WILLIAM CARLOS WILLIAMS, A UN DISCEPOLO SOLITARIO – BOMPIANI, MILANO 2023

Nato, vissuto e morto (1883-1963) a Rutherford, una cittadina industriale del New Jersey a una ventina di chilometri da New York, William Carlos Williams esercitò per cinquant’anni la professione di pediatra e ostetrico, dedicandosi alla poesia nel tempo libero dai pressanti impegni lavorativi e familiari, soprattutto scrivendo di notte, mentre nei fine settimana frequentava l’intellighenzia letteraria e artistica statunitense: Ezra Pound, Hilda Doolittle, Wallace Stevens, Marianne Moore, Marcel Duchamp, Francis Picabia. Figlio di immigrati portoricani – il padre era di origini inglesi e iberiche mentre la madre di origini basche ed ebraicoolandesi – parlò spagnolo fino all’adolescenza, e sia il meticciato culturale nativo sia il plurilinguismo diede alla sua scrittura e al suo carattere una particolare vivacità e apertura mentale, incoraggiata dai frequenti viaggi in Europa, dagli studi scientifici così come dagli approfonditi interessi letterari.

Il primo ventennio del ’900 fremeva di nuovi impulsi nell’arte, nella musica, nella letteratura; il modernismo sancì un cambiamento epocale, promuovendo lo stravolgimento delle forme, distruggendo la retorica del romanticismo e abbandonando la prospettiva storicista in favore di un rafforzamento dell’espressività, anche a scapito dell’ideale estetico dell’armonia e della compostezza. In tutte le sue varie correnti (dal simbolismo all’ermetismo, dall’acmeismo al surrealismo) si definì come iconoclasta, anti-decorativo, perseguendo il percorso delle li bere associazioni mentali (lo “stream of consciousness”), la frantumazione della figura e della personalità attraverso il moltiplicarsi dei punti di vista, l’abbandono della sintassi nell’accostamento di termini incongrui, stranieri o de-temporalizzati.

Williams aderì inizialmente alla corrente imagista, e alcune sue poesie furono inserite da Pound nell’antologia Des Imagistes (1914), in cui figuravano Ford Madox Ford, Amy Lowell e James Joyce. Ma anche se questa collaborazione finì per incasellare tutta la sua carriera nell’ambito ristretto dell’imagismo, in realtà si svincolò presto e radicalmente dai temi e dalle forme che più caratterizzavano questo movimento. L’antologia pubblicata da Bompiani raccoglie testi tratti da diversi volumi: da The Tempers del 1913 a Pictures from Brueghel del 1962, premiato con il Pulitzer. Proprio nelle prime sezioni troviamo le tracce più evidenti dell’insegnamento poundiano (visionarietà, concisione, ritmo): “C’è un uccello tra i pioppi! / È il sole! / Le foglie sono pesciolini gialli che nuotano nel fiume. / L’uccello plana e li sfiora, porta il giorno sulle ali. / Febo! / È lui che crea / l’incredibile bagliore tra i pioppi!”

Nelle raccolte successive Williams si distanziò sempre di più da questa eredità primo-novecentesca, facendo della realtà quotidiana (la natura, la presenza femminile, le cose materiali, la propria esperienza di medico, gli ironici autoritratti) l’oggetto principale della sua poesia, anche nella scelta linguistica, che privilegiava un lessico più sensibile alla parlata quotidiana, ai toni e alle cadenze americane, allontanandosi dalla letterarietà britannica, e invece scegliendo strutture più originali, vicini alla tensione poliritmica della musica jazz. La polemica contro l’intellettualismo di Joyce e Eliot si fece pungente, al punto da spingerlo a definire The Waste Land “the great catastrophe”, una reale minaccia per l’identità e lo spirito del Nuovo Mondo. Sia la sua professione, esercitata con dedizione e generosità soprattutto nei confronti degli strati popolari e degli immigrati, sia l’immersione nella vita concreta della sua città, offriva al suo talento poetico naturale materia e ispirazione per osare nuove modalità espressive, estranee alle seduzioni culturali europee, che fornissero “una replica a pugni nudi al greco e al latino”, e un ideale di poetica sintetizzato  nel motto “No ideas  / but in things”, in A sort of a song del 1944: “Che il serpente attenda sotto / la malerba / e la scrittura / sia di parole, lente, svelte, acuminate / nello sferrarsi, mute nell’attesa, / insonni. // – a riconciliare grazie alla metafora / persone e pietre. / Componete. (Niente idee / se non nelle cose) Inventate! / La sassifraga è il mio fiore, spacca / le rocce”.

Fedele a un progetto liberal-democratico della società, e vicino a posizioni di sinistra, la collaborazione alla Partisan Review, trimestrale del Partito Comunista, e ad altre riviste radicali (Blast e New Masses) gli costò nel 1953 la perdita della consulenza alla Library of Congress. A poesie politicamente schierate, talvolta venate di sarcasmo (Proletarian Portrait, Raleigh Was Right, Russia, The Pink Church), dalla metà degli anni ’30 in poi si affiancarono composizioni che esprimevano empatia e rispetto per la sofferenza degli umili (To a Poor Old Woman, The Gentle Negress, To a Dog Injured in the Street, The Mental Hospital Garden, The Dead Baby).

Gli era specialmente consona la descrizione di ambienti e oggetti (“Alla brillante luce del gas / apro il rubinetto in cucina / e guardo l’acqua schizzare / nel lindo lavandino bianco. / Sullo scanalato scolapiatti / da una parte c’è / un bicchiere pieno di prezzemolo / – fresco verde crespo”) quanto quella di personaggi comuni, presi dalla strada (“Intanto, / il vecchio che va in giro / a raccogliere cacche secche di cane / cammina nel canalino di scolo / senza alzare lo sguardo / e il suo incedere / è più maestoso di / quello del Vescovo / che si dirige al pulpito / la domenica”). L’osservazione della natura non scadeva mai nell’idillio retorico: “Vibranti rami arcuati / spingono verso il basso, risucchiando il cielo / che trabocca da dietro, intonacandosi / sul loro sfondo in spiragli stipati, azzurro lapideo / e arancione sporco!”

Dedicava a se stesso ironici autoritratti: “se io nella mia stanza a nord / ballo nudo, grottescamente / davanti allo specchio / sventolando la camicia sulla testa, / cantando sottovoce tra me e me: / “Sono solo, solo. / Sono nato per essere solo, / per me è il massimo così! / Se ammiro le mie braccia, la faccia, / le spalle, i fianchi, il sedere, / sullo sfondo delle tende gialle, chiuse – // Chi potrà mai dire che non sono il genio felice della mia casa?”. E la quotidianità domestica veniva raccontata in toni spiritosamente colloquiali: “i piccoli favori / ricambiati, io e te, una camicia / passata a un uomo nudo dalla / moglie che mostra le gambe, grattami la schiena / per favore, oh e vuota il bugliolo / quando scendi – e avvicinami / quel fiore, io non c’arrivo”,

“SOLO PER FARTI SAPERE // che ho mangiato / le prugne / nella / ghiacciaia // che / probabilmente avevi / serbato / per la colazione // Perdonami / erano squisite / così dolci / e così fresche”.

Massima espressione del coinvolgimento umano di William Carlos Williams nell’ambiente sociale a lui circostante è la pubblicazione di un poema epico in cinque libri, edito tra il 1946 e il 1958, intitolato Paterson, resoconto biografico quasi documentaristico di una città industriale del New Jersey, distante una decina di chilometri dal suo luogo di nascita, con diverse generazioni di abitanti alle prese con la modernizzazione neocapitalista.

Se con Paterson giunse finalmente l’agognato riconoscimento del valore letterario con l’attribuzione nel 1950 del National Book Award for Poetry, fu solo dopo la morte che la critica si decise a prendere finalmente sul serio la sua produzione, con la medaglia d’oro per la poesia del National Institute for Arts and Letters. Una gratificazione dovuta al lavoro saggistico, narrativo, teatrale, oltreché poetico, e all’attività di promozione svolta in favore della nuova generazione di poeti americani della San Francisco Renaissance e della New York School (Allen Ginsberg, Frank O’Hara, John Ashbery, Kenneth Koch…), a testimonianza di quanto la generosità del poeta e dell’uomo si sia prodigata fino all’ultimo in aiuto degli altri. Ne è una riprova anche l’ammonimento offerto al discepolo solitario –aspirante poeta – a osservare le cose (cielo, luna, case, chiese) nella loro reale concretezza, senza abbellimenti artificiosi.

Negli ultimi anni, segnati dalla sofferenza fisica e psichica, i versi di Williams assunsero talvolta i toni della preghiera, con frequenti accenni alla simbologia cristiana, e richiami al bene universale anche nel sentimento erotico privato (Viaggio verso l’amore si intitola la raccolta del 1955), espresso in sentenze moraleggianti: “Siamo miseri mortali / ma l’essere mortali / può opporre resistenza al nostro fato. / Potremmo / grazie a una remota possibilità / persino vincere!”, “Quello che abbiamo sofferto / ci era destinato / perché lo soffrissimo”, “Era l’amore per l’amore, / l’amore che ingoia tutto il resto, / amore riconoscente, / amore della natura, delle persone, / animali, / un amore che dà vita a / gentilezza e bontà / che mi ha commosso / ed è quello che ho visto in te”.

Amore, appunto, è ciò che il curatore del volume Luigi Sampietro sottolinea come elemento più caratterizzante la vita e l’opera di William Carlos Williams. Amore inteso come carità e compassione, che accetta e comprende anche gli aspetti impoetici della realtà, e ne fa oggetto di interesse e bellezza nei versi.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 29 maggio 2023