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RECENSIONI

KRISTOF

AGOTA KRISTOF, IERI – EINAUDI, TORINO 2016

Come tutti i libri di Agota Kristof, anche questo Ieri (uscito in Francia nel 1995 e da poco ripubblicato da Einaudi) rimane chiuso nell’unica dimensione del dolore e del rimpianto, in cui i personaggi si muovono senza alcuna possibilità di proiettarsi in un futuro positivo, nell’assenza totale di qualsiasi prospettiva di riscatto.
Il protagonista del romanzo è Tobias Horvath, nato e cresciuto in un paesino poverissimo, da una giovane prostituta sfruttata da tutti gli abitanti del villaggio, contadini sordidi e ottusi, e dal maestro che per prima l’ha sedotta. «Mia madre veniva in cucina per lavarsi il sedere in un secchio, s’asciugava con uno straccio, se ne tornava a letto. Non mi parlava quasi per niente e non mi ha mai baciato».

Il ragazzo, umiliato in casa e fuori casa, assiste impotente agli accoppiamenti della mamma, finché una notte, esasperato, arriva ad accoltellare lei e l’amante, dopo aver scoperto che quest’ultimo non era solo il suo insegnante, ma anche il padre che non aveva voluto riconoscerlo. Tobias scappa, convinto di essere un omicida, fugge in un altro paese, cambia il suo nome in quello di Sandor Lester. «Non avevo che un desiderio: partire, andare, morire, era uguale. Volevo allontanarmi, non tornare più, scomparire, dissolvermi nel bosco, nelle nuvole, non ricordare più, dimenticare, dimenticare».

Tobias-Sandor arriva in un paese straniero, trova lavoro in una fabbrica di orologi, abita in un bilocale periferico, frequenta pochi disperati tra altri emigrati come lui, si ammala psichicamente. Le pagine più riuscite del racconto sono proprio queste (rese in uno stile secco, essenziale, severo), che raccontano lo squallore di un’esistenza espropriata di qualsiasi dignità e speranza.
Fornito di una nuova identità, usurpata e illegale, Sandor si trascina nella sua vita proletaria assediata da ricordi, incubi e allucinazioni, aggrappandosi a due sole illusioni, presto trasformatesi in ossessioni: l’utopia di diventare uno scrittore famoso, e il desiderio di incontrare la donna dei suoi sogni, una Line che conserva i tratti misteriosi di un incontro infantile e quelli immaginari della fantasia. E anche se improvvisamente questo fantasma si concretizza nella presenza reale e dolcissima di un amore sconvolgente e proibito, Sandor sa di doversi adattare a una quotidianità di sudditanza materiale e affettiva, rassegnato a un lavoro umiliante e ripetitivo, marito e padre abulico e disincantato, a cui solo poche immaginarie visioni colorate, sospese nell’aria, riescono a portare conforto . Nell’odissea del giovane (ripresa nel bel film di Silvio Soldini  Brucio nel vento) Agota Kristof riflette evidentemente il suo destino di “erranza”: esiliata dall’Ungheria dopo l’invasione sovietica del ’56, rifugiata nella Svizzera francese con la famiglia, operaia dapprima e poi scrittrice costretta a esprimersi in una lingua non sua, mai completamente dominata.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Ieri-Agota-Kristof.html          24 giugno 2016

RECENSIONI

KRISTOF

AGOTA KRISTOF, LA VENDETTA – EINAUDI, TORINO 2009

Venticinque racconti brevissimi, lapidari e inclementi, questi della scrittrice ungherese Agota Kristof, originariamente intitolati C’est egal, a significare l’indifferenza imperturbabile con cui l’autrice racconta la sofferenza: «Fa lo stesso. In ogni caso si sta male ovunque», e riproposti da Einaudi con il titolo La vendetta.

Non propriamente di vendetta si tratta, infatti: quello che i protagonisti patiscono o infliggono in queste pagine non è desiderio di rivalsa, esigenza di giustizia riparatrice, esplicitazione di rancore insopprimibile. La cattiveria dei gesti e dei pensieri è vissuta ed espressa senza particolare emozione, senza effettiva partecipazione. Risiede immodificabile e irredimibile nella natura delle cose e degli animi: come nella moglie che uccide con una scure il marito che russa («ci sono una quantità di cose che accadono così, stupidamente»), o nell’alunno che sevizia e impicca il professore di lettere per ammirazione e «immenso affetto», o nella crudeltà di numeri sbagliati al telefono. I personaggi sembrano tutti assolutamente spaesati, privi di riferimenti spazio-temporali: vagano in strade deserte, allucinate, in un silenzio che le rende simili a paesaggi metafisici. Strade che non portano in nessun posto, oppure a case del passato distrutte, a treni che non partono, a incontri destabilizzanti, in un’atmosfera da incubo continuo: «Qualche giorno più tardi se ne andò senza dire nulla a nessuno. Da un posto all’altro, da una città all’altra, prendeva aerei, navi, treni. Sempre altrove, là dove niente gli assomigliava. È smarrito, non riconosce più i luoghi, non riesce a ritrovare la propria strada, la propria casa».

Il destino di Agota Kristof, esule politica costretta a reinventarsi un’esistenza e una lingua in Svizzera, balza prepotentemente accusatorio da ogni riga: «Come si può diventare ricchi con niente, quando si viene da altrove, da nessuna parte, e senza il desiderio di diventarlo?»

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/La-vendetta-Agota-Kristof.html      30 giugno 2016

 
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KRISTOF

ÁGOTA KRISTÓF, CHIODI – CASAGRANDE, BELLINZONA 2018

L’editore ticinese Casagrande propone, con la traduzione di Fabio Pusterla e Vera Gheno, le poesie che Ágota Kristóf scrisse in ungherese prima del suo forzato esilio a Neuchâtel, andate perdute in quel tragico frangente. Ricostruite successivamente nella memoria, ad esse furono aggiunti nuovi versi, composti sia nella lingua materna sia direttamente in francese durante gli anni trascorsi in Svizzera.

Ágota Kristóf (1935-2011), conosciuta da noi soprattutto come autrice di romanzi e racconti (splendida e terribile la sua Trilogia della città di K.), nacque a Csikvánd, un villaggio dell’Ungheria “privo di stazione, di elettricità, di acqua corrente, di telefono”. Nel 1956, in seguito all’intervento sovietico, fu costretta a lasciare il suo paese con il marito e la prima figlia di pochi mesi, riparando a Neuchâtel, dove visse fino alla morte. In Svizzera per cinque anni lavorò come operaia in una fabbrica di orologi, studiando il francese senza riuscire mai a dominarlo completamente. In questa lingua, avvertita come straniera ed estraniante, scrisse tutte le sue opere, in uno stile forzatamente asciutto, essenziale, severo. Il senso di inappartenenza a una lingua e a una nazione, l’esclusione affettiva dal mondo circostante, la chiusura emotiva in una dimensione di desolazione e rimpianto, si rispecchiavano nei suoi personaggi, costretti a vivere nell’assenza totale di una prospettiva di riscatto, nello squallore di un’esistenza espropriata di dignità e speranza, rassegnati a una quotidianità di sudditanza materiale e intellettuale. Lo smarrimento della conoscenza di sé, il disorientamento, il sentirsi persi, si riflettono anche nelle poesie di Chiodi, in cui tornano i temi propri della narrativa: l’esilio, l’attesa, il desiderio, la paura, l’isolamento, lo sconcerto, la rabbia, il rancore.

La voce di Ágota Kristóf, che nella postfazione Fabio Pusterla definisce “contemporaneamente atroce e struggente”, si esprime in una lingua che occupa uno spazio intermedio tra due culture: quella nativa, della memoria e del dolore, dell’abbandono e del tradimento, e quella franco-elvetica, avvertita sempre come alterata e condizionante, imposta da necessità esteriori. Così, sospesa tra due tradizioni letterarie mai del tutto assimilate, la sua poesia rivela uno stile assolutamente personale, secco, ridotto all’essenziale, privo di punteggiatura e con scarsa aggettivazione. Molti dei caratteri, delle immagini e delle situazioni tratteggiate nei versi di Chiodi ispirarono alcuni dei magistrali racconti successivi, inseriti in due raccolte edite da Einaudi ‒ Ieri e La vendetta ‒, che ne riproponevano addirittura i titoli, nonché le atmosfere, inclementi nel resoconto della sofferenza. In una dichiarazione, l’autrice aveva affermato: «Un libro, per quanto triste sia, non può essere così triste come una vita»: di questa sua tristezza (risalente non solo all’esilio, ma agli anni difficili dell’adolescenza in collegio, all’arresto del padre per motivi politici e al conseguente disfacimento familiare) si nutrono le poesie qui presentate. I titoli stessi manifestano mortificazione e avvilimento (Non mangio più, Solitari, I sopravvissuti, L’umiliato, Giorni perduti, Senza ali, Su campi freddi, Commiato…); i colori prevalenti sono il bianco e il grigio; la stagione più descritta è l’autunno, con la nebbia, la pioggia, il fango delle pozzanghere.

Vuoto, abbandono, squallore caratterizzano ogni ambiente: finestre e porte chiuse, corridoi bui, panchine azzoppate, giardini deserti, vie polverose. La natura, vegetale e animale, nasconde qualcosa di minaccioso e violento («monti rabbiosi crebbero tra noi // … erano calate le cavallette sul campo / e gli avvoltoi sugli alberi oscillanti»). Anche le allusioni alla morte, e in particolare al suicidio sono frequenti: «E amo gli amici morti che / non sono riusciti a sopportare / la lontananza e bella è la corda / quando culla corpi freddi / e bello è il veleno il gas il coltello», «domani uscirò in strada morti camminano / per queste vie anche io sarò pallida se solo sapessi / dove andare da chi e perché», «chiodi / puntuti e smussati / chiudono porte montano grate / tutt’attorno sulle finestre / così si edificano così si edifica / la morte».

In numerose composizioni è evidente il contrasto tra un passato di estrema miseria economica, ma nutrito di affetti e amicizie, e vissuto in simbiosi con ciò che è intorno, e un presente più solido e sicuro, eppure arido, sconfortato: «Ieri era tutto più bello il canto / tra le fronde degli alberi / tra i miei capelli il vento // …Ora nevica sulle mie palpebre / il mio corpo / è pesante come roccia / e non c’è motivo di cambiare marciapiede / e non c’è motivo per / andare alle montagne». A questa desolazione non ci si può ribellare, se non rifugiandosi nel sarcasmo, nella violenza rabbiosa, come avviene in una poesia dedicata ai professori, ottusi e ignoranti, a cui la poetessa bambina opponeva un’insonnolita resistenza, mangiandosi poi il gessetto che le veniva lanciato addosso: «amavo i professori e il gessetto / a causa della mia carenza di calcio / all’epoca mi mangiavo molti gessetti / ciò mi faceva venire una leggera febbre ma mai saltavo / la scuola per questo / dal momento che amavo i professori specialmente / il talentuoso insegnante di letteratura / perciò per pietà / dopo l’assassinio di una poesia / a mezzogiorno alle dodici e mezza / sulla strada di casa / nel parco / posi fine alle sue sofferenze». L’odio di classe è percepibile nei versi dedicati agli operai, agli emigranti, ai diseredati, solidali tra loro nella pretesa di rivendicazioni sociali, quasi presaga però di una futura inevitabile sconfitta. Ad essa ci si prepara con la stessa rassegnata indifferenza rivolta a qualsiasi altro aspetto dell’esistenza: Fa lo stesso è il titolo di una poesia ripreso poi da uno dei racconti de La vendetta (in francese, C’est egal, a significare l’imperturbabilità a cui è opportuno ricorrere contro l’angoscia): «qualcuno canta qualcosa / fa lo stesso tanto non è bella / è una canzone vecchia vecchia // e domani ti alzi dove vai / da nessuna parte oppure sì / magari vado da qualche parte / fa lo stesso tanto non c’è posto dove si stia bene».

Nel racconto citato la Kristof ribadiva: «Fa lo stesso. In ogni caso si sta male ovunque». Anche nella narrativa, quello che i protagonisti patiscono o infliggono non è tanto desiderio di rivalsa, esigenza di giustizia riparatrice, esplicitazione di rancore insopprimibile. La cattiveria dei gesti e dei pensieri è vissuta ed espressa senza particolare emozione, senza effettiva partecipazione. Risiede immodificabile e irredimibile nella natura delle cose e degli animi: nella moglie che uccide con una scure il marito che russa («ci sono una quantità di cose che accadono così, stupidamente»), o nell’alunno che sevizia e impicca l’insegnante per ammirazione e «immenso affetto», o nella crudeltà di numeri di telefono sbagliati apposta. Come nelle poesie, i personaggi sembrano tutti assolutamente spaesati, privi di riferimenti spazio-temporali: vagano in strade deserte, allucinate in un silenzio che le rende simili a paesaggi metafisici. Strade che non portano in nessun posto, oppure a case del passato distrutte, a treni che non partono, a incontri destabilizzanti, in un’atmosfera da incubo perenne: «Qualche giorno più tardi se ne andò senza dire nulla a nessuno. Da un posto all’altro, da una città all’altra, prendeva aerei, navi, treni. Sempre altrove, là dove niente gli assomigliava», «è smarrito, non riconosce più i luoghi, non riesce a ritrovare la propria strada, la propria casa». Il destino della Kristof, esule politica costretta a reinventarsi un’esistenza in Svizzera, si riflette prepotentemente accusatorio in ogni riga della sua scrittura, in versi e in prosa: condizione esistenziale dell’erranza, di un risarcimento impossibile.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 7 maggio 2018

 

 

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RECENSIONI

KUBIN

ALFRED KUBIN, DEMONI E VISIONI NOTTURNE – ABSCONDITA, MILANO 2016

Spesso le autobiografie appaiono poco veritiere, più o meno consciamente levigate da chi le ha scritte, con l’obiettivo di rendere più apprezzabili i propri trascorsi esistenziali, le scelte ideologiche, i percorsi artistici o le battaglie politiche. Non fa eccezione il succinto resoconto che nel 1959 Alfred Kubin stese della sua vita, pubblicato da Abscondita nel 2004 e ristampato nel 2016, con il titolo di Demoni e visioni notturne, in cui solo a poche e veniali turbolenze giovanili vengono attribuite l’intemperanza e i conflitti di un’intera vita, trascorsa per lo più con moderata bonomia.

Alfred Kubin (Leitmeritz, Boemia, 1877- Zwickledt, Austria, 1959), tra i più interessanti illustratori del primo ’900, si era ispirato in gioventù alle opere grafiche di O. Redon, J. Ensor, E. Munch, M. Klinger, Goya, e così perfezionatosi nella sua arte aveva poi illustrato la Bibbia, le opere di G. Hauptmann, Dostoevskij, Poe, Gogol’, Hoffmann, Bürger, Kafka, ricavandone grande fama internazionale. I suoi disegni, caratterizzati da tematiche raccapriccianti, manifestavano un gusto quasi maniacale per l’orrido e il misterioso. Il suo mondo onirico aveva trovato felice espressione anche nel romanzo Die andere Seite del 1909 (riproposto da Adelphi nel 2001).

Il racconto di un’infanzia “selvaggia” e dell’adolescenza inquieta, vissute tra Salisburgo e Zell am See, ci rende l’immagine di una mai cancellata sofferenza, determinata sia dal rifiuto di ogni costrizione (la severità del padre, la rigidità dell’istituzione scolastica), sia da una serie di lutti familiari, tra cui la dolorosa morte della madre a lungo malata di tubercolosi, avvenuta quando Alfred aveva solo dieci anni. In quei primi anni formativi affiorarono elementi del suo carattere che sarebbero rimasti come tipici dell’attività artistica: oltre alla passione per il disegno, l’amore per la natura e il paesaggio, un’inclinazione verso il misticismo, l’interesse per le fiabe e il fantastico, la disposizione alla lettura, e una curiosità morbosa per ogni tipo di violenza, di scene agghiaccianti, di cataclismi distruttivi, di decomposizioni corporali. Il temperamento suscettibile segnato da eccitazione nervosa, convulsioni e frequenti deliri febbrili, lo portò a cambiare spesso scuole e impieghi, inducendolo addirittura a un tentativo di suicidio. Fu il trasferimento a Monaco, e l’iscrizione alla locale Accademia di Pittura a fornirgli un solido appiglio emotivo, indicandogli la strada da percorrere per approfondire la sua vocazione artistica. In quegli anni conobbe personalmente De Chirico, Munch, Klee; studiò gli scritti di Schopenhauer e l’opera grafica dei maggiori illustratori dell’epoca; iniziò a esporre i suoi disegni in diverse gallerie, trovando estimatori e clienti, e infine raggiunse una relativa stabilità economica e familiare sposandosi nel 1904. La scoperta della pittura di Bruegel (“miscuglio di pazzia e santità”), i viaggi a Vienna, a Parigi, a Venezia, lo misero in contatto con nuove forme d’arte. Prima dei trent’anni, Kubin acquistò un piccolo podere sulle rive dell’Inn, a Zwickledt, che diventò il suo rifugio fino alla morte: fu in questi anni che compose il romanzo fantastico L’altra parte, e abbracciò un nuovo personalissimo stile artistico: “Ora mia attirava di più la vita universale, che opera così misteriosamente negli uomini, negli animali, nelle piante, in ogni pietra, in ogni cosa animata e inanimata. Erano ancora masse umane e greggi di animali, splendore e marciume, il vizio rigoglioso e la nauseante putrefazione, il culto del sublime e il dolore incomposto. Insomma tutto ciò che da sempre aveva occupato il mio cuore…”. I sogni, gli incubi, le fantasie più deliranti divennero per lui una miniera di ispirazione per le sue opere grafiche, pubblicate in raccolte divenute celebri (Serie dei sogni, Sette peccati mortali, Danza dei morti, Animali feroci, Notte di brina). Nemmeno la conversione al buddhismo, e una regola di vita spartana, lontana dalle angosce del mondo – allora precipitato nella catastrofe della prima guerra mondiale – riuscirono a rasserenare il suo umore: le allucinazioni visive e sonore che lo tormentavano prendevano corpo nei suoi disegni febbrili, di cui il volume pubblicato da Abscondita rende puntale testimonianza attraverso la riproduzione di scheletri, belve sanguinarie, fantasmi, battaglie, agonie. “Tutti questi oggetti mi venivano incontro come spettri e larve che mi ghignassero in faccia”, Nonostante le tante difficoltà incontrate nell’esistenza, e i demoni interiori che avevano assediato i suoi giorni a partire dall’infanzia, Alfred Kubin rimase convinto che il significato dell’arte fosse quello di coprire come un velo “l’assurdo nonsenso della vita”, e che nel tumulto abissale della coscienza la creazione potesse diffondere uno spiraglio di luce. Nella postfazione, Giacomo Debenedetti così commenta la sua opera: “Kubin, attraverso tutti i suoi disegni, le sue tempere, le sue illustrazioni, finisce in realtà coll’illustrare un solo, inquietissimo testo: la storia di una generazione destinata a scontrarsi, in un misto di atavico terrore e di inaudita lucidità, col caos, i mostri, le rivelazioni informi o sublimi della psiche… La sua breve autobiografia è la goticheggiante e paurosamente moderna confessione psichica di un figlio del tempo che trapassa verso l’era cosmica”.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 19 marzo 2025

 

 

 

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KUREISHI

HANIF KUREISHI, RACCONTI – BOMPIANI, MILANO 2013

Alcuni di questi racconti dello scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi (1954) coprono poche pagine, altri hanno la rilevanza di un romanzo breve. Quasi tutti ambientati in una Londra crudele e indifferente («Londra era piena di gente drogata, inutile, che non ascoltava quello che gli altri dicevano, ma pensava solo, tutto il tempo, a come poteva distrarsi, non parlava mai di niente di serio, finché poi precipitava»; «Londra sembra essere fatta solo di materiali duri e di polvere che non riesce a poggiarsi; tutto è spigoloso, specialmente la gente».), indagano esistenze ed esperienze disparate, per lo più avvilite e inconsolabili: come imparare a sopravvivere a se stessi, ai propri fallimenti, inventandosi improbabili vie d’uscita, quasi ad accelerare una catastrofe sempre inevitabile. Troviamo quindi lo sceneggiatore cocainomane di successo che invidia le giornate squallide ma non programmate degli scarti umani, ai margini della società; il padre di famiglia fotografo amatoriale che si fa irretire da una coppia voyeuristica; lo scrittore tradito dalla moglie che desidera solo umiliarla e vendicarsi; l’attore che spia l’amante sposata seguendola anche in vacanza con il marito. Personaggi che si assomigliano tutti nella rinuncia a qualsiasi prospettiva di vita felice, annoiati dalla banalità del quotidiano, rassegnati a rapporti fittizi sia nelle amicizie che negli amori, desiderosi solamente di far passare il tempo più velocemente, stordendosi con le droghe o nel sesso più degradato e ripetitivo, in una ricerca morbosa e ossessiva di rapporti affettivi autentici: «La gente si sposta da una moglie all’altra, da un marito all’altro. Una città di vampiri d’amore che girano da persona a persona in cerca di quella che farà la differenza».

Le famiglie, soprattutto quelle inglesi, appaiono spaccate e rancorose, con madri superficiali e distratte, e padri che hanno perso qualsiasi ruolo e funzione educativa.
Kureishi segue i suoi personaggi pedinandoli negli spostamenti fisici, nei gesti quotidiani, nei tic comportamentali: mai, tuttavia, scavando nei meandri della psiche o nei conflitti interiori, quasi a voler sottolineare che i suoi protagonisti vivono solo in superficie, bidimensionali, privi di profondità. C’è, costante, l’esplorazione analitica del corpo e della sessualità, che raramente arriva a essere conturbante, avvolta com’è in un’atmosfera di tragico disfacimento, di indifferente routine quotidiana. Come se l’autore volesse appiattirsi sulla descrizione di una cultura occidentale e cosmopolita oramai priva di slanci vitali, di entusiasmi, di calore umano, e rassegnata alla sua decadenza (l’ultima sezione, è emblematicamente intitolata Il declino dell’Occidente).
Ma non si salva nemmeno la civiltà asiatica importata, costretta a europeizzarsi controvoglia: i contrasti razziali e religiosi implodono nelle coscienze e all’interno delle mura domestiche. Ne è un esempio il bel racconto Mio figlio il fanatico, in cui un taxista indiano ormai integratosi nella vita anglosassone si vede rifiutato dal figlio convertito all’Islam più rigoroso ed estremista: drammatico esempio di due generazioni e due mondi che non riescono più a parlarsi.

 

© Riproduzione riservata     http://www.sololibri.net/Racconti-Hanif-Kureishi.html    1 settembre 2015

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LA CAPRIA

RAFFAELE LA CAPRIA, LA NEVE DEL VESUVIO – MONDADORI, MILANO 1988

Sulla quarta di copertina, questo ultimo volume di Raffaele La Capria viene definito «un piccolo romanzo di formazione», e in effetti si tratta di circa un centinaio di pagine, suddivise in undici capitoli, che ripercorrono la prima infanzia di un bambino napoletano, Tonino, fino al momento in cui egli si affaccia allo spietato e banale mondo degli adulti. Non ci troviamo davanti, tuttavia, a una semplice rievocazione di episodi infantili, o a una riverniciatura nostalgica del proprio passato: nessun “vestivamo alla marinara”, quindi, nelle intenzioni dell’autore, piuttosto una riflessione critica e struggente sui momenti rivelatori che hanno infranto lo specchio magico dell’innocenza puerile, distruggendo il fantastico assoluto in favore del più realistico relativo. I primi racconti, narrati in tono favolistico e piano, ruotano pertanto intorno alle scoperte fondamentali che porteranno Tonino ad una graduale consapevolezza del suo essere “altro”, rispetto alla realtà che lo circonda: l’implacabilità del tempo, che fa sparire oggetti e persone amate (il palloncino, le foglie, il giorno e la notte); l’identificazione totale e sofferta con la mamma adorata («diffusa intorno», negli odori, nei colori, nei suoni) e, attraverso essa, la scoperta dell’affascinante e misterioso mondo femminile; la magia delle parole che non si lasciano ridurre a ciò che vogliamo, e hanno invece una loro segreta autonomia e dignità che va rispettata e quasi temuta; ma, soprattutto, la scoperta della propria individualità. L’io  si intitola il racconto forse più bello del libro, in cui Tonino, desideroso di inventarsi un fratello che gli faccia compagnia quando è solo, scopre nell’armadio materno, riflesso nello specchio, un altro Tonino che gli risponde con le sue stesse parole e le sue stesse smorfie, e lo elegge subito ad amico ideale, rassegnandosi ad ammettere che si tratta della sua stessa persona riflessa solo quando alle sue spalle compare la mamma, assolutamente identica alla mamma del bambino chiuso nell’armadio. Ecco che il mondo dei grandi, la loro verità a cui bisogna cedere, irrompe nella vita incantata di Tonino e la trasforma, e se ne impossessa. Ormai quasi ragazzo, Tonino scopre che anche i genitori hanno le loro debolezze e meschinità, che la natura (il mare, soprattutto, il mare tanto amato e percorso a nuoto, in barca, oppure solo con gli occhi) può essere crudele e rendere crudeli, che il proprio corpo conosce umiliazioni ed esaltazioni di cui si deve vergognare: impara, insomma, a fare i conti con la vita. E la vita, a sua volta, arriverà ai ferri corti con la storia, negli anni bui che precedono la seconda guerra mondiale. I ragazzi inglesi, compagni di giochi nel cortile di casa, diventano improvvisamente nemici; e la gita programmata insieme sul Vesuvio imbiancato dalla neve verrà rimandata per sempre. A Tonino non resta che cercare rifugio e salvezza nelle parole, che secondo l’insegnamento di un suo professore antifascista, sono sempre sacre:

Le idee non sempre sono sacre, ma le parole sì. Non fatevi incantare dalle parole. Imparate a usarle bene, non a gridarle. Neanche se le vedete scritte a lettere cubitali sui muri. Neanche se tutti le urlano insieme sulle piazze…

 

«Agorà» (Svizzera), 16 novembre 1988

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LA CAPRIA

RAFFAELE LA CAPRIA, INTRODUZIONE A ME STESSO – ELLIOT, ROMA 2014

Raffaele La Capria (Napoli 1922-Roma 2022) in settant’anni e più di attività letteraria, oltre a decine di romanzi, racconti, raccolte di articoli e recensioni, diari e interviste, si è spesso ritratto in brevi memorial e autobiografie, sempre all’insegna dell’ironia  e della leggerezza, senza rimpianti, paternalismi, intenti didascalici. Questo libriccino pubblicato nel 2014, sono raccolti quattro brevi interventi introdotti da un’affettuosa prefazione di Raffaele Manica, il quale parla, a proposito di questi capitoletti, di “auto-maieutica” di uno scrittore che “da alcuni decenni… è diventato esploratore delle proprie intenzioni”. Che sono soprattutto intenzioni riguardanti il processo dello scrivere, il prima-durante-dopo dell’attività produttiva. A partire quindi, dall’elaborazione di un punto di vista sulle cose del mondo, non tanto nella sua realtà effettiva, quanto nella consapevolezza che ne abbiamo come protagonisti o semplici comparse. Uno sguardo attento e perplesso, come quello che da giovane rivolgeva non solo allo splendido ambiente naturale in cui era nato e cresciuto, ma anche alla borghesia partenopea “digerente” (più che dirigente), futile e incapace di progettare e riprogettarsi, nella cui affettuosa e talvolta soffocante cornice era stato allevato. Alla decisione presa in gioventù di diventare scrittore, privilegiando – rispetto al racconto autobiografico- la via impersonale e polifonica, convinto che “il contesto era più importante dell’assolo”, seguì la consapevolezza dello stile letterario cui rimanere fedele per tutta la vita. Chiarezza e semplicità, addirittura trasparenza di scrittura, che non facesse pesare sul lettore la fatica della composizione, ma mantenesse una sua naturalezza luminosa, pur consapevole della rivoluzione formale della narrativa novecentesca, ben assimilata nel capolavoro del 1962, “Ferito a morte”. Inevitabile a questo punto l’accenno ai due topoi della scrittura lacapriana: la difesa del “senso comune” contro l’arroganza ideologica, la mistificazione intellettuale e “il dilagare delle astrazioni”, e l’invito a saper godere di ogni “bella giornata” che ci riserva il destino, l’attesa e la speranza della felicità con cui dovremmo svegliarci ogni mattina, “lo stupore in cui è la vera conoscenza, la meraviglia di stare al mondo, il senso del divino che questa meraviglia ci comunica”.

© Riproduzione riservata    4 luglio 2022     SoloLibri.net › Introduzione-a-me-stesso-La-Capria

 

 

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LA CAPRIA-PERRELLA

RAFFAELE LA CAPRIA-SILVIO PERRELLA, DI TERRA E MARE – LATERZA, BARI 2018

Silvio Perrella (1959), scrittore e critico letterario palermitano da molti anni residente a Napoli, ha curato i due Meridiani Mondadori dedicati a Raffaele La Capria (1922), e proprio con La Capria firma questa lunga conversazione, Di terra e mare, pubblicata da Laterza. Il dialogo tra i due inizia nel giorno del novantacinquesimo compleanno di Raffaele, che da subito, seduto in poltrona con un gatto grigio sulle ginocchia, mette in luce le sue doti di eccezionale affabulatore: non scrive più, ma ha la mente “abitata da pensieri”, e parla. Parla della vecchiaia, “che essenzializza ogni cosa”, della morte attesa con naturalezza, dell’illusione e del desiderio, del caos e dell’ordine che dominano il mondo. Quasi un secolo di amore per la vita, per la terra e per il mare, quel Mediterraneo “abitato dagli dei”, culla di tutti i miti e di tutte le civiltà che hanno plasmato la sua storia personale (“fui egizio fenicio greco, mi riconobbi nel senso del limite del bello e della forma, nell’aspirazione alla chiarezza e alla felicità”). Poeta in prosa, racconta episodi lontani: di traversate atlantiche che gli fecero scoprire la differenza tra lo spettacolo dell’oceano (grandioso, disumano e tremendo) e l’abbraccio confidente e materno con il mare di Napoli, il cui moto burrascoso, durante una nuotata estiva, gli aveva insegnato ad abbandonarsi attivamente alle onde degli eventi, senza opporre strenue e inutili resistenze, coltivando nell’anima una tranquilla e costante serenità, come quella che può dare una qualsiasi “bella giornata” di sole. La luce, infatti, gli appare tuttora il miracolo più misterioso e affascinante offerto quotidianamente dalla natura.

Affettuosamente incalzato da Perrella, La Capria ripercorre gli anni dell’infanzia e della giovinezza, i primi amori e le esperienze più formative, i rapporti con la famiglia, il sesso, le varie case abitate, gli animali posseduti, la fede e l’impegno civile. I due scrittori confrontano poi le loro passioni culturali (Chopin e Beethoven, Van Gogh e Carpaccio), soffermandosi sulla conoscenza e frequentazione non solo libraria di altri protagonisti della letteratura, del cinema, del teatro (Ortese e Parise, De Filippo, Franco Rosi e Patroni Griffi, l’amatissimo Eliot), discutendo di sport (il nuoto, di superficie e subacqueo, praticato entusiasticamente da entrambi), e di una Napoli sempre splendida, anche nel suo irritante immobilismo sociale. Consapevoli che per comprendere e apprezzare la vita bisogna accettarne anche gli eventi più dolorosi e tragici, affrontano in conclusione il doloroso tema della vecchiaia, del declino delle forze, dell’inevitabile fine di tutto.

Ma forse le cose più interessanti che ci suggerisce questo dialogo, in cui aleggia un profondo e reciproco sentimento di amicizia, sono quelle che Raffaele La Capria afferma a proposito della scrittura. Di come essa possa orientare nel labirinto dell’esistenza, nel confronto assiduo con la saggistica storica e filosofica; di quanto sia fondamentale e arricchente la sua relazione con l’oralità, la voce, e la lettura creativa. “Considero il romanzo la massima espressione della letteratura quando trasmette insieme a una visione del mondo, a dei pensieri, a delle osservazioni sull’uomo, anche l’idea di una invenzione, di una forma in cui tutte queste cose si uniscono e si spiegano. Ogni romanzo dovrebbe possedere una doppia natura, una natura estetica e una natura morale, una verità e una bellezza… Ogni apparizione della letteratura deve essere diversa; deve avere una sua originalità; deve essere guizzante”. A novantacinque anni, questo signore delle nostre lettere sa offrirci con levità parole complici e ancora innamorate della terra, del mare, delle belle giornate in attesa di un nostro sguardo.

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Di-terra-e-mare-La-Capria-Perrella.html        24 luglio 2018

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LA PORTA

FILIPPO LA PORTA, POESIA COME ESPERIENZA – FAZI, ROMA 2013

Un’antologia felicemente sbilanciata, sfrontatamente parziale nelle proposte, anticonvenzionale nei commenti, quella firmata dal critico Filippo La Porta per le edizioni Fazi. Ma si tratta con evidenza di una scelta programmatica, esplicitata già dal titolo: l’autore offre a chi legge, in particolare ai più giovani, un percorso di arricchimento culturale ed emotivo sulla base della sua esperienza di lettore innamorato della poesia, che ha eletto i suoi maestri di vita e di pensiero tra chi ha scritto in versi. I poeti rappresentati appartengono tutti alla storia, essendo morti chi da secoli e chi da anni: poeti ormai considerati “classici”, avvolti da un’aura di condiviso rispetto e ammirazione. Ci si potrebbe interrogare sul motivo di alcune originali inclusioni (Poliziano, Marino, Metastasio e gli spesso snobbati Carducci e Cardarelli), o su ancora più clamorose esclusioni (la linea lombarda, lo sperimentalismo, Luzi, la forse già troppo osannata Marini tra gli italiani; la Dickinson e Rilke tra gli stranieri). Ma La Porta ha inteso proporre i “suoi” poeti, nelle liriche più rappresentative, da Dante alla Szymborska: quelli che ha amato e che gli hanno offerto più stimoli intellettuali e “sentimentali”, e lo ha fatto partendo proprio da se stesso, dai suoi ricordi ginnasiali, dalle musiche ascoltate e dai film visti, dalle esperienze di lotta politica e dai primi timidi tentativi di composizione poetica personale. Non teme, quindi, di esporsi in giudizi anche perentori e poco prudenti su singoli autori, di cui spesso dà definizioni icastiche e memorabili (Tasso: «poeta della vita che dilegua»; D’Annunzio: «professionista dell’ineffabile»; Penna: «poeta fuori della storia… poeta inafferrabile»; Baudelaire: «intrepido maestro di moralità»; Rimbaud «un progenitore di Céline»). Non nasconde nemmeno i suoi dubbi sull’onestà intellettuale e sulla validità letteraria di poeti celebratissimi (Pasolini: «ha provato e riprovato a esprimersi poeticamente… riuscendovi solo a tratti»; Brecht: «una morale un po’ filistea e accomodante»). Da critico indipendente qual è, esibisce festosamente i suoi entusiasmi (Rosselli, Withman, Stevens, Vallejo, Szymborska) e si sbilancia fino a definire Caproni «il poeta italiano più importante della seconda metà del secolo scorso», o a suggerire un paragone tra Keats e i «giovani déracinés» del ’68, e a indicare Carmelo Bene come massimo interprete di Dino Campana. Ma ciò in cui più si manifesta il suo appassionato fervore è nella ribadita ricerca di una definizione estetica ed etica della funzione della scrittura in versi: «La poesia è pedagogia dello sguardo», «la poesia come spazio utopico, ‘antiutilitaristico’, è la posizione più ‘sovversiva’ oggi immaginabile», «non consiste in un linguaggio speciale, anticomunicativo, costitutivamente diverso da quello quotidiano, o in un gergo oscuro, autosufficiente, aggressivamente incomprensibile», «non è tanto spazio dell’irrazionale e dell’orfismo quanto pensiero concentrato, filosofia miniaturizzata»; il suo linguaggio privilegia «la non linearità, la velocità, l’essenzialità»; il suo ruolo è «mescolarsi al proprio tempo, alla contemporaneità, pensare a ciò che nel presente incombe su di noi, alla storia, incontrare le persone comuni». Polemico contro quella «corrente unica, a impronta simbolista» che ha costretto la poesia novecentesca in un conformismo oscuro, elitario e intransitivo, La Porta rivendica una lingua poetica in grado di diventare «conversazione, teatro, apologo, documento, collage, reportage, ritratto»: una lingua capace di sporcarsi, di corrompersi, anche quando si innalza a vertici di contemplazione, immaginazione e spiritualità inauditi. Celebra così la vitalità della poesia «che si oppone al nulla, un surplus immaginativo, percettivo che forza il senso ordinario, desolatamente univoco, delle cose fino a scoprirvi sensi ulteriori e analogie invisibili», e che «scompiglia la nostra idea convenzionale delle cose, che dissolve le divisioni artificiose, che disinnesca strategie e calcoli del potere, e che ci mette in sintonia con un ritmo più ampio, e imperscrutabile, del cosmo». Poesia, quindi, come pacifica ma radicale rivoluzione dell’anima, dello sguardo, dell’esistenza individuale e collettiva.

 

«L’Immaginazione» n. 280, marzo 2014

RECENSIONI

LA PORTA

FILIPPO LA PORTA, UN’IDEA DELL’ITALIA – ARAGNO, TORINO 2012

Quasi 150 recensioni su scrittori italiani (di successo, esordienti, semisommersi, scomparsi: narratori puri, pamphlettisti, saggisti) che negli ultimi dieci anni il critico Filippo La Porta ha pubblicato su riviste e quotidiani, limitate coerentemente in una misura rigorosa, di quasi due cartelle. Nei suoi articoli, La Porta si vincola al rispetto fedele di un severo ruolino di marcia: una fulminante frase d’apertura che condensa spettacolarmente il libro di cui si parla, in seguito il riassunto della trama e qualche notizia sull’autore, e infine il giudizio di valore sulle qualità letterarie del prodotto editoriale esaminato. Seguendo con riconoscenza le orme del suo maestro Geno Pampaloni, La Porta si propone come obiettivo di riuscire a risalire dall’opera all’autore, dallo stile al ritratto psicomorale, rischiando di suo anche giudizi azzardati o contestabili: convinto com’è che “un romanzo ci aiuta a capire il mondo, e noi stessi, quanto più riusciamo a descriverlo con precisione”, e che ogni opera vada interrogata “alla luce dei dilemmi morali del nostro tempo”. Quindi questa sua carrellata non esaustiva sulla recente narrativa italiana può aiutare a comporre un ritratto della società italiana attuale, con i suoi pregi e difetti, eroismi e compromessi, scandali e assoluzioni. Il volume si compone di due sezioni, dedicate alla scrittura di fiction e a quella più riflessiva, e i nomi prescelti vanno dai più famosi (La Capria, Saviano, Busi), ai più nuovi e promettenti (Nori, Cerasa, Raparelli), dai classici (D’Annunzio) a una notevole presenza femminile (Murgia, Ravera, Agus, Mazzucco…), dai critici letterari ( Fofi, Berardinelli, Benedetti, Fortini) fino ad outsiders come Sottsass, Battista, Bonami-Volpi, Castaldo. Molti elogi convinti, parecchie condivisioni entusiastiche, qualche distinguo e circospezione, in pratica inesistenti le stroncature: forse uno sguardo troppo generoso sul nostro paese e sulla sua produzione letteraria.

IBS, 2 luglio 2012

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