Se domani ti arrivano dei fiori, sappi che non li ho mandati io. Perché avrei dovuto? Per chiederti o concederti perdono, suppongo che tu pretenda. No, cara. Carezza, ti chiamavo quando ti vedevo carina. Fiori cosa e come, di quale banalpresumibile colore.  Bianco innocenza, rosso passione, giallo gelosia. Ti piacevano i tulipani screziati, memoria di un antico viaggio a Istanbul con chissà che faceto fidanzato. Tulipani turchi, non gli ovvi olandesi. Sempre stata originale, tu, anche nei flashback rievocati, più fantasiosi che reali. I primi fiori regalati al nostro secondo appuntamento (imbarazzo! non sapevo con quali gesti e parole accompagnarli, mentre ti avvicinavo spiandoti aggrottata per i miei minimi minuti di ritardo) erano invece pallidi, dolentemente mesti. Non proprio crisantemi, ma quasi. Forse già intuivo quale piega avrebbe preso il nostro rapporto. Mi hai detto, ironica, signorilmente divertita addirittura: “Che gioia!” Te li offrivo esitante, accorgendomi tardivo del loro aspetto cinereo; le corolle incurvate, grondanti acqua. Pioveva.

 

NON LI ASPETTAVO

 Non li aspettavo, non li volevo. Oppure: sì, ci speravo. Avevo preparato sul tavolo della sala un vaso vuoto. Quello cilindrico, di vetro. Allora dicevi che ti sembrava un alambicco ospedaliero.  È ancora lì, inutile, deluso, convalescente. Non sono arrivati fiori, e nemmeno un biglietto di scuse.  Neanche una telefonata: il giusto che mi dovevi. Piove. Tuttavia, anche se ci fosse il sole, non credo che me ne accorgerei, buia dentro quale sono. Rabbiosa rancorosa rognosa. Non è il fuori che si rispecchia in noi, illuminandoci-scurandoci, come si sente dire svagatamente. Siamo noi che rovesciamo brutto e bello nostro su cielo e terra altrui. Noi, minuscole deità della nostra minimezza, e presuntuose.  Per questo piove, stamattina. Per colpa mia, delle mie nuvole. Quindi, anche se improvvisamente squillasse il campanello gioioso similmente a fanfare di festa, se al citofono la voce giovane di un fattorino mi annunciasse “Fiori per lei, signora,” non mi verrebbe da sorridere ponpon. Nemmeno da tremare, primuletta. 

 

POI DOPO

Poi dopo mi hai preso sottobraccio, a riscaldarmi, quasi fossi un tuo alunno umiliato dall’ insufficienza, odiosamente meritata. “Magistra,” ti ho suggerito, “dietro la lavagna, nota sul registro. Punisci.” “Ma no,” hai risposto indulgente docente, e altera. “Una cioccolata calda nel bar lì di fronte.” In questa placida maniera iniziò. Non eri più inquieta o stizzita, non ti importavano ritardo e fiorellini mosci: avevi voglia improvvisa di ridere, parlare, stupire spalmandomi addosso una qualsiasi felicità bambina. Mi chiedevo il motivo di tanta stramba eccitazione. Fosse solo perché avevo rispettato l’impegno di rivederti, o invece già pensavi a un possibile sviluppo della storia, colla tra noi? Incredibile che da subito ti fossi piaciuto, a te bella troppo, io insipido. Sorridono così radiosi solo i contenti; tu lo eri. Fuori pioveva, attraverso le vetrine del bar striate d’acqua si vedevano persone camminare scontrose al riparo degli ombrelli, il cielo oscurarsi e abbassarsi sotto il peso di nuvole grandi. Anche quello avrei dovuto leggerlo come un presagio. Nubi. Grigio.

 

NON DEVO

 Non devo fissarmi col pensiero in, su, per: te.  Ho tanto domani vuoto da saturare, dettagli da rifinire.  Luoghi, tempi. Modi, sensi. Sei passato, il mio passato. Convincermi inflessibile che comunque svanirai, se ancora tergiversi tentatore, impietosendomi. O sono io? Chissà se sono io a temere carità benevolente. Boa da circumnavigare, per non darla vinta alle onde. Mi immagino; naufraga avvilita e adirata. Nuoto, sbatto furenti piedi e braccia, vischiosa acqua a mulinello avvolgente mi blocca, giro a vite, non procedo. Galleggio. Vorrei tornare a riva, invece ninno appena, mi cullo amnio tiepido, faccio il morto. Fingo immobile resistenza, ottima strategia per chi teme l’abisso. Tragico infatti se annegassi, se imprevedibile una tempesta procellosa mi investisse crudele, gonfiandomi salmastra polmoni e viscere, annodandomi i capelli, pelle lisa e squamosa (oh agonia, e io da sola!) Passerà forse una zattera, lontana, all’orizzonte; scialuppa generosa di soccorso; almeno un faro a indicarmi l’approdo. Luce guida, luce duce, luce. So aspettare.   

 

 

SE DOMANI TI ARRIVANO DEI FIORI, GIOVANE HOLDEN EDIZIONI, VIAREGGIO 2021