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MARZANO

MARCO MARZANO, QUEL CHE RESTA DEI CATTOLICI – FELTRINELLI, MILANO 2012

Emblematica l’immagine di copertina del libro-inchiesta di Marco Marzano: un vistoso cerotto a forma di croce su fondo bianco, a indicare il tentativo di arginare una ferita, un sanguinamento, o di tappare una falla. In Quel che resta dei cattolici tre anni di interviste, di viaggi, di frequentazioni private e pubbliche, di approfondimenti culturali, hanno portato l’autore (non credente ma educato in una famiglia tradizionalmente praticante, e oggi professore di sociologia all’Università di Bergamo) a sondare il terreno scivoloso e spesso tendenziosamente occultato della fede e della pratica religiosa in Italia. A partire dalle realtà più popolari delle parrocchie, dei campi scuola, dei seminari, delle messe disertate, delle superstizioni, dei settarismi, della stanchezza e della solitudine del clero. Per concludere che il nostro è un paese «sempre più secolarizzato o meglio deistituzionalizzato, in costante allontanamento da quella che è stata per secoli la “sua” chiesa».

Un paese in cui i fedeli non frequentano più i sacramenti, in particolare la confessione, avvertita come un rito obsoleto e invasivo della propria privacy: oggi il senso del peccato è stato sostituito da quello del disagio psicologico, la penitenza dal rinforzo della propria autostima, il rimorso è ritenuto una eccessiva pruderie sentimentale.
E tutti gli altri riti soffrono della stessa grave crisi: dal matrimonio in chiesa soppiantato dalle convivenze, dai funerali gestiti come happenings musicali e riunioni familiari, dalle cresime totalmente insignificanti e incomprese, fino alle ordinazioni presbiteriali ormai ridotte a numeri esigui e umilianti. Si salva forse ancora il battesimo, che i genitori vivono però quasi come una vaccinazione, «un’assicurazione contro gli imprevisti, un rituale magico di protezione». Sembra che la Chiesa descritta da Marco Marzano in Quel che resta dei cattolici abbia ormai ben poco da dire a una popolazione disinibita e superficiale, attirata semmai da pericolosi movimenti settari, prede di fanatismi teologicamente poco fondati.

 

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www.sololibri.net/Quel-che-resta-cattolici-Marzano.html            22aprile 2016

 

RECENSIONI

MARZORATI

SERGIO MARZORATI, RITORNO A ZAGABRIA – SELLERIO, PALERMO 1995

Dopo cinquant’anni di assenza, lo scienziato Felix Glavan torna a Zagabria, abbandonata precipitosamente con la famiglia all’epoca delle persecuzioni razziali contro gli ebrei. A richiamarlo in patria, con la promessa di un reinserimento nella sua città natale e di una reintegrazione delle case e dei beni sequestrati dai comunisti, è un giovane funzionario del nuovo stato croato, Stijepan Radic, la cui famiglia aveva conosciuto la famiglia Glavan, mantenendone nel tempo un ricordo ammirato e solidale. Separati dall’età, da esperienze diverse e da funzioni contrastanti (Radic è un giovanotto di grande sensibilità ed entusiastiche letture, Glavan un sessantenne di successo che ha deciso di rimuovere il passato, cancellandone le tracce dalla memoria. Il primo è credente e fiducioso nelle sorti dell’umanità; il secondo è ateo, scettico, privo di affetti), tra di loro si svolge una civilissima e partecipe conversazione nel corso della quale lo scienziato ebreo si arrende ai ricordi: affiorano così facce e mozziconi di frasi in croato, luoghi e sensazioni a lungo soffocate.
Glavan si rivede bambino decenne, brutalmente costretto a interrompere un brano di Haydn studiato al pianoforte per fuggire a Trieste con la famiglia: rivede la nonna fulminata mentre si aggrappa alla rete di confine, e lui e la mamma che ne trascinano il cadavere in terra italiana.
Alla pacata rievocazione della storia straziante di Glavan si contrappongono i luminosi accenni di Radic alla sua esistenza attuale: la giovane moglie, i bambini di cui è orgogliosissimo, il suo impegno nel riscattare un passato collettivo di cui si sente corresponsabile. Per entrambi, dimenticare è impossibile, la memoria diventa condanna. Glavan ricorda la pazzia della madre, preda di ossessioni, di persecuzioni introiettate e oggettivate che non le lasciavano scampo: si colpevolizza per aver ceduto alla necessità di ricoverarla in una clinica psichiatrica, rinunciando – a causa della malattia materna – alla donna che amava. Stabilitosi in Austria, il suo destino di ebreo scampato all’olocausto gli condiziona tutta la vita e perciò di fronte alle insistenze di Radic perché accetti una ricompensa dovuta o meritata da parte dello stato croato, e perché rientri a Zagabria, Glavan dice di no. Un no tranquillo e meditato, consapevole che il passato non si può recuperare: il dolore sofferto è per sempre, irrimediabile, mai giustificato.
Questa storia personale e pubblica, privata e collettiva, ci viene narrata da Sergio Marzorati, autore schivo e parco nelle pubblicazioni quanto elegante ed essenziale nella prosa. Il romanzo è compreso nella collana  La memoria  dell’editrice Sellerio, e non potrebbe essere altrimenti.

 

«L’Arena», 24 aprile 1996

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MASCITELLI

GIORGIO MASCITELLI, PIOVE SEMPRE SUL BAGNATO – CONIGLIO, MILANO 2008

“…la compassione è indicata comunemente come un sentimento stupido, tipico di chi incontra per la prima volta i problemi del mondo che va male e perciò fa vergognare di sé chi la prova, che si sente coma una fatua creatura incapace di di fronte al vasto mare del mondo che va male”. Va male il mondo? Sì, malissimo. O forse non tanto, secondo questa favola metropolitana di Giorgio Mascitelli, ambientata nella Milano dei barboni e dei senzatetto, di borghesissimi benefattori e di aspiranti capitalisti, tutti sospesi tra indifferenza e compassione, tra altruismo e odio per i diversi. Il protagonista è un homeless, “lavoratore ucraino in mobilità e flessibilità internazionali in quel momento disoccupato, al quale era cresciuta la barba, così che poteva essere definito barbone senza per questo offendere nessuno”. Costui vive con rassegnata umiltà ma senza disperazione, coprendosi di cartoni in difesa dal freddo, in qualche anfratto della Stazione Centrale di Milano. Ed ecco che per un casuale miracolo della provvidenza con la p minuscola, un mattino viene avvicinato da un riccone in auto lussuosa che gli regala mille euro, in omaggio alla sua scelta di “libertà”, o più probabilmente per un malinteso senso di carità pelosa. Così per intere giornate il barbone cerca di soddisfare alcuni suoi desideri censurati da sempre, come quello di comperarsi un bel cappotto, o qualche bottiglia di vino prezioso. Non ci riesce. Viene allontanato dai negozi raffinati, oppure di nuovo confinato nel suo ruolo di miserabile, costretto come sempre ad accettare la carità. Incontra volontari diffidenti, vigili sospettosi, barboni rivali, una professoressa sensibile ma impaurita. Una Milano che non sa aprirsi, nemmeno in grado di cambiargli le sue banconote da 500 con altre di taglio più piccolo. Finisce quindi per regalare a sua volta l’obolo elargitogli, tornando al suo ruolo di accattone. Breve romanzo garbato, con qualche indulgenza al tono didascalico: scritto comunque con eleganza.

IBS, 17 luglio 2014

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MASSINI

STEFANO MASSINI, STATO CONTRO NOLAN – EINAUDI, 2019

Stefano Massini (Firenze, 1975) ha toccato in questo suo testo teatrale del 2019 – dall’impianto vivacemente cinematografico, con un serrato montaggio scenico –, alcune tematiche cruciali della nostra contemporaneità: il controllo del potere sulle vite degli individui, l’abilità manipolatoria dei media, il pregiudizio generalizzato nei riguardi del diverso, la smania di successo e di ricchezza economica, le responsabilità dell’apparato giuridico, e soprattutto l’ambiguità dei messaggi verbali a cui tutti ci affidiamo, per nostra ingenuità o rassegnazione.

Il caso giudiziario narrato è liberamente ispirato a notizie giornalistiche e a controversie processuali autentiche, ovviamente modificate nei riferimenti alle persone e alla località citate. Chi dà il nome alla pièce è Herbert Nolan, direttore dell’unico giornale di Leister, una tranquilla cittadina americana abitata da contadini taciturni e diffidenti. Nolan è imputato in un processo di natura commerciale; co-protagonisti sono un giudice, un procuratore distrettuale, l’avvocato della difesa e sei testimoni. Il giudice Rutherford apre il dibattimento rivolgendosi direttamente alle parti, ed esortando la giuria a dare un significato non puramente legale a quanto verrà discusso in aula, senza farsi influenzare da preconcetti: “Ciò che valuterete in quest’aula ha più che mai un valore superiore al piccolo caso che trattiamo”.

L’antefatto è quasi banale, ma sconvolgente perché circoscritto in una comunità chiusa, in “un posto tranquillo”, come recita il cartello di benvenuto alle soglie del paese. Uno sconosciuto, vestito con abiti logori, appesantito da una valigia legata da uno spago, cammina sulla statale 40 in una torrida giornata del luglio 1956. Assetato, si ferma davanti alla fattoria della famiglia Robichaux per chiedere da bere. Sulla veranda la giovane Else, con il capo coperto da un velo come in uso tra i cristiani anabattisti, si spaventa e urla. Il nonno, anziano e malato, esce dalla casa e spara all’uomo con un fucile Weiss, uccidendolo. Il Leister Telegraph, proprietà dell’imprenditore Herbert Nolan, pubblica per mesi titoli e servizi sensazionalistici, sfruttando e manipolando la notizia per creare panico tra i cittadini, e indurli così ad acquistare i prodotti dalla Weiss & Co. Armi da Fuoco (fabbrica locale di cui Nolan è principale azionista), che in pochi mesi vede triplicare i suoi profitti. Il processo deve quindi deliberare se i numerosi articoli usciti sul Leister Telegraph riguardo al caso Robichaux siano da ritenersi normale cronaca, o invece si configurino come promozione occulta dei fucili Weiss, celando un vistoso conflitto di interessi dell’imputato.

I sei testimoni chiamati a deporre (la giovane Else, il cronista polacco che aveva scritto gli articoli, il titolare dell’emporio di vendita delle armi, la maestra elementare, il pastore anabattista e il proprietario della fabbrica Weiss & Co.) offrono interpretazioni discordanti dello stesso episodio, ostinati nel difendere la loro verità anche contro ogni evidenza, e decisi a preservare la reputazione del loro operato e della collettività nei confronti dello straniero innocente, ma temibile, che aveva turbato la serenità del luogo con il suo solo inquietante apparire.

La causa in giudizio, che in Stato e Nolan rimane senza verdetto finale, verte essenzialmente sul diritto della stampa di conquistare l’interesse dei lettori anche servendosi di metodi poco onesti, falsificando i particolari dell’accaduto, esaltando o denigrando i protagonisti, ingigantendo titoli e fotografie. Più precisamente, si discute sul valore pubblico delle parole scritte. Come argomenta il cronista nel difendersi dalle accuse: “Usare le parole è rischiare: chiunque parla, chiunque scriva, chiunque si rivolga – in qualsiasi modo – a un altro essere umano, accetta di buon grado il pericolo di essere frainteso, usato, distorto… La normalità dei fatti non interessa mai, ma appena la normalità si spezza, lì c’è spazio per scrivere”.

Quando le parole vengono stampate, da umane quali sono, diventano magia, “sono eterne, immobili, nero su bianco, scritte come scritta è la Bibbia, scritte come scritte sono le leggi”. Producono echi assordanti, germogliano nei pensieri della gente, che non desidera altro se non di essere confermata nelle sue teorie e difesa dalle proprie paralizzanti paure.

Le parole sono pietre, possono orientare e disorientare, condannare e scagionare, santificare o distruggere. Lo sa bene Stefano Massini, che dal 2016 collabora al secondo giornale più venduto e letto in Italia, e da mesi firma un’interessante rubrica di successo proprio sul significato etimologico dei modi di dire e dei termini più comuni. La Repubblica, testata del Gruppo GEDI proprietà della famiglia Agnelli-Elkann, detiene il 25% del mercato editoriale nazionale.

© Riproduzione riservata      STEFANO MASSINI, STATO CONTRO NOLAN – EINAUDI, 2019

 

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MASTROCOLA

PAOLA MASTROCOLA,  FACEBOOK IN THE RAIN – GUANDA, MILANO 2012

Un racconto gradevole e pulito, scritto in un linguaggio terso e privo di ambizioni artistiche, che sembra accontentarsi di narrare con delicatezza e pianamente una sorta di fiaba contemporanea, ambientata in un paesino dell’Appennino centrale, con protagonisti modesti che conducono una vita priva di slanci, avventure, ideologie. Anche la trama non si prefigge di indagare socialmente o psicologicamente il fenomeno dei network, ma semplicemente propone una storia di comune e tranquilla banalità sentimentale. Una vedova cinquantenne, il cui unico diversivo quotidiano sembra essere la visita al cimitero alla tomba del marito, e lo scambio di confidenze e piccoli favori con altre donne in lutto, scopre improvvisamente la possibilità di aprirsi al mondo attraverso Facebook, e diventa inconsapevolmente ma implacabilmente una vittima di Internet.

«Uno si sentiva subito meglio, subito…collegato. Mai più solo, senza fili. Si sentiva una centrale da cui si diramavano infiniti fili che andavano tutti verso le altre persone e le legavano a sé… Una rete, appunto!»

Su Facebook, Evandra incontra vecchi compagni di scuola e sconosciuti, e viene tentata anche dal desiderio di conoscere queste persone fisicamente, imbattendosi di conseguenza in cocenti delusioni e in pericolosi imprevisti. Rimane comunque tanto dipendente dal suo pc, da preferire questa sua nuova esistenza virtuale alla realtà dei rapporti familiari e amicali di sempre.
Questa passione informatica le provoca però ben presto acuti sensi di colpa in quanto la distoglie dalle visite al camposanto, in passato trascurate solo nelle giornate di pioggia. Sarà un suo timido corteggiatore a cercare goffamente di risolvere gli scrupoli vedovili di lei con un ingegnoso sistema idraulico in grado di far piovere davanti alle finestre del suo appartamento, giustificando così le sue assenze dal cimitero e indirizzando il racconto verso un prevedibile e romantico lieto fine.

 

«Leggendaria» n. 95, settembre 2012

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MATAR

HISHAM MATAR, UN PUNTO DI APPRODO   ̶   EINAUDI, TORINO 2020

Due anni dopo il romanzo autobiografico Il ritorno, premio Pulitzer nel 2017, Hisham Matar pubblica sempre da Einaudi Un punto di approdo, riprendendo in parte i precedenti spunti narrativi, ma facendoli lievitare in un contesto assolutamente diverso, italiano e artistico. Hisham, nato a New York nel 1970 e cresciuto a Tripoli, è figlio di Jaballa Matar, un diplomatico libico oppositore del regime, di cui tuttora non si conosce la sorte successiva al suo rapimento e alla prigionia nel carcere di Abu Salim.

Nel 1990, anno della sparizione del padre, Hisham aveva diciannove anni e viveva a Londra (città dove tuttora risiede), e passava molte giornate alla National Gallery a osservare i capolavori della pittura medievale senese, impressionato dal loro misterioso e sconvolgente fascino: “Ho scoperto che un dipinto richiede tempo. Ora impiego parecchi mesi o più spesso un anno prima di riuscire a passare oltre. E nel frattempo quel quadro diventa un luogo mentale e fisico della mia vita”.

Qualche anno fa, Hisham Matar, stremato dal lungo lavoro introspettivo richiestogli dalla composizione del suo romanzo di maggiore successo, decise di recarsi a Siena per meglio approfondire il suo interesse per l’arte italiana: una vera e propria dipendenza emotiva. Accompagnato nei primi giorni del viaggio dalla moglie Diana, subito si immerse in un girovagare affrancato da ogni vincolo di finalità pratica, in una flanerie disponibile a lasciarsi impressionare da qualsiasi oggetto, architettura, fisionomia umana, paesaggio naturale suscitasse in lui eventuali suggestioni.

Un vero inno d’amore per la città affiora dalle descrizioni delle prime pagine: “Le curve improvvise dei vicoli e la prossimità degli edifici accrescevano la mia sensazione di entrare in un organismo vivente. A ogni passo mi ci insinuavo un po’ di più ed esso, quasi in risposta, mi faceva spazio. Ero entrato in un posto familiare e del tutto sconosciuto… Ricordo di aver pensato che una delle principali funzioni delle città è proprio questa: essere lì in parte per renderci più intelligenti e più intelligibili l’uno all’altro”.

La scelta editoriale einaudiana di titolare il romanzo in modo diverso rispetto alla versione inglese (A month in Siena) non risulta affatto peregrina, poiché intende sottolineare l’avventura intellettuale vissuta dall’autore nel senso di uno sbarco e ancoraggio in una nuova dimensione spirituale. Infatti l’esperienza compiuta da Matar nel mese trascorso a Siena, è stata per lui, scrittore ormai maturo e affermato, rigenerativa e insieme trasformatrice: l’emozione suscitata dall’immersione visiva negli affreschi di Duccio di Boninsegna, Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti, è diventata stimolo a una riflessione sugli avvenimenti basilari della propria vita, sulle presenze e assenze che ne hanno segnato indelebilmente il percorso.

Le considerazioni dello scrittore sui quadri ammirati e studiati nella città toscana costituiscono dei veri e propri piccoli trattati di critica d’arte. Il capitolo dedicato alla contemplazione dell’Allegoria del Buon Governo (il volume è corredato da illustrazioni a colori) è un puntuale commento della visione filosofica e storica alla base delle soluzioni pittoriche praticate da Lorenzetti. E da ciascuna delle opere d’arte osservate, Matar trae spunto per annodare collegamenti ad altri quadri antichi e moderni, a ricordi di incontri avvenuti in diverse epoche e luoghi della sua esistenza, all’ intenso legame con la moglie, alla memoria lancinante per la nobile figura del padre scomparso, o semplicemente ai sogni e agli incubi notturni. E soprattutto alla storia contemporanea, alle sue ingiustizie a atrocità, per cui anche la crudeltà dello sgozzamento di Golia da parte del Davide caravaggesco ha la funzione di far meditare sulle sanguinarie esecuzioni del terrorismo internazionale.

L’osservazione dei capolavori pittorici assume un valore di svelamento della condizione umana, del suo patire come del suo essere felice, nella relazione intessuta tra l’artista e la sua epoca, tra un quadro e chi lo guarda, tra un particolare colore e un trasalimento dell’anima, nella convinzione che “quanto ci accomuna sia più di quanto ci separa”.  L’arte ha il potere di cambiare il nostro modo di guardare a noi stessi e al mondo, di aprirci a meglio esplorare ciò che ci circonda, in una condivisione del sentire che è immersione nei secoli di storia che ci hanno preceduto e nella proiezione di un futuro sempre più perfettibile.

Un romanzo particolare e nuovo, questo di Matar, reso di piacevole lettura grazie anche alla limpida traduzione di Anna Nadotti.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 24 settembre 2020

 

 

 

 

 

 

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MATTEI

PIERA MATTEI, DELL’INVIDIA DEGLI AMICI. DA FRANCESCO PETRARCA – GATTOMERLINO, ROMA 2024

Nel settimo centenario della nascita di Francesco Petrarca, Piera Mattei – fondatrice delle edizioni romane Gattomerlino – dedica al poeta aretino un monologo teatrale, che intitola Dell’invidia degli amici, a cui accompagna il breve saggio Quando i cieli cadranno, con la riproduzione dei testi latini di Libera me e Dies irae. La prima sezione del piccolo volume è dedicata quindi a un assemblaggio di vari scritti petrarcheschi: lettere in esametri e in prosa, l’epistola Posteritati e il De Ignorantia, confessioni e ricordi di momenti diversi della vita dell’illustre letterato, tutti accomunati da alcune costanti interpretative del suo carattere.

In primo luogo, la vanità, da lui stesso riconosciuta e ammessa come difetto; secondariamente l’invidia, pervicacemente negata e aborrita nel proprio sentire, e invece avvertita negli altri. Ossessionato dal timore di non essere amato e compreso dai contemporanei, Petrarca camuffava le sue debolezze utilizzando i criteri dell’eloquenza e dell’invenzione classicheggiante.

Piera Mattei introduce e conclude il monologo rielaborando i Psalmi Penitentiales, segnati da un’ansia di penitenza e da una funerea premonizione di morte, alleggerite in finale dal salmo in lode della Creazione, che con echi francescani glorifica la bellezza della natura e dell’essere umano.

Il senso della vanità dell’esistenza, reso più angosciante dalla consapevolezza delle proprie colpe, appare esplicito nelle reiterate affermazioni che aprono il monologo: “Ahimè! Vedo con fuga precipitosa trascorrere il tempo. Il mondo se ne va… Per te è già trascorsa gran parte del giorno. Hai vagato finora irrequieto. Ripiega adesso le vele! Raccogli le gomene, per morire infine in un porto”, “Sono furioso contro me stesso, odioso, pericoloso a me stesso”. Tuttavia, nel profondo, il poeta è ben consapevole del proprio valore, e non resiste alla tentazione di sottolinearne la grandezza, vantandosi dei tributi ricevuti in Italia e all’estero: “Sia gloria a Dio, tutta la mia vita è stata onorata dall’amicizia degli uomini più grandi, dei più dotti. Roberto, re di Sicilia, quando ero ancora giovanissimo mi onorò con il riconoscimento delle mie capacità e del mio sapere! Non ricordano forse costoro la mia incoronazione in Campidoglio?”

Ciò nonostante, il timore che la sua eccellenza artistica non venga compresa lo assedia, e accusa conoscenti e intellettuali di astiosa rivalità, di malevola gelosia: “L’invidia. Ancora non sono esonerato dall’invidia. Subisco gli attacchi non so se di un’invidiosa amicizia o di una falsa amicizia, invidiosa… La fama è cosa faticosa, difficile, soprattutto la fama letteraria. Contro di lei stanno tutti all’erta, armati. Anche quelli che non possono sperare d’averla si sforzano di strapparla a chi ce l’ha”. Riversa il suo rancore soprattutto sui soli quattro amici che lo frequentano: “emisero il verdetto di condanna, non verso di me che certamente amano, ma verso la mia fama, che odiano”. Ma ammette a fatica il proprio sentimento d’inferiorità nei riguardi di Dante, di cui non aveva voluto leggere l’opera, timoroso di un confronto umiliante.

La lode a Dio, comunque, innalza Petrarca al di sopra di ogni miseria umana, e si esprime in parole grate e celebrative: “Non ho dimenticato tutto ciò che mi hai dato, ottimo elargitore. Il cielo e le stelle, l’avvicendarsi delle stagioni creasti per me”.

L’omaggio di Piera Mattei al poeta del Canzoniere si conclude con l’esplorazione del canto gregoriano, nella seconda parte del libro intitolata Quando i cieli cadranno. Per canto gregoriano si intende un patrimonio di circa tremila preghiere cantate in latino, secondo un criterio modale, monodico, e privo di accompagnamento musicale, custodite nei monasteri medievali e nel corso dei secoli riproposte durante le cerimonie religiose. Di tali componimenti, solo il cantore e il coro conoscevano parole e musica, mentre la comunità dei fedeli seguiva a senso il suono, spesso storpiando il testo che non sapeva comprendere e tradurre. In tale repertorio occupavano un rilevo particolare i canti per i defunti, dove visioni drammatiche si ispiravano all’Apocalisse e al Giudizio Universale. Piera Mattei ripropone la prima pagina dello spartito, il testo latino e la traduzione italiana di Libera me e del Dies Irae

Con l’abolizione del latino dalla Messa, decisa dal Concilio Vaticano II del 1963, i canti gregoriani (molto amati dal popolo per la loro arcana, dolcissima e suggestiva armonia) sono quasi scomparsi dalla liturgia, poiché si è preferito sottolineare la benevolenza piuttosto che l’ira punitrice di Dio. Ricordiamo comunque gli incipit dei due citati, che mantengono una potenza conturbante e misteriosa: “Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda / Quando coeli movendi sunt et terra”, “Dies irae, dies illa, solvet saeculum in favilla”.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 19 ottobre 2024

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MATTEONI

FRANCESCA MATTEONI, ACQUABUIA – ARAGNO, TORINO 2014

Francesca Matteoni (Pistoia, 1975) ha pubblicato un romanzo (Tutti gli altri), diversi racconti e diversi libri di poesia; collabora ad alcuni blog e ne ha creati due (Fiabesca e Orso polare); è vissuta a lungo in Inghilterra, occupandosi di storia e folklore; è appassionata studiosa di tradizioni nordiche, di cultura popolare, di etnologia e di etologia. Il suo interesse per la natura, rivisitata attraverso le lenti caleidoscopiche della narrazione affabulatrice e fantastica, si rivela anche nei versi di Acquabuia, il volume di poesie pubblicato da Aragno nel 2014. Un libro animato da presenze concrete e fantastiche, umane e animalesche, infantili e senili, fatate e stregonesche, vegetali e minerali: ad esse la poeta presta la sua voce di interprete visionaria, adepta di una filosofia dal respiro cosmico e terragno insieme.“Fiori che non sapete, fin dentro / le mie ossa tintinnate”, “Ogni passo fa un grano / di sabbia del mare. / Ogni pietra è una testa di animale”, “è tutto un frusciare di odori / – secco di terra, tiglio, cardamomo”, “L’orso ci guida ogni notte / nel suo pelo di stelle”, “Ardono nei capelli delle fate / i monti scanalati fino al prato”.

Ma questo mondo fiabesco (popolato di bambini, mostri, boschi, torrenti, stelle, rocce bisbiglianti) non ha nulla di innocente, consolatorio, clemente: è invece oscuro, minaccioso, denso di sofferenza. Francesca Matteoni tenta appostamenti di senso, giri concentrici di significato, ma con diffidenza, senza alcun abbandono gioioso, quasi sperdendosi tra metafore e visioni concentriche, ripetute: mulinelli in un’acquabuia vorticosa da cui non si salva nulla, né l’infanzia né l’amore:“E se il corpo guarisce / s’inasprisce la mente / si fa vuoto, si allaga di pietre quelle poste nel cerchio, / scaglie, fango nero del fuoco”, “Era un reparto oppure un buco / la faglia, lei stessa divorata / la seduta psichiatrica dei tuoi veleni / come cadevano dal sotterraneo. / Avresti detto tutto, perfino il falso”.

Per cui le immagini assumono l’aspetto di incubi, si confondono sovrapponendosi e intricandosi come i rami di una foresta labirintica, fagocitante, spaventosa. L’unico appiglio-salvagente cui aggrapparsi affiora qua e là nella musicalità dei versi, cantabilissimi endecasillabi che volutamente stridono con la perentorietà sentenziosa degli attacchi e delle chiuse, e con l’angosciante brulicare delle figurazioni.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Acquabuia-Francesca-Matteoni.html             7 settembre 2016

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MAUGHAM

SOMERSET MAUGHAM, PIOGGIA – ADELPHI, MILANO 2012

Da anni Adelphi sta ripubblicando i romanzi e i racconti di William Somerset Maugham (1874-1965), controverso autore britannico che nella prima metà del ’900 conobbe un enorme successo internazionale e vivaci polemiche, sia per la brillantezza della scrittura, sia per la sua attività di spionaggio al soldo dei servizi segreti inglesi, sia per la sua burrascosa vita privata.

Il libriccino azzurro della “Piccola Biblioteca” comprende due racconti, Pioggia e Il reprobo, entrambi ambientati nelle isole dell’Oceano Pacifico, dove Maugham viaggiò e soggiornò a lungo tra il 1916 e il 1930, diventando il cronista per antonomasia dell’ultimo periodo del colonialismo inglese. Accomunati non solo dallo sfondo naturale (ritratto negli affascinanti paesaggi marini, nella vegetazione lussureggiante e nei turbinosi mutamente climatici), ma soprattutto dal sarcasmo con cui vengono tratteggiati i personaggi principali nella loro ansia puritana di redenzione, pedine dell’eterno conflitto tra il bene e il male.

Ecco due esempi di descrizione paesaggistica ricavati dalle novelle: “Non era la pioggerella inglese, che cade gentilmente sulla terra; era una pioggia spietata, in qualche modo terribile; ci sentivi la malignità delle forze primordiali della natura. Non cadeva, fluiva. Era un diluvio celeste, e batteva sul tetto di lamiera con un’insistenza esasperante. Sembrava animata da un’intima rabbia”, “Il mare era un olio, e il sole tramontò fulgido. Tramontò dietro un’isola e per qualche minuto la mutò in una mistica città celeste… Calò la notte e subito il cielo fu pieno di stelle”.

Il reprobo del secondo racconto è un giovanotto inglese alcolizzato e violento, Ginger Ted, che vive di traffici strani nell’isola di Baru, accoppiandosi con giovani indigene e facendo a pugni con chiunque gli capiti a tiro. Il missionario-medico del luogo, Mr. Jones, insieme a sua sorella Martha (una pia quarantenne ossuta e severa) si propongono di recuperare il malvagio alla vita civile della comunità, e sarà proprio la donna a riuscire non solo a redimerlo, ma a farne un proselito cristiano altruista e astemio, convincendolo addirittura alle nozze, dopo aver trascorso casualmente una notte con lui, senza patire alcun oltraggio, e averne intuito l’insospettata sensibilità.

Pioggia, racconto giustamente celebre anche per tre trasposizioni cinematografiche (del 1928, del 1932 e del 1953 con Gloria Swanson, Joan Crawford e Rita Hayworth) è più drammaticamente teso dal punto di vista etico. Ancora in primo piano è un missionario-medico, Mr. Davidson, alto e magro, taciturno e cupo, con “occhi grandi e tragici”, segnato da “un senso come di fuoco represso, che sconcertava ed era vagamente inquietante”. Costretto da un’epidemia di morbillo a riparare con la moglie in una squallida casa privata insieme ad altri viaggiatori, sbarcati con loro dalla stessa nave, deve condividere la quarantena di due settimane con Miss Thompson, una ventisettenne rotondetta, querula e ordinaria, presto rivelatasi come una prostituta in fuga dal proprio passato. L’ossessione della conversione evangelica si impossessa del protagonista, formalmente integerrimo, intimamente perturbato. Spinto dall’ansia di salvare le anime, nel suo ruolo di religioso si era votato con la moglie a instillare negli indigeni il senso del peccato, a loro del tutto ignoto, proibendo qualsiasi promiscuità sessuale, danze e atteggiamenti illeciti, credenze idolatre, e obbligandoli a coprire le loro nudità: “Li salveremo loro malgrado”, ripeteva, esercitando il proprio potere censorio attraverso un sistema di multe. Tanta rigorosa e austera moralità del reverendo finisce per trasformarsi in una crudele persecuzione nei riguardi della coinquilina reietta, obbligata a chiudersi nella sua stanza senza alcun rapporto con l’esterno, a umiliarsi in riti e preghiere che si protraggono giorno e notte, e infine a lasciare l’isola su ordine del governatore per tornare a San Francisco, dove l’attende una condanna a tre anni di carcere. La notte prima del suo imbarco, tuttavia, accade tra la peccatrice e il suo implacabile giudice qualcosa di imprevisto e sconvolgente, per cui la condanna impietosa del pastore, ormai sicuro del trionfo divino sul male, ha un esito beffardamente tragico.

© Riproduzione riservata                   «Gli Stati Generali», 19 luglio 2021

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MAURENSIG

PAOLO MAURENSIG, LA VARIANTE DI LÜNEBURG – ADELPHI, MILANO 1993

«Era un’ossessione da cui non potevo difendermi; da mattina a sera non pensavo ad altro che ad alfieri e pedoni e torri e re, a A e B e C e Matto e Arrocco, con tutto il mio essere e il mio sentimento ero spinto verso il quadrato della scacchiera. Il piacere del gioco era diventato vizio, il vizio necessità, una mania, una rabbia frenetica, che a poco a poco penetrò non solo le ore in cui ero sveglio, ma anche il mio sonno».

Sono frasi che Stefan Zweig mise in bocca al protagonista della sua  Novella degli scacchi nel 1941.

«Non so dire esattamente quando accadde, ma so che un giorno incominciai a giocare un’interminabile partita: che dall’altra parte della scacchiera ci fosse il mio io o il mio Dio, poco importava. In brevissimo tempo occupò tutti i miei pensieri, non ci fu spazio per nient’altro che non fosse quella partita: essa divenne la mia fede, unica e insostituibile».

Sono frasi che Paolo Maurensig mette in bocca al protagonista-narratore del suo affascinante romanzo La variante di Lüneburg, appena edito da Adelphi. Paolo Maurensig è un agente di cambio friulano, cinquantenne alla sua opera prima. Che Roberto Calasso pubblichi nella prestigiosa collana  Fabula un autore italiano è cosa piuttosto infrequente: che pubblichi un autore sconosciuto è decisamente straordinario, e depone a priori in favore del testo in questione.
In effetti, il lettore si trova di fronte a un’opera eccezionale, per il tema trattato, per lo spessore culturale sottesovi, per l’estrema raffinatezza formale: uno stile denso ed elegante insieme, il cui ritmo narrativo è dettato dal procedere del pensiero, modellato sulla cadenza di questo. Ne segue le pause, le divagazioni, ma anche animosità improvvise, confutazioni stringenti. Respiriamo, leggendo queste pagine, aria – e forse anche musica – mitteleuropea, più rarefatta e avvolgente di quella cui ci ha abituato la narrativa italiana odierna. La passione per gli scacchi, intesa come filosofia, come approccio alla vita o sfida alla morte, è il tema del libro, com’era il tema della novella di Zweig, con cui Maurensig sembra voler giocare a rimpiattino, attraverso sapienti e ricorrenti richiami: ora come allora la partita a scacchi è metafora di una ben più profonda contrapposizione tra due culture (quella conformista, violenta e ottusa del nazismo, e quella spirituale, ricercata ma perdente dell’ebraismo). Le analogie tra i due testi sono così frequenti da non poter risultare casuali: il gioco vissuto come estasi e condanna, il viaggio (qui in treno, là in nave) durante il quale avviene lo scontro tra le due diverse personalità dei protagonisti, l’Austria dell’Anschluss e la Germania dei campi di concentramento, l’assenza totale di personaggi femminili, il riferimento continuo al trascendente, le riflessioni sulla fisiognomica, i nomi dei grandi scacchisti degli anni ’20, e soprattutto il crescendo di pathos, di angoscia, che attanaglia il lettore fino alla conclusione tragica e liberatoria, fino allo scacco matto definitivo della morte. Il libro si apre con la descrizione del suicidio di un ricchissimo imprenditore tedesco, Dieter Frisch, avvenuto nello splendido parco della sua villa settecentesca alle porte di Vienna. Inspiegabili, a prima vista, i motivi del suo gesto: l’uomo  «era una di quelle persone alle quali il successo sembra arridere in tutti i campi…» Prestante e attivo nonostante l’età avanzata, divideva la sua attività tra l’azienda di Monaco e la ricca residenza viennese, in cui consacrava le sue ore di riposo all’unica passione che gli si conosceva: il gioco degli scacchi. Proprio questa sua occupazione secondaria si palesa ben presto essere la ragione della sua fine violenta, e il romanzo lo svela a poco a poco, attraverso le misurate rivelazioni del narratore che, rimasto nell’ombra per tutta la prima parte del volume, si dichiara poi l’antagonista di una vita, animato da una sete di vendetta durata decenni.

«Questa è, in primo luogo, la storia di una rivalità, che si manifestò proprio su una scacchiera, su quel riquadro che può sembrare ristretto solo a chi non voglia o non possa vederne la profondità: poiché si tratta invece di un mondo per nulla limitato e niente affatto innocuo, dal momento che ciò che vi si perpetua, avvalendosi di un atto creativo che a volte assume l’aspetto di un’autentica opera d’arte, è un’azione di inaudita violenza, una forma di omicidio bianco, inapparente, il cui esito viene riconosciuto e condiviso unicamente dai due contendenti. Non c’è nulla che leghi due persone quanto una seria sfida su una scacchiera. Esse diventano le opposte polarità di una creazione mentale che è opera di entrambi, ma in cui uno si annulla a vantaggio dell’altro».

I due avversari negli scacchi, il tedesco Frisch e l’ebreo Tagori, già ostili dall’adolescenza, quando si sfidavano in estenuanti tornei – l’uno metodico e inflessibile, l’altro geniale e febbrile – si ritrovano a Bergen Belsen, l’uno ufficiale nazista e spietato aguzzino, l’altro (salvato dalla morte purché intrattenga con gli scacchi l’ufficiale SS) costretto a barattare al gioco la vita dei compagni con le proprie vittorie. A una mossa inattaccabile ideata dall’ebreo Tagori (la variante di Lüneburg) e avversata teoricamente dal tedesco, è affidato il compito di scovare dopo la guerra l’ex nazista camuffatosi sotto mentite spoglie: Dieter Frisch viene individuato e smascherato attraverso una rivista d scacchi, raggiunto e “processato” in treno dal figlio adottivo di Tagori, costretto alla confessione e alla resa finale. Frisch non regge alla sconfitta nel gioco e nella storia, e si ammazza: ma più che di un suicidio, si tratta di «un’esecuzione capitale,seppure differita nel tempo e nello spazio», affidata agli scacchi.

 

«L’Arena», 7 luglio 1993

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