ai piedi di un fico cresciuto quasi per miracolo o per sfida. Nel racconto forse più riuscito, L’astronave non atterra fra le capre, sono invece due immigrati – il greco Salonichì e il calabrese Squalo – a dover fare i conti con l’universo, per loro affascinante e incomprensibile, del consumismo svizzero, osservato dall’alto di un’astronave un po’ particolare: il camion della nettezza urbana, a cui restano appesi tutto il giorno, testimoni impietosi e arrabbiati della crudeltà cittadina, vittime di un progresso che li stritola insieme ai suoi rifiuti.

 

«Agorà» (Svizzera), 12 luglio 1989

RECENSIONI

GARBOLI

CESARE GARBOLI, TARTUFO – ADELPHI, MILANO 2014

Carlo Cecchi, nella postfazione a questo volume che raccoglie alcuni saggi di Cesare Garboli su Molière, scrive: «… attraverso traduzioni, saggi, prefazioni, cronache teatrali, interviste, interventi radiofonici… Cesare Garboli si è fatto interprete accanito e quasi maniacale di Molière e ha fornito al teatro italiano dei copioni, nella presunzione che il teatro di Molière sia portatore di un sistema di idee, di un messaggio che ci è oggettivamente contemporaneo».

In Tartufo specialmente, commedia rappresentata nel 1664 e poi censurata, rielaborata, corretta per cinque anni, Garboli scopre una rappresentazione archetipica delle debolezze e dei fariseismi umani, estensibili a tutte le epoche e latitudini. In questo servo infido e scaltro, che ambisce a farsi padrone attraverso calcolatissime truffe, Garboli svela l’inganno eterno e diabolico del potere. E non del potere nato da privilegi di casta, bensì di quello sorto «dalla frustrazione, dal nulla, dallo zero sociale, in cui il massimo della malafede va a combaciare con il massimo dell’intelligenza».

Tartuffe (falso devoto, falso benefattore, falso amministratore, falso amante: conformista e servile, astuto e stupido, untuoso e strafottente), diventa l’emblema di chi sa camuffarsi per «scivolare nelle anime altrui», e assoggettarle. Quindi: preti, medici (e in specie psicanalisti), politici. Garboli scrive pagine feroci, utilizzando Molière e il suo personaggio più emblematico per stigmatizzare profumatissimi papaveri della cultura contemporanea «l’impostura di Lacan, sfuggente, misteriosa, e quasi necessaria all’intelligenza, diventa in Verdiglione un imbroglio miserabile…» che ritiene ambiguamente pericolosa, e asservita al potere. Caustico e severo, Garboli sferza gli intellettuali come eterni tartufi dell’ideologia dominante, chiedendosi però alla fine: «Chi è Tartufo? Un piccolo servo, o un giustiziere implacabile? Un miserabile truffatore, o la coscienza di tutti?»

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Tartufo-Cesare-Garboli.html    14 gennaio 2016

 

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