QUELLO CHE DEVO A MONTALE

Il mio primo incontro con la poesia montaliana risale agli anni liceali, limitatamente a  poche pagine antologizzate in testi scolastici. Un’attenzione incuriosita, ma non ancora affascinata, avevo riservato alla più nota “Meriggiare pallido e assorto”, in cui tuttavia percepivo una ricerca quasi compiaciuta della resa formale. Più emotivamente vicine avevo sentito, invece, “La casa dei doganieri”, con gli splendidi e malinconici due versi conclusivi, e poi “Felicità raggiunta”, “Gloria del disteso mezzogiorno”, “Forse un mattino”, “Esterina”, “Dora Markus”… Tutte quelle poesie, insomma, che sapevano coniugare alla profondità del significato una vibrazione particolare del suono, esigendo da parte mia un’adesione non solo mentale, ma anche e assolutamente “sentimentale”.

All’ Università Statale di Milano avevo poi seguito il corso del Professor Antonielli proprio sui primi quattro libri di Montale, e ricordo ancora il silenzio commosso (in anni rumorosissimi!) con cui gli studenti che gremivano l’Aula Magna accoglievano la recitazione del docente, e la sua successiva illustrazione. Trasferitami a Zurigo, erano state le lezioni del Prof. Isella sui Mottetti, al Politecnico, ad aprirmi nuovi varchi di comprensione nell’universo poetico montaliano: l’eco di quella trepidazione è rimasta in una mia silloge (“Omaggio a Montale”, Einaudi 2012), in cui confondevo i miei versi con i suoi, in un tentativo – non so quanto riuscito – di ammirata parodia.

Come non ammirare, infatti, gli endecasillabi iniziali (“Ti libero la fronte dai ghiaccioli”, “Non recidere, forbice, quel volto”, “Lo sai: debbo riperderti e non posso”), evocativi e struggenti quanto potevano essere le canzoni che accompagnavano i nostri primi tremori adolescenziali. Una musica   particolare e innegabile, quella della poesia di Montale, una ricerca di composta armonia che continuo a ritenere sia doveroso compito e dono della scrittura poetica.

Più tardi ho letto l’interessante saggio di Edoardo Esposito, rivisitazione attenta di tutta la produzione del Maestro. Indiscutibilmente, meritatamente da considerarsi maestro: meritatamente e indiscutibilmente premio Nobel, che nulla ha tolto e moltissimo donato alla produzione in versi (non solo italiana) a lui posteriore.  Soprattutto oggi – quando una sorta di conformismo sembra voler livellare e omogeneizzare le diverse voci del panorama letterario, al punto da renderle indistinguibili le une dalle altre – il timbro esclusivo, inconfondibile della poesia montaliana continua a sembrarmi il merito maggiore del suo insegnamento, insieme alla sua capacità di regalare emozioni, dote ai nostri giorni presuntuosamente sottovalutata o sarcasticamente sbeffeggiata.

Se infine dovessi indicare una preferenza personale verso uno dei libri di Montale, non esiterei a pronunciarmi in favore de “La Bufera”, che nelle sue prove più alte è riuscita a scandagliare turbamenti privati e drammi pubblici, vicende personali e tragedie storiche: come nella poesia -capolavoro (una delle poche che conosco a memoria, e a cui ricorro spesso mentalmente come a un talismano) “Piccolo testamento”, al suo “smeriglio di vetro calpestato”, al “tenue bagliore strofinato laggiù”, tanto trascurato dalla cultura contemporanea, e tuttavia essenziale, riparatore, illuminante.

 

«Gli Stati Generali», 30 luglio 2023