PAOLO RUMIZ, VERRANNO DI NOTTE – FELTRINELLI, MILANO 2024, p. 196

 

Con Verranno di notte, il più recente volume di una quadrilogia dedicata all’Europa, Paolo Rumiz (Trieste 1947), firma un pamphlet amaro e allarmante sulla situazione di stallo politico e morale in cui versa il nostro continente.

Nella sua casa di campagna sul confine giuliano, seduto accanto alla stufa in compagnia della sua gatta, Rumiz trascorre un’intera notte insonne a registrare le sue riflessioni su un’altra buia notte che minaccia di avvolgere il mondo. Ripassa mentalmente le memorie di una vita impegnata a raccogliere testimonianze, a mappare luoghi disagiati e dimenticati, paesaggi incantevoli deturpati dall’incuria e dall’abusivismo edilizio, esplorando vette e sottosuolo, descrivendo spiagge e vulcani, periferie e metropoli, incontrando segretari di stato, cardinali, magnati dell’industria e profughi accampati in scandalosi centri di raccolta.

Il suo rabbioso grido di rivolta è un richiamo forte alla mobilitazione democratica, in un’Europa che considera ormai eversivo difendere i principi fondanti della propria Costituzione, e si trova messa alle corde da indebitamento economico, spese militari, corruzione, disinformazione, privatizzazioni nel settore pubblico, muri reticolati e trincee a difesa degli egoismi nazionali: “Un’Europa gestita da antieuropei. Un’accozzaglia di sovranismi destinata a implodere e affondare l’Unione… una serra riscaldata”.

Le previsioni di Rumiz sul futuro del nostro continente sono fosche: “Temo che un’Europa disunita, e per di più senza figli, si ridurrà a casa di riposo, infernale gerontocomio, vascello fantasma alla deriva, di cui i poteri forti faranno un sol boccone”. Altrettanto feroce è il suo giudizio sul passato dei singoli Stati europei, con il colonialismo e le stragi perpetrate nei confronti dell’Africa.

Il parallelo che l’autore suggerisce con il 1914 e lo scoppio della prima guerra mondiale viene ribadito in maniera inquietante, già partendo dall’orgogliosa rivendicazione del ruolo rivestito dalla sua Trieste all’inizio del XX secolo, linea di demarcazione a ridosso dei Balcani, crocevia di culture, popoli e religioni diverse, fulcro dell’Impero Austro-Ungarico deputato a fare da cuscinetto a due mondi contrapposti, ambita testa di ponte per la penetrazione di potenze straniere nel Mediterraneo. Cittadino di frontiera, ripercorre la traumatica esperienza dello scoppio della guerra nei Balcani, vissuto in prima persona nell’aprile del ’92 a Sarajevo. Anche allora “ingenuità e candore” avevano impedito ai bosniaci di avvertire il subdolo avanzare del male, che sempre “trova il suo miglior nascondiglio proprio tra gli uomini di buona volontà”. Ugualmente oggi gli europei camminano sull’orlo di un abisso, sottovalutando colpevolmente l’inevitabile catastrofe futura.

Rumiz vede crescere una destra portatrice di un fascismo nuovo, che rumina “complottismo, negazionismo, vittimismo”, privo di ideologia ma affamato di supremazia, ben inserito nei meccanismi del potere pur parlando col linguaggio di chi è fuori dal potere. Una destra in grado di utilizzare la rete per amplificare e veicolare il malcontento popolare, indirizzandolo verso obiettivi antidemocratici e demonizzando il dissenso. L’autore considera la rete un “uragano mediatico eversivo… una macchina che rimbecillisce, divide la società, cavalca il peggio di noi e uccide il ragionamento col virus di un pensiero bipolare manicheo, partorito da algoritmi cinesi o americani”. Sarcastico è il ritratto che Rumiz fa di tre donne ai vertici della politica conservatrice europea: una Marine Le Pen moderatamente acrobatica, un’algida Ursula von der Leyen legata alle corporazioni agroindustriali e una Meloni-Lupa romana, che voracemente divora ministeri, musei, televisioni, parchi naturali.

Alla destra che avanza pericolosamente ovunque, si contrappone vanamente una sinistra curiale dalle idee confuse, bloccata nell’inerzia, incapace di proporre alternative credibili e di agire di conseguenza: soprattutto riguardo al problema urgente dell’immigrazione, completamente demandato ai metodi repressivi dei conservatori e dei reazionari, i quali soffiano sul fuoco del più facile razzismo. Così osserviamo impotenti, senza riuscire a regolamentare i sistemi di accoglienza, a un odio etnico diffuso, all’approvazione di leggi liberticide, alla costruzione di disumani campi di prigionia e all’occultamento di fosse comuni, mentre migliaia di migranti annegano nei nostri mari, e i richiedenti asilo vengono arrestati e deportati su voli charter verso destinazioni sconosciute.

Gran parte dei cittadini europei esprime ormai un evidente malessere nei confronti degli immigrati che vivono di sussidi statali, o non lavorano e delinquono, diventando terreno di conquista per le mafie in cerca di spacciatori o di manodopera a basso costo.

Esiste oggi un pericolo concreto di guerre combattute con armi atomiche, di nuovi tracolli finanziari, di persecuzioni contro gli oppositori politici, di perquisizioni e indagini lesive delle libertà individuali.

Eppure, in questo panorama sconfortante, in cui non si delinea nessuna univoca proposta nemmeno riguardo ai conflitti in corso, tra Russia e Ucraina, tra Israele e Palestina, appaiono qua e là i riflessi di incoraggianti punti luce, innestati da pacifisti, obiettori di coscienza, giovani che manifestano per la pace e l’ambiente: “segnali deboli” che anticipano un cambio di tendenza, da appoggiare con convinzione e passione in difesa delle democrazie europee.

Paolo Rumiz lo fa instancabilmente con l’impegno e gli strumenti che gli sono propri: “Quelli come me non hanno che parole da offrire. Ma le parole non sono poco, in questo sconfortante silenzio… Se la barbarie dilaga, quanto più importante è coltivare piccoli orti in cui le parole si salvano dalla distruzione”.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 26 maggio 2024