CLAUDIO MAGRIS, IL CONDE. ALLA FOCE – GARZANTI, MILANO 2020

Il racconto che Claudio Magris ha pubblicato recentemente da Garzanti, nella collana I piccoli grandi libri e in ebook, è uscito per la prima volta sul Corriere della Sera nel 1990, e in seguito riproposto dalle edizioni genovesi de Il melangolo. L’autore ha rivelato di aver tratto spunto per la sua narrazione da un fatto reale, avendo letto su un giornale, durante un viaggio in Portogallo, la notizia dei festeggiamenti e delle onorificenze conferite a un uomo anziano che da molti anni ripescava i morti da un fiume.

La voce narrante è quella di un pescatore che per anni aveva accompagnato la figura quasi mitologica del Conde (novello Caronte…) nelle sue esplorazioni acquatiche “tra la foce del Douro o dell’Ave fino ai paesi di Trás-os-montes”, con una vecchia barca fornita di funi, reti, arpioni e tute di gomma, per riportare a riva i corpi degli annegati incagliati sul fondo, e seppellirli “in terra benedetta, perché l’acqua è amara di perdizione e distrugge tutto, anche il ricordo…  era un ufficio di pietà, perché senza di lui quei morti non potevano andare né in paradiso né all’inferno”. Morti suicidi, soprattutto: per amore o per fame e miseria, stanchezza di vivere o paura di agonie più dolorose. Tra loro però c’erano anche corpi di naufraghi, persone cadute nel fiume per incidente o distrazione, altri uccisi e gettati nel buio complice e silenzioso delle onde. Il Conde parlava con rispetto di tutti i cadaveri, quando ne raccontava in paese, facendo passare per disgrazie anche le morti volontarie: con particolare pietà ricordava i bambini, che adagiava sul fondo della barca ricomponendoli nei capelli e nelle vesti madide e maleodoranti.

Tra il pescatore, il suo nocchiero, i morti e il fiume era sorta un’alleanza solidale e raccolta, che la scrittura di Magris ricrea nel suo cadenzato e lento fluire, nel tono fiabesco del monologo recitato a se stesso dal mozzo del Conde. Ogni tanto quest’ultimo (il cui padre era annegato al largo delle isole Scilly, a ribadire una specie di maledetta predestinazione) si lascia andare a memorie personali, ricostruendo mentalmente i visi delle donne amate e quello, sfigurato dalla stupidità, della ragazza menomata che gli era stata data in matrimonio, in sfregio e per scherzo. Oppure si perde in considerazioni più filosofiche, rivolgendosi al cielo (“non so se Dio sia il pubblico, il burattinaio, il bastone o qualcuno che un giorno cambierà la musica e calerà il sipario su questa mascherata idiota”) o considerando con amarezza la propria esistenza (“ma poi è solo alzarsi, dormire, grattarsi le punture di zanzara, sgobbare, legare la barca, cambiarsi la camicia e dov’è andata, intanto, la vita?”).

Finché un giorno gli succede di ripescare dal fondo fangoso del fiume il corpo di un marinaio aggrappato alla polena della sua nave naufragata: il busto di una donna dal viso dolce e rassicurante, con gli “occhi socchiusi e beati”, che aveva ingannevolmente promesso protezione e salvezza all’equipaggio.

Recentemente Claudio Magris ha pubblicato un libro illustrato dedicato proprio alle polene, che dalle prue si sporgono verso le indefinite lontananze marine, oltre la linea dell’orizzonte, simbolo di una coraggiosa sfida all’ignoto: “… sono regine che non sai cos’hanno nel cuore e non hanno cuore e per questo ti portano a perdizione. Di solito le polene guardano in alto e lontano, ansiose e atterrite, e ti fanno paura, in mare, perché pensi che vedono la morte che arriva e che tu non puoi vedere”

Il mozzo del racconto di cui parliamo, affascinato dalla lignea figura femminile, se la porta malinconicamente a casa, e la colloca sul tavolo della misera cucina, a benedire i suoi pasti quasi fosse una madonna.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 28 aprile 2020