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RECENSIONI

MARINETTI

FILIPPO TOMMASO MARINETTI, UCCIDIAMO IL CHIARO DI LUNA! – STREETLIB, 2019 (ebook)

Il chiaro di luna riveste, nell’immaginario collettivo, lo sfondo ideale di ogni espressione sentimentale, dalle dichiarazioni d’amore alla nostalgia intenerita per ciò che è perduto, fino alla vaghezza idilliaca offerta da un paesaggio naturale. Magari accompagnato dalle note della celebre sonata beethoveniana, risulta anche essere il simbolo più trito e retorico di un certo romanticismo languido e sognante, a lungo sfruttato in poesia, nell’arte, nel cinema. Naturale, quindi, che il rivoluzionario fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), esaltatore del progresso, della velocità, della guerra e della fisicità, abbia voluto chiamare Uccidiamo il chiaro di luna! un suo provocatorio pamphlet del 1912, il cui titolo è diventato la parola d’ordine del movimento futurista e della sua ansia innovatrice contro ogni tradizione, politica e letteraria. Già le frasi iniziali del breve saggio indicano l’esaltazione con cui Marinetti intendeva spronare i suoi compagni alla ribellione contro gli amorfi interpreti del pacifismo, del neutralismo e della classicità artistica, definiti Paralisi, Podagra, gregge puzzolente, insetti, cimici, lebbra schifosa, pesce ammucchiato, lugubri formiche della saggezza, code di pavoni, pomposi galli di banderuole, leziosi fazzoletti profumati:

“Olà! grandi poeti incendiari, fratelli miei futuristi! … Usciamo da Paralisi, devastiamo Podagra e stendiamo il gran Binario militare sui fianchi del Goriankar, vetta del mondo! … Turbini di polvere aggressiva; accecante fusione di zolfo, di potassa e di silicati per le vetrate dell’Ideale! …Fusione d’un nuovo globo solare che presto vedremo risplendere! —Vigliacchi! — gridai, voltandomi verso gli abitanti di Paralisi, ammucchiati sotto di noi, massa enorme di obici irritati, già pronti per i nostri futuri cannoni. «Vigliacchi! Vigliacchi! …Perché queste vostre strida di gatti scorticati vivi? … Per ora, ci accontentiamo di far saltare in aria tutte le tradizioni, come ponti fradici! …La guerra? … Ebbene, sì: essa è la nostra unica speranza, la nostra ragione di vivere, la nostra sola volontà! …Sì, la guerra! Contro di voi, che morite troppo lentamente, e contro tutti i morti che ingombrano le nostre strade!”

Il grido di battaglia chiama a raccolta “pazzi e pazze, scamiciati, seminudi”, decisi a “ringiovanire il volto rugoso della Terra”, ruggenti e famelici come leoni che “erette le code, sparse al vento le criniere, foravano il cielo nero e profondo”. E se nel cielo splende “la Luna carnale, la Luna dalle belle cosce calde”, ecco che dalle turbe animose dei combattenti “si udì gridare nella solitudine aerea degli altipiani: — Uccidiamo il chiaro di luna!”, simbolo di languore imbelle e sdolcinato. “Fu così che trecento lune elettriche cancellarono coi loro raggi di gesso abbagliante l’antica regina verde degli amori”. Luce elettrica contro i bagliori del satellite pallido, mitragliatrici contro le arrugginite baionette, aeroplani contro la vecchia cavalleria. “Facciamoci dunque degli aeroplani! — Saranno azzurri! — gridarono i pazzi — azzurri, per sottrarci meglio agli sguardi del nemico, e per confonderci con l’azzurro dèi cielo …È nostra, la vittoria …ne sono sicuro, poiché i pazzi lanciano già al cielo i loro cuori, come bombe! Attenti! …Fuoco! …Il nostro sangue? …Sì! Tutto il nostro sangue, a fiotti, per ricolorare le aurore ammalate della Terra!”

Ma, cent’anni dopo la furiosa battaglia marinettiana, la graziosa e silenziosa luna leopardiana continua a illuminarci: gentile, paziente. Per nostra fortuna.

 

© Riproduzione riservata      13 dicembre 2019

https://www.sololibri.net/Uccidiamo-il-chiaro-di-luna-Marinetti.html

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MARINO

FRANCESCO MARIA MARINO, LA LINGUA NON HA OSSA MA LE ROMPE – TAU, TODI 2024

Due noti docenti universitari, i Monsignori Stefano Guarinelli e Dario Viganò, si sono occupati nel 2014 e nel 2016 della maldicenza come piaga devastante del vivere civile, in due volumi dal titolo molto espressivo: La gente mormora e Il brusio del pettegolo, rispettivamente per le edizioni San Paolo e Dehoniane. Qualche mese fa anche Tau, altra casa editrice cattolica con sede a Todi, ha pubblicato un agile libro di Padre Francesco Maria Marino, dal titolo ancora più esplicito dei due citati: La lingua non ha ossa ma le rompe, e con un sottotitolo più ponderato (I peccati di lingua tra spiritualità e psicologia).

La cultura religiosa si rivela dunque particolarmente sensibile ai vizi della diffamazione e della calunnia, che in più di un’occasione pubblica sono stati stigmatizzati da Papa Francesco, con una severa deplorazione del “terrorismo delle chiacchiere”: «Su questo punto, non c’è posto per le sfumature: se parli male del fratello uccidi il fratello. E, ogni volta che facciamo questo, imitiamo il gesto di Caino, il primo omicida».

Il testo di Padre Marino, dalle finalità esplicitamente ammonitrici, esortative e didattiche, si apre con un interessante excursus storico concernente il trattato del XIII secolo Summa virtutum e vitiorum, composto dal frate domenicano Guglielmo Peraldo, in cui venivano dettagliatamente illustrati, utilizzando numerose citazioni bibliche e patristiche, 24 peccati commessi con la lingua, 18 valide ragioni per evitarli e 8 rimedi per tacitarli per sempre.

Mormorazione e maldicenza sono le prime gravi colpe di cui ci si macchia usando parole ostili nei confronti del prossimo: la prima sussurrata di nascosto, esprimendo giudizi negativi, inventando situazioni false, manipolando o ingigantendo fatti riportati da altri, creando complicità e consenso in chi ascolta e diffonde il sentito dire. La maldicenza è invece un’abitudine più aperta e sfrontata, spesso motivata dalla volontà di contestare l’autorità e le istituzioni, o per provocare l’esclusione e l’eliminazione di un antagonista scomodo.

Entrambi questi vizi sono ricorrenti in tutti i consessi umani: famiglie, scuole, luoghi di lavoro, comunità religiose e non. Riescono ad avvelenare l’ambiente sociale minando le relazioni, creando un clima di sfiducia e di sospetto, distruggendo rapporti coniugali e di amicizia. Esempi di questo uso malevolo della parola si trovano anche nei testi sacri, con la riprovazione espressa sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Il monaco del deserto Arsenio (IV secolo) suggeriva un antidoto a tale pratica di alterazione della verità: fuge, tace, quiesce, raccomandando riservatezza, silenzio e serenità d’animo.

L’attuale perdita di una cultura della conversazione appropriata, amichevole, rispettosa degli altri (nei colloqui personali, sulla stampa e nei programmi televisivi) lascia prevalere la volgarità e l’inutilità dei discorsi, determinati dalla mancanza di ascolto e di attenzione, dalla disaffezione al silenzio, dall’assenza di pensiero critico che conduce l’intervento verbale a uno scollamento dalla realtà, con la predilezione per il messaggio vuoto, di circostanza, o addirittura sfrontato e offensivo. Nei rapporti con gli altri prevalgono il sospetto e il giudizio negativo, la condanna a priori e il rifiuto, spesso indotti da un complesso che può essere sia di saccente superiorità, sia di frustrante inferiorità.

Ma quando il malanimo e la maldicenza arrivano a trasformarsi in calunnia, ecco che odio, invidia e gelosia distruggono la reputazione di singoli individui, di famiglie, di intere collettività. Le parole possono guarire e uccidere. Siamo responsabili di quello che diciamo e di come lo diciamo: «Osservate: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta!» (Gc 3, 3-5), pertanto dobbiamo sorvegliare il nostro parlare, e i sentimenti che lo influenzano: «ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende impuro l’uomo. Dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie» (Mt 15, 18-19).

Ancora Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia del 2016 ricordava: «La Parola di Dio ci chiede: “Non sparlate gli uni degli altri, fratelli” (Gc 4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare».

Inoltre, la calunnia può diventare, in un’epoca come la nostra dominata dalla fake news, un’arma diabolica, elaborata dagli interessi di vari centri di potere, attraverso abili tecniche pubblicitarie o sottili operazioni propagandistiche, con il fine di creare non solo un consenso di massa ideologico e culturale, ma addirittura di orientare i valori morali, i gusti e le opinioni delle persone, deprivate del diritto di critica, di verifica e persuase all’obbedienza più facile e conformista.

Le indicazioni cristiane suggerite da Padre Marino per contrastare le falsità della comunicazione hanno alle spalle una tradizione millenaria di raccoglimento interiore: silenzio, canto, digiuno, preghiera. Ed è appunto con una preghiera che l’autore chiude ogni capitolo del libro, fino alle Litanie dell’umiltà riportate in Appendice. Proprio all’umiltà si invita il calunniato, suggerendogli di dominare il desiderio di rivalsa e di vendetta con un uso intelligente dell’umorismo che insegna a demitizzare se stessi e gli altri, e con la generosità del perdono così difficile da mettere in pratica. Senza tuttavia dimenticare che calunnia e diffamazione sono reati iscritti nel nostro Codice Penale (Art. 368 e 595), e che lo stesso Gesù così ammoniva: «Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Matteo 12,36).

 

© Riproduzione riservata       «La Poesia e lo Spirito», 5 novembre 2024

 

 

 

RECENSIONI

MARTINI

CARLO MARIA MARTINI – ALAIN ELKANN, CAMBIARE IL CUORE – BOMPIANI, MILANO 1993

Cambiare il cuore è l’esortazione che rivolge a tutti i credenti il Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, in un’intervista concessa ad Alain Elkann e pubblicata da Bompiani. Cambiare il cuore prima ancora dei pensieri e degli atteggiamenti, prima ancora delle abitudini e degli scenari su cui si muove la nostra quotidianità: ed è un cambiamento che si attua ponendosi soprattutto in una posizione di silenziosa e fiduciosa attesa, di disponibilità all’incontro con Dio che, se aspettato con fede, arriva e non delude. Incalzato dalle domande, sempre molto corrette e trattenute, quasi pudiche, di Elkann, il Cardinale Martini si lascia coinvolgere dalle tematiche più varie, spaziando dalla banalità del contingente all’universalità, dal concreto alla teoria. Accenna brevemente ad alcuni particolari biografici (la nascita a Torino da una solida famiglia borghese non particolarmente religiosa, il rapporto più intenso con la madre e un fratello, la passione per la montagna e per il teatro), per soffermarsi più a lungo sulle scelte fondamentali che hanno disegnato i confini della sua esistenza. Dapprima, quindi, la presa di coscienza di quale destino lo aspettasse: «Mi sembra che sia stato tra i dieci e gli undici anni, quando ho incominciato a intuire che Dio voleva davvero entrare in un rapporto personale con me, che io potevo parlargli come a un amico, che c’era tra noi una vera amicizia. In quel tempo ho anche cominciato ad avere il senso della ‘totalità’ di Dio, cioè la percezione che Dio è tutto e può chiedere tutto, la dedizione di una persona e della sua intera esistenza».

In seguito, con la giovinezza, più espliciti si fanno i punti di riferimento culturali, le letture, gli esempi che emozionano e motivano (S. Tarcisio, S. Luigi Gonzaga, S. Stanislao Kostka), per arrivare ai problemi e alle tentazioni adulte su cosa sia la fede, su come conquistarla e mantenerla, narrati attraverso la pregnante metafora dello scalatore sorpreso da un banco di nebbia, e che pure, attaccato alla roccia, attende il ritorno del sole. Con estrema umiltà, il Cardinale confessa quanto può essere difficile oggi esercitare il sacerdozio: «Certo, vi sono stati momenti in cui l’esperienza di essere prete e religioso mi è apparsa particolarmente faticosa, al limite della sopportabilità…ma gli anni non hanno fatto che confermare la bontà della scelta presa all’inizio». Consapevolezza della propria finitudine di creatura, ma anche coscienza di un’ineliminabile tensione all’infinito, che si può raggiungere attraverso la riflessione e il silenzio: «Senza silenzio mi sento dilacerato dalla molteplicità delle cose che mi cadono addosso e che vorrebbero monopolizzarmi. Ho dunque bisogno dell’ascolto di Dio così come ho bisogno dell’aria per respirare».

Ciò che ci sembra più particolarmente e generosamente aperto alle istanze religiose dell’uomo d’oggi, è che il Cardinale Martini torni a parlare delle questioni fondamentali della fede (vita e morte, peccato e redenzione, Chiesa e altre religioni), senza immiserire il dibattito in questioni formali tanto di moda tra altri teologi: la sessualità è un dono, e Martini non parla di limitazione delle nascite; l’aids è una tragedia, e i suoi malati sono fratelli da accogliere, da comprendere. Parole coraggiose anche nei riguardi dei poveri, di chi non ha lavoro, della sua diocesi di Milano e di tutte le questioni politiche, metropolitane e planetarie che siano. Ma soprattutto un richiamo forte e cordiale a chi pratica altre religioni (in primis l’ebraismo), effettuato materialmente con la fondazione della  Cattedra dei non credenti, ormai alla VI edizione in Milano, affinché il confronto riesca ad approdare a una ricerca comune. Il tono di ogni risposta di Carlo Maria Martini è affettuoso, indulgente, senz’altro non dogmatico, di sprone alla nostra potenzialità di arricchimento, ben sapendo che la «fatica del vivere» è di tutti: la nostra, quindi, ma anche la sua, «perché anche coloro che hanno ‘un ruolo’ la condividono senza sosta né sconti con ogni uomo e donna, vecchio e bambino, malato e disperato della terra».

 

«L’Arena», 3 febbraio 1994

RECENSIONI

MARTINI

GIULIA MARTINI, TRESOR – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2024

Il volume di versi Tresor di Giulia Martini (Pistoia 1993) si suddivide in quattro capitoli (Tabù, Corrente calmo, Corsa sul posto, Tresor), ed è aperto da un’estesa, approfondita, coltissima introduzione di Giulia Depoli, che rischia di mettere in imbarazzo qualsiasi volonteroso recensore, costretto per forza di cose ad attingere non solo alla dovizia di informazioni fornite sul testo, ma soprattutto all’appassionato e sapiente scavo interpretativo della prefatrice.

Seconda prova della poeta, dopo Coppie minime del 2018 (edito sempre da Interno Poesia), in cui già lavorava su concetti linguistici quali i fonemi, in questo volume è di nuovo il linguaggio il terreno operativo prediletto, attraverso l’utilizzo frenetico ed esasperato di citazioni, varianti lessicali, allotropie, distorsioni sintattiche, rimaneggiamenti diacronici, e soprattutto di prelievi da materiali letterari precedenti.

Il titolo stesso, Tresor, (con le varianti Tesoro, Tresoro, Teisoiro, e con l’anagramma Resort) è un evidente richiamo all’enciclopedia in volgare di Brunetto Latini, ampiamente saccheggiata nei testi medievali e nei loro commenti critici, documentanti il passaggio dal latino all’italiano – iscrizioni murali e funerarie, documenti notarili, atti di vendita, bilanci contabili. Altrettanto sfruttato è l’apporto della Divina Commedia, soprattutto a partire dal Canto XV dell’Inferno, i cui rimandi lessicali sono disseminati in tutto il volume, insieme a echi e recuperi di tutta la grande tradizione della nostra letteratura otto-novecentesca.

“Un libro fatto con le parole degli altri”, secondo la calzante enunciazione della prefatrice, nel quale emerge però – oltre all’assidua ricerca formale – una altrettanto fondamentale ricerca interiore, tramite l’imperiosa volontà di definizione dell’io, come si rileva già dai primi versi della sezione iniziale Tabù: “Io sono quella che bene non aio”, “Et eu so kosì davanti a vui”.

Il rapporto io/altro da me (io/natura, io/istituzioni, io/amanti, io/famiglia, io/luoghi) viene mimetizzato, calmierato e quasi neutralizzato attraverso lo schermo (giocoso a volte, più spesso violentemente polemico) dello sperimentalismo linguistico. Tuttavia affiora sempre, soprattutto laddove si intuisce una ferita che la poeta non ha potuto o voluto rimarginare. Con le varie città abitate, con il patrimonio familiare, con la legge, con l’amore, con il cibo, con la madre. Madre che non è unicamente quella che l’ha partorita, ma anche un’altra che l’ha adottata e amata, e una terza che l’ha nutrita: forse proprio la lingua, obbligandola a un’alimentazione imposta e canonica, maldeglutita, rifiutata: “La fame è un gesto naturale. E intanto / adocchiata da tutta la famiglia / finisci il piatto li riguardi e pensi / dove nascono la lingua e la madre”; “Mi chiami e la madre diventa un problema / che devo risolvere io, durante i pasti / i fieri pasti, gli splendenti pasti, / che non mi lasci di mangiarli in pace. // Mi dici che la madre ha l’oro in bocca, / ma che non parla mai, non le si vede”; “Ma vada terra una alla madre mia carnale. / Una alla nostra comune madre. / Un’altra a quell’altra madre mia”; “Seduta al buio, in cucina, la santa / la madre si riversa in fiumi d’oro”.

Nella sezione centrale del libro, Corrente calmo, l’io si camuffa nelle vesti di un notaio, che utilizzando termini tecnici traslati da antichi documenti del volgare italiano, assume il ruolo legiferante e oppressivo di chi imbroglia e raggira utilizzando la copertura dell’ufficialità legale, coprendo abusi di usurai,  ecclesiastici e potentati vari: “Questo vaso sono io dicente / e più che dicente, contraddicente”, “Devi soltanto donare tutti i tuoi beni all’abbazia, cedere fino all’ultima sostanza, sapendo bene che non riceverai niente in cambio”. Le inserzioni prosastiche, spesso conclusive di singole composizioni, e rivolte a un lettore generalizzato e comune, rivestono la funzione – come nel caso qui riportato – di conferire autorità al testo, sottolineando in modo perentorio qualcosa di non contestabile.

Tresor è anche un canzoniere amoroso, e la relazione con la donna amata, intessuta di conflitti, passione erotica, dissidi economici, dedizione affettiva, attraversa l’intera raccolta: “Com’era bello quando rimanevi / e non sapevo più dove mi fossero / gli occhi, per guardarti. E le mani”. Fino alla sezione conclusiva che dà il titolo al volume, ed è un esplicito invito a lasciarsi coinvolgere nel rapporto con chi si ama, in un legame capace di oltrepassare l’individualità: “Datemi tutto, senza niente in cambio, / non perché lo chiedo, per entusiasmo”.  Attraverso l’altro/altra Giulia Martini recupera la totalità dell’io, in un augurio programmatico coinvolgente il futuro: “Non puoi fallire, se segui la tua stella, / mancare l’appuntamento con te stessa”.

L’intera operazione messa in atto da Tresor, nella sua sovrabbondanza di segni e significati, ha la finalità di stimolare in chi legge un attivo interesse verso la comunicazione letteraria così come si è stratificata nei secoli, in un coinvolgimento nuovo, non scontato, con i testi e le loro sovrastrutture-sottostrutture.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese» n. XI, novembre 2024

 

RECENSIONI

MARZANO

MARCO MARZANO, QUEL CHE RESTA DEI CATTOLICI – FELTRINELLI, MILANO 2012

Emblematica l’immagine di copertina del libro-inchiesta di Marco Marzano: un vistoso cerotto a forma di croce su fondo bianco, a indicare il tentativo di arginare una ferita, un sanguinamento, o di tappare una falla. In Quel che resta dei cattolici tre anni di interviste, di viaggi, di frequentazioni private e pubbliche, di approfondimenti culturali, hanno portato l’autore (non credente ma educato in una famiglia tradizionalmente praticante, e oggi professore di sociologia all’Università di Bergamo) a sondare il terreno scivoloso e spesso tendenziosamente occultato della fede e della pratica religiosa in Italia. A partire dalle realtà più popolari delle parrocchie, dei campi scuola, dei seminari, delle messe disertate, delle superstizioni, dei settarismi, della stanchezza e della solitudine del clero. Per concludere che il nostro è un paese «sempre più secolarizzato o meglio deistituzionalizzato, in costante allontanamento da quella che è stata per secoli la “sua” chiesa».

Un paese in cui i fedeli non frequentano più i sacramenti, in particolare la confessione, avvertita come un rito obsoleto e invasivo della propria privacy: oggi il senso del peccato è stato sostituito da quello del disagio psicologico, la penitenza dal rinforzo della propria autostima, il rimorso è ritenuto una eccessiva pruderie sentimentale.
E tutti gli altri riti soffrono della stessa grave crisi: dal matrimonio in chiesa soppiantato dalle convivenze, dai funerali gestiti come happenings musicali e riunioni familiari, dalle cresime totalmente insignificanti e incomprese, fino alle ordinazioni presbiteriali ormai ridotte a numeri esigui e umilianti. Si salva forse ancora il battesimo, che i genitori vivono però quasi come una vaccinazione, «un’assicurazione contro gli imprevisti, un rituale magico di protezione». Sembra che la Chiesa descritta da Marco Marzano in Quel che resta dei cattolici abbia ormai ben poco da dire a una popolazione disinibita e superficiale, attirata semmai da pericolosi movimenti settari, prede di fanatismi teologicamente poco fondati.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Quel-che-resta-cattolici-Marzano.html            22aprile 2016

 

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MARZORATI

SERGIO MARZORATI, RITORNO A ZAGABRIA – SELLERIO, PALERMO 1995

Dopo cinquant’anni di assenza, lo scienziato Felix Glavan torna a Zagabria, abbandonata precipitosamente con la famiglia all’epoca delle persecuzioni razziali contro gli ebrei. A richiamarlo in patria, con la promessa di un reinserimento nella sua città natale e di una reintegrazione delle case e dei beni sequestrati dai comunisti, è un giovane funzionario del nuovo stato croato, Stijepan Radic, la cui famiglia aveva conosciuto la famiglia Glavan, mantenendone nel tempo un ricordo ammirato e solidale. Separati dall’età, da esperienze diverse e da funzioni contrastanti (Radic è un giovanotto di grande sensibilità ed entusiastiche letture, Glavan un sessantenne di successo che ha deciso di rimuovere il passato, cancellandone le tracce dalla memoria. Il primo è credente e fiducioso nelle sorti dell’umanità; il secondo è ateo, scettico, privo di affetti), tra di loro si svolge una civilissima e partecipe conversazione nel corso della quale lo scienziato ebreo si arrende ai ricordi: affiorano così facce e mozziconi di frasi in croato, luoghi e sensazioni a lungo soffocate.
Glavan si rivede bambino decenne, brutalmente costretto a interrompere un brano di Haydn studiato al pianoforte per fuggire a Trieste con la famiglia: rivede la nonna fulminata mentre si aggrappa alla rete di confine, e lui e la mamma che ne trascinano il cadavere in terra italiana.
Alla pacata rievocazione della storia straziante di Glavan si contrappongono i luminosi accenni di Radic alla sua esistenza attuale: la giovane moglie, i bambini di cui è orgogliosissimo, il suo impegno nel riscattare un passato collettivo di cui si sente corresponsabile. Per entrambi, dimenticare è impossibile, la memoria diventa condanna. Glavan ricorda la pazzia della madre, preda di ossessioni, di persecuzioni introiettate e oggettivate che non le lasciavano scampo: si colpevolizza per aver ceduto alla necessità di ricoverarla in una clinica psichiatrica, rinunciando – a causa della malattia materna – alla donna che amava. Stabilitosi in Austria, il suo destino di ebreo scampato all’olocausto gli condiziona tutta la vita e perciò di fronte alle insistenze di Radic perché accetti una ricompensa dovuta o meritata da parte dello stato croato, e perché rientri a Zagabria, Glavan dice di no. Un no tranquillo e meditato, consapevole che il passato non si può recuperare: il dolore sofferto è per sempre, irrimediabile, mai giustificato.
Questa storia personale e pubblica, privata e collettiva, ci viene narrata da Sergio Marzorati, autore schivo e parco nelle pubblicazioni quanto elegante ed essenziale nella prosa. Il romanzo è compreso nella collana  La memoria  dell’editrice Sellerio, e non potrebbe essere altrimenti.

 

«L’Arena», 24 aprile 1996

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MASCITELLI

GIORGIO MASCITELLI, PIOVE SEMPRE SUL BAGNATO – CONIGLIO, MILANO 2008

“…la compassione è indicata comunemente come un sentimento stupido, tipico di chi incontra per la prima volta i problemi del mondo che va male e perciò fa vergognare di sé chi la prova, che si sente coma una fatua creatura incapace di di fronte al vasto mare del mondo che va male”. Va male il mondo? Sì, malissimo. O forse non tanto, secondo questa favola metropolitana di Giorgio Mascitelli, ambientata nella Milano dei barboni e dei senzatetto, di borghesissimi benefattori e di aspiranti capitalisti, tutti sospesi tra indifferenza e compassione, tra altruismo e odio per i diversi. Il protagonista è un homeless, “lavoratore ucraino in mobilità e flessibilità internazionali in quel momento disoccupato, al quale era cresciuta la barba, così che poteva essere definito barbone senza per questo offendere nessuno”. Costui vive con rassegnata umiltà ma senza disperazione, coprendosi di cartoni in difesa dal freddo, in qualche anfratto della Stazione Centrale di Milano. Ed ecco che per un casuale miracolo della provvidenza con la p minuscola, un mattino viene avvicinato da un riccone in auto lussuosa che gli regala mille euro, in omaggio alla sua scelta di “libertà”, o più probabilmente per un malinteso senso di carità pelosa. Così per intere giornate il barbone cerca di soddisfare alcuni suoi desideri censurati da sempre, come quello di comperarsi un bel cappotto, o qualche bottiglia di vino prezioso. Non ci riesce. Viene allontanato dai negozi raffinati, oppure di nuovo confinato nel suo ruolo di miserabile, costretto come sempre ad accettare la carità. Incontra volontari diffidenti, vigili sospettosi, barboni rivali, una professoressa sensibile ma impaurita. Una Milano che non sa aprirsi, nemmeno in grado di cambiargli le sue banconote da 500 con altre di taglio più piccolo. Finisce quindi per regalare a sua volta l’obolo elargitogli, tornando al suo ruolo di accattone. Breve romanzo garbato, con qualche indulgenza al tono didascalico: scritto comunque con eleganza.

IBS, 17 luglio 2014

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MASSINI

STEFANO MASSINI, STATO CONTRO NOLAN – EINAUDI, 2019

Stefano Massini (Firenze, 1975) ha toccato in questo suo testo teatrale del 2019 – dall’impianto vivacemente cinematografico, con un serrato montaggio scenico –, alcune tematiche cruciali della nostra contemporaneità: il controllo del potere sulle vite degli individui, l’abilità manipolatoria dei media, il pregiudizio generalizzato nei riguardi del diverso, la smania di successo e di ricchezza economica, le responsabilità dell’apparato giuridico, e soprattutto l’ambiguità dei messaggi verbali a cui tutti ci affidiamo, per nostra ingenuità o rassegnazione.

Il caso giudiziario narrato è liberamente ispirato a notizie giornalistiche e a controversie processuali autentiche, ovviamente modificate nei riferimenti alle persone e alla località citate. Chi dà il nome alla pièce è Herbert Nolan, direttore dell’unico giornale di Leister, una tranquilla cittadina americana abitata da contadini taciturni e diffidenti. Nolan è imputato in un processo di natura commerciale; co-protagonisti sono un giudice, un procuratore distrettuale, l’avvocato della difesa e sei testimoni. Il giudice Rutherford apre il dibattimento rivolgendosi direttamente alle parti, ed esortando la giuria a dare un significato non puramente legale a quanto verrà discusso in aula, senza farsi influenzare da preconcetti: “Ciò che valuterete in quest’aula ha più che mai un valore superiore al piccolo caso che trattiamo”.

L’antefatto è quasi banale, ma sconvolgente perché circoscritto in una comunità chiusa, in “un posto tranquillo”, come recita il cartello di benvenuto alle soglie del paese. Uno sconosciuto, vestito con abiti logori, appesantito da una valigia legata da uno spago, cammina sulla statale 40 in una torrida giornata del luglio 1956. Assetato, si ferma davanti alla fattoria della famiglia Robichaux per chiedere da bere. Sulla veranda la giovane Else, con il capo coperto da un velo come in uso tra i cristiani anabattisti, si spaventa e urla. Il nonno, anziano e malato, esce dalla casa e spara all’uomo con un fucile Weiss, uccidendolo. Il Leister Telegraph, proprietà dell’imprenditore Herbert Nolan, pubblica per mesi titoli e servizi sensazionalistici, sfruttando e manipolando la notizia per creare panico tra i cittadini, e indurli così ad acquistare i prodotti dalla Weiss & Co. Armi da Fuoco (fabbrica locale di cui Nolan è principale azionista), che in pochi mesi vede triplicare i suoi profitti. Il processo deve quindi deliberare se i numerosi articoli usciti sul Leister Telegraph riguardo al caso Robichaux siano da ritenersi normale cronaca, o invece si configurino come promozione occulta dei fucili Weiss, celando un vistoso conflitto di interessi dell’imputato.

I sei testimoni chiamati a deporre (la giovane Else, il cronista polacco che aveva scritto gli articoli, il titolare dell’emporio di vendita delle armi, la maestra elementare, il pastore anabattista e il proprietario della fabbrica Weiss & Co.) offrono interpretazioni discordanti dello stesso episodio, ostinati nel difendere la loro verità anche contro ogni evidenza, e decisi a preservare la reputazione del loro operato e della collettività nei confronti dello straniero innocente, ma temibile, che aveva turbato la serenità del luogo con il suo solo inquietante apparire.

La causa in giudizio, che in Stato e Nolan rimane senza verdetto finale, verte essenzialmente sul diritto della stampa di conquistare l’interesse dei lettori anche servendosi di metodi poco onesti, falsificando i particolari dell’accaduto, esaltando o denigrando i protagonisti, ingigantendo titoli e fotografie. Più precisamente, si discute sul valore pubblico delle parole scritte. Come argomenta il cronista nel difendersi dalle accuse: “Usare le parole è rischiare: chiunque parla, chiunque scriva, chiunque si rivolga – in qualsiasi modo – a un altro essere umano, accetta di buon grado il pericolo di essere frainteso, usato, distorto… La normalità dei fatti non interessa mai, ma appena la normalità si spezza, lì c’è spazio per scrivere”.

Quando le parole vengono stampate, da umane quali sono, diventano magia, “sono eterne, immobili, nero su bianco, scritte come scritta è la Bibbia, scritte come scritte sono le leggi”. Producono echi assordanti, germogliano nei pensieri della gente, che non desidera altro se non di essere confermata nelle sue teorie e difesa dalle proprie paralizzanti paure.

Le parole sono pietre, possono orientare e disorientare, condannare e scagionare, santificare o distruggere. Lo sa bene Stefano Massini, che dal 2016 collabora al secondo giornale più venduto e letto in Italia, e da mesi firma un’interessante rubrica di successo proprio sul significato etimologico dei modi di dire e dei termini più comuni. La Repubblica, testata del Gruppo GEDI proprietà della famiglia Agnelli-Elkann, detiene il 25% del mercato editoriale nazionale.

© Riproduzione riservata      STEFANO MASSINI, STATO CONTRO NOLAN – EINAUDI, 2019

 

RECENSIONI

MASTROCOLA

PAOLA MASTROCOLA,  FACEBOOK IN THE RAIN – GUANDA, MILANO 2012

Un racconto gradevole e pulito, scritto in un linguaggio terso e privo di ambizioni artistiche, che sembra accontentarsi di narrare con delicatezza e pianamente una sorta di fiaba contemporanea, ambientata in un paesino dell’Appennino centrale, con protagonisti modesti che conducono una vita priva di slanci, avventure, ideologie. Anche la trama non si prefigge di indagare socialmente o psicologicamente il fenomeno dei network, ma semplicemente propone una storia di comune e tranquilla banalità sentimentale. Una vedova cinquantenne, il cui unico diversivo quotidiano sembra essere la visita al cimitero alla tomba del marito, e lo scambio di confidenze e piccoli favori con altre donne in lutto, scopre improvvisamente la possibilità di aprirsi al mondo attraverso Facebook, e diventa inconsapevolmente ma implacabilmente una vittima di Internet.

«Uno si sentiva subito meglio, subito…collegato. Mai più solo, senza fili. Si sentiva una centrale da cui si diramavano infiniti fili che andavano tutti verso le altre persone e le legavano a sé… Una rete, appunto!»

Su Facebook, Evandra incontra vecchi compagni di scuola e sconosciuti, e viene tentata anche dal desiderio di conoscere queste persone fisicamente, imbattendosi di conseguenza in cocenti delusioni e in pericolosi imprevisti. Rimane comunque tanto dipendente dal suo pc, da preferire questa sua nuova esistenza virtuale alla realtà dei rapporti familiari e amicali di sempre.
Questa passione informatica le provoca però ben presto acuti sensi di colpa in quanto la distoglie dalle visite al camposanto, in passato trascurate solo nelle giornate di pioggia. Sarà un suo timido corteggiatore a cercare goffamente di risolvere gli scrupoli vedovili di lei con un ingegnoso sistema idraulico in grado di far piovere davanti alle finestre del suo appartamento, giustificando così le sue assenze dal cimitero e indirizzando il racconto verso un prevedibile e romantico lieto fine.

 

«Leggendaria» n. 95, settembre 2012

RECENSIONI

MATAR

HISHAM MATAR, UN PUNTO DI APPRODO   ̶   EINAUDI, TORINO 2020

Due anni dopo il romanzo autobiografico Il ritorno, premio Pulitzer nel 2017, Hisham Matar pubblica sempre da Einaudi Un punto di approdo, riprendendo in parte i precedenti spunti narrativi, ma facendoli lievitare in un contesto assolutamente diverso, italiano e artistico. Hisham, nato a New York nel 1970 e cresciuto a Tripoli, è figlio di Jaballa Matar, un diplomatico libico oppositore del regime, di cui tuttora non si conosce la sorte successiva al suo rapimento e alla prigionia nel carcere di Abu Salim.

Nel 1990, anno della sparizione del padre, Hisham aveva diciannove anni e viveva a Londra (città dove tuttora risiede), e passava molte giornate alla National Gallery a osservare i capolavori della pittura medievale senese, impressionato dal loro misterioso e sconvolgente fascino: “Ho scoperto che un dipinto richiede tempo. Ora impiego parecchi mesi o più spesso un anno prima di riuscire a passare oltre. E nel frattempo quel quadro diventa un luogo mentale e fisico della mia vita”.

Qualche anno fa, Hisham Matar, stremato dal lungo lavoro introspettivo richiestogli dalla composizione del suo romanzo di maggiore successo, decise di recarsi a Siena per meglio approfondire il suo interesse per l’arte italiana: una vera e propria dipendenza emotiva. Accompagnato nei primi giorni del viaggio dalla moglie Diana, subito si immerse in un girovagare affrancato da ogni vincolo di finalità pratica, in una flanerie disponibile a lasciarsi impressionare da qualsiasi oggetto, architettura, fisionomia umana, paesaggio naturale suscitasse in lui eventuali suggestioni.

Un vero inno d’amore per la città affiora dalle descrizioni delle prime pagine: “Le curve improvvise dei vicoli e la prossimità degli edifici accrescevano la mia sensazione di entrare in un organismo vivente. A ogni passo mi ci insinuavo un po’ di più ed esso, quasi in risposta, mi faceva spazio. Ero entrato in un posto familiare e del tutto sconosciuto… Ricordo di aver pensato che una delle principali funzioni delle città è proprio questa: essere lì in parte per renderci più intelligenti e più intelligibili l’uno all’altro”.

La scelta editoriale einaudiana di titolare il romanzo in modo diverso rispetto alla versione inglese (A month in Siena) non risulta affatto peregrina, poiché intende sottolineare l’avventura intellettuale vissuta dall’autore nel senso di uno sbarco e ancoraggio in una nuova dimensione spirituale. Infatti l’esperienza compiuta da Matar nel mese trascorso a Siena, è stata per lui, scrittore ormai maturo e affermato, rigenerativa e insieme trasformatrice: l’emozione suscitata dall’immersione visiva negli affreschi di Duccio di Boninsegna, Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti, è diventata stimolo a una riflessione sugli avvenimenti basilari della propria vita, sulle presenze e assenze che ne hanno segnato indelebilmente il percorso.

Le considerazioni dello scrittore sui quadri ammirati e studiati nella città toscana costituiscono dei veri e propri piccoli trattati di critica d’arte. Il capitolo dedicato alla contemplazione dell’Allegoria del Buon Governo (il volume è corredato da illustrazioni a colori) è un puntuale commento della visione filosofica e storica alla base delle soluzioni pittoriche praticate da Lorenzetti. E da ciascuna delle opere d’arte osservate, Matar trae spunto per annodare collegamenti ad altri quadri antichi e moderni, a ricordi di incontri avvenuti in diverse epoche e luoghi della sua esistenza, all’ intenso legame con la moglie, alla memoria lancinante per la nobile figura del padre scomparso, o semplicemente ai sogni e agli incubi notturni. E soprattutto alla storia contemporanea, alle sue ingiustizie a atrocità, per cui anche la crudeltà dello sgozzamento di Golia da parte del Davide caravaggesco ha la funzione di far meditare sulle sanguinarie esecuzioni del terrorismo internazionale.

L’osservazione dei capolavori pittorici assume un valore di svelamento della condizione umana, del suo patire come del suo essere felice, nella relazione intessuta tra l’artista e la sua epoca, tra un quadro e chi lo guarda, tra un particolare colore e un trasalimento dell’anima, nella convinzione che “quanto ci accomuna sia più di quanto ci separa”.  L’arte ha il potere di cambiare il nostro modo di guardare a noi stessi e al mondo, di aprirci a meglio esplorare ciò che ci circonda, in una condivisione del sentire che è immersione nei secoli di storia che ci hanno preceduto e nella proiezione di un futuro sempre più perfettibile.

Un romanzo particolare e nuovo, questo di Matar, reso di piacevole lettura grazie anche alla limpida traduzione di Anna Nadotti.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 24 settembre 2020

 

 

 

 

 

 

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