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RECENSIONI

BERNHARD

THOMAS BERNHARD, CEMENTO – SE, MILANO 2023

Pubblicato in Germania nel 1982, e per la prima volta da Studio Editoriale nel 1990, dopo numerose ristampe ritorna oggi sul mercato Cemento, uno degli ultimi romanzi scritti da Thomas Bernhard (1931-1989). Il volume è corredato da ricche note biobibliografiche, da un’interessante appendice fotografica e soprattutto da un’approfondita ed esaustiva postfazione del compianto germanista Luigi Reitani, che ricostruisce sapientemente non solo le motivazioni letterarie ed extra-letterarie alla base della sua elaborazione, ma anche le polemiche con cui venne accolto dalla critica.

Non si tratta di un’autobiografia, sebbene siano presenti episodi della vita dell’autore, ma di una confessione monologante messa per iscritto da un intellettuale austriaco di mezz’età, il cui nome viene riportato solo all’inizio e alla fine del volume, sempre con lo stesso sintagma: “scrive Rudolf”. In effetti il protagonista sembra non saper fare altro che scrivere, persino nel momento in cui riconosce di non riuscire a scrivere. Né a scrivere né a vivere, con gli altri, tra gli altri, per gli altri. La sua è una storia di solitudine e nevrosi (che gli psichiatri definirebbero compulsiva), di frustrazione per la propria inettitudine, di rancore nei riguardi della famiglia e della società, di complessi di colpa per non essere stato all’altezza delle sue aspirazioni: sempre in preda a manie persecutorie, ambizioni smodate, ipocondria ossessiva.

Rudolf, secondogenito di una ricca e aristocratica famiglia austriaca, dopo la morte dei genitori si rinchiude nella dimora ereditata nel paesino di Peiskam, con l’unica saltuaria compagnia di una domestica fedele e discreta, e sotto l’opprimente controllo della sorella maggiore Elisabeth, esercitato sia a distanza dalla residenza viennese, sia negli occasionali e irritanti soggiorni nella comune proprietà di campagna. Dopo aver tentato studi filosofici, giuridici e scientifici senza riuscire ad arrivare alla laurea, Rudolf decide di dedicare la propria esistenza alla musicologia, impegnandosi in studi critici sui maggiori compositori classici. In particolare, le sue ricerche d’archivio, postillate da una grande mole di appunti e tracce programmatiche, riguardano la stesura di un saggio su Mendelssohn Bartholdy, in gestazione da molti anni, ma incagliata sin dall’avvio per la difficoltà di affrontare la frase iniziale.

Intorno al tema della scrittura che non è in grado di scriversi ruota tutto il romanzo. L’io narrante elenca ossessivamente ogni pretesto che gli impedisce di sbloccarsi: dal cattivo funzionamento di una lampada ai rumori distraenti, dai malesseri fisici alla presenza castrante e indisponente della sorella. Elisabeth, al contrario del fratello, è un’imprenditrice di successo nel campo immobiliare; donna di mondo, elegante, concreta, disinvolta nei rapporti sentimentali e d’affari, tratta Rudolf con ironica supponenza mista a compassione. Da lui considerata volgare, sciocca e perfida, viene tuttavia temuta: “Lei guidava i miei passi e al tempo stesso ottenebrava la mia mente… A me fanno schifo i suoi affari, a lei fa schifo la mia fantasia, io disprezzo i suoi successi, lei disprezza la mia mancanza di successo”.

La partenza della sorella toglie al protagonista l’ultimo alibi per non dare inizio al lavoro, e insieme lo induce a recriminare sui motivi del proprio fallimento esistenziale. Proclama la sua sfiducia nel genere umano, il disinteresse per la natura, la disillusione verso l’amore e l’amicizia (“che parola pustolosa!”). Pur avendo viaggiato moltissimo nella giovinezza, ora considera lo spostarsi di casa una fatica dispendiosa. Della solitudine in cui ama crogiolarsi incolpa la società viennese, l’aristocrazia e il popolino, l’accademia e la stampa, i politici e gli intellettuali, la Chiesa e il socialismo, la tradizione e la modernità: Vienna “cloaca d’Europa” reagirà con astio e fastidio, attraverso una campagna giornalistica persecutoria, all’esplicita ostilità dichiarata nel nuovo testo di Bernhard, ricalcante i suoi precedenti lavori narrativi e teatrali.

Nauseato da tutto, e principalmente da se stesso, Rudolf decide di provare a recuperare la salute precaria e di abbozzare finalmente il saggio su Mendelssohn trasferendosi a Palma di Maiorca, che già in passato lo aveva ospitato con gentilezza e premura. I preparativi per la partenza appaiono assillanti nella loro minuziosità, e provocano nel lettore un effetto esilarante per la descrizione puntigliosa e maniacale dell’allestimento dei bagagli.

Sullo sfondo della località iberica, le ultime trenta pagine il romanzo prendono una piega inaspettata, pur rimanendo vincolate alla forma del monologo descrittivo. Dopo aver preso possesso della stessa lussuosa camera d’hotel già occupata in passato, Rudolf rievoca l’incontro avvenuto due anni prima con una ragazza tedesca, che gli aveva raccontato della disperazione priva di prospettive in cui si trovava, a causa della tragica morte del marito precipitato dalla terrazza del loro fatiscente albergo, e tumulato in fretta e di nascosto nel cimitero cittadino. Informato già nei primi giorni di vacanza del successivo suicidio della giovane vedova, il ricordo tormentante dell’angoscia di lei mette fine alla sua illusione di potersi dedicare alla stesura del saggio musicale, e lo cementa in un’atonia priva di slanci, condannata di nuovo a una spietata autoanalisi priva di assoluzione.

La straordinaria abilità narrativa di Thomas Bernhard si esprime nell’esplorazione dei labirintici percorsi di un pensiero psicotico, nella ricostruzione di temi e atmosfere tipiche della propria narrativa (la dissoluzione di un ambiente culturale, l’ambivalenza distruttiva dei rapporti familiari, la polemica contro il perbenismo claustrofobico della borghesia austriaca), e nell’esasperazione di formule volutamente intese a creare effetti ironici e stranianti (ripetizioni, intercalari e  sottolineature del parlato).  Anche in Cemento l’autore austriaco esibisce la stessa modalità espressiva livida e sarcastica delle prove maggiori, mettendo in luce i nodi e le rigidità caratteriali ereditati dalla sua sofferta vicenda biografica, che hanno fatto di lui un maestro di scrittura autoreferenziale e ferocemente sovversiva.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 11 novembre 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

POMPILI

DOMENICO POMPILI, LA FEDE E IL TERREMOTO – EDB, BOLOGNA 2017

Quando, purtroppo molto spesso, le televisioni mondiali ci riportano immagini crudeli di un terremoto avvenuto in qualche parte del globo (ci ricordiamo ancora dei sessantamila morti dello scorso febbraio in Turchia?), mi torna in mente il poemetto che Voltaire compose all’indomani del cataclisma che distrusse Lisbona nel 1755, uccidendo la metà della sua popolazione. Con l’acutezza polemica che lo animava, il filosofo francese stigmatizzava il superficiale disinteresse di chi da quella tragedia non era stato direttamente coinvolto (“Lisbona è distrutta e a Parigi si balla”), ma soprattutto chiamava in causa la giustizia e la provvidenza divina: “Umilmente vorrei, senza offendere il Signore, / che questo abisso infiammato di zolfo e salnitro, / avesse acceso il fuoco in un deserto; / rispetto Dio, ma amo l’universo”.

Con ben altro spirito cristiano e più sincera empatia, Domenico Pompili ha dedicato un piccolo volume al terremoto che nel 2016 ha devastato il centro Italia, territorio che all’epoca lo vedeva occupare la carica di Vescovo di Rieti. In dieci interventi, pronunciati e scritti tra l’agosto 2016 e il gennaio 2017, ne La fede e il terremoto affrontava temi religiosi e laici, avvalendosi non solo di testimonianze di prima mano, ma anche di supporti teologici (i Profeti, gli Evangelisti, San Paolo, Madre Teresa di Calcutta), letterari (Pasolini, Borges, Pessoa, Rodari) e filosofici (Bonhoeffer, Ricoeur), per esprimere solidarietà e conforto alle popolazioni colpite, riflettendo sulla sofferenza e la morte, e prospettando ipotesi di risanamento morale e di ricostruzione materiale delle zone colpite.

Il 24 agosto 2016 Domenico Pompili si trovava a Lourdes: svegliato alle 4 di mattina dalla notizia del sisma che aveva sfigurato il Lazio, alle 16 era già ad Amatrice, imbattendosi in abitanti che sin dalla prima feroce scossa avevano visto crollare le case e finire sotto le macerie i propri familiari.  Come consolare l’inconsolabile, dare una risposta a chi chiede il perché di una perdita tanto ingiusta e disumana? Bisogna umilmente lasciare spazio a rabbia sconforto disorientamento, condividere l’angoscia, ricucire la “faglia emotiva” aperta nelle anime, elaborare insieme il lutto, curare le ferite che lentamente si chiuderanno, lasciando comunque cicatrici incancellabili. Parafrasando Ungaretti, l’autore del testo afferma che è sempre il cuore delle persone a essere il paese più devastato. Ma Dio “non è mai altrove rispetto al dolore del suo popolo”, e non deve essere utilizzato come capro espiatorio di una tragedia le cui cause sono spesso da cercare nell’incuria e nei fallimenti umani.

L’amore del Pastore per la sua terra, già colpita da decenni di abbandono e spopolamento, si esprimeva in quell’occasione nell’invito a farne rivivere la bellezza, immaginando altri modelli di sviluppo, assecondando la vocazione verso forme economiche da potenziare: il turismo, l’agroalimentare, grandi potenzialità locali mai del tutto sfruttate. In una rifondazione collettiva si può dare forma a un mondo rinnovato, con l’impegno a “rendere di nuovo abitabile un piccolo paradiso diventato deserto”, consapevoli che “ri-costruire è un’opera prima che materiale, di carattere interiore”.

Un ammonimento prezioso a cui rifarsi, ogni volta che la nostra nazione, di cui purtroppo conosciamo la fragilità del suolo e la negligenza della custodia ambientale, viene messa a dura prova da violenti eventi naturali.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net                 10 novembre 2023

MAESTRI

LEVI

ABBI PAZIENZA

Abbi pazienza, mia donna affaticata,
abbi pazienza per le cose del mondo,
per i tuoi compagni di viaggio, me compreso,
dal momento che ti sono toccato in sorte.
Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici
per questo tuo compleanno rotondo.
Abbi pazienza, mia donna impaziente,
tu macinata, macerata, scorticata,
che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno
perché la carne nuda ti faccia più male.
Non è più tempo di vivere soli.
Accetta, per favore, questi 14 versi,
sono il mio modo ispido per dirti cara,
e che non starei al mondo senza di te.

 

                                                                                                                          PRIMO LEVI (1919-1987)

MAESTRI

CAVALLI

QUESTA NOTTE PERFETTA 

Questa notte perfetta, questa ora così dolce,
il silenzio, e nessuno che disturbi
in questa casa esposta solo al mare e al cielo
nella temperatura giusta della carne,
io senza carne qui di fronte a te
mentre mi annoio e mentre tu ti annoi e credi
che rompere il silenzio rompa la noia
che invece ogni parola accresce. E adesso?
Annoiarsi da soli forse è un lusso,
ma annoiarsi in due è disperazione
– non è noia che placida risieda,
ma attivamente lavora nel mio sangue
e mi fa scarsa e debole, mi estingue.

 

                                                                                                                   Patrizia Cavalli (1947-1922)

RACCONTI

ZURIGO E UNA DONNA

ZURIGO E UNA DONNA

 

La sera della partenza scrisse una lettera alla sorella, mentre sedeva a un tavolo della sala d’aspetto della stazione, con la testa appoggiata al braccio sinistro, la sigaretta in bocca.

“Questa è l’ultima lettera mia che riceverai da Zurigo. Parto questa sera stessa, lascio questa città che magari non esiste veramente, o esiste solo nei listini di borsa. Ci ho vissuto per un anno, ed è stato un anno incorporeo, di nebbia. Mi hai chiesto spesso di descrivertela, Zurigo. Cosa dirti se non che ha un lago, due fiumi e una collina, tram azzurri e bianchi che la tagliano veloci in tutte le direzioni… Non è una città virile, piuttosto androgina. La si può amare od odiare intensamente e contemporaneamente, come succede con le persone. Non la puoi paragonare a una città delle nostre; immaginati invece una donna alta, ossuta, con occhi larghi e chiari. Con dita lunghe, voce profonda. Una donna non bella, non giovane, che tuttavia ti costringe a guardarla, quando l’incontri. Che ti ossessiona anche se in realtà non la conosci. Però lei conosce te, e ti prevede in ogni mossa. Una che tu vorresti prendere, possedere, ma di cui hai paura. Io scappo da lei, scappo da Zurigo. E non riesco a spiegarti come, e perché, sono così terrorizzato all’idea che lei possa seguirmi”.

Imbucò la lettera prima di salire sull’Intercity per Chiasso. La città era illuminata a bagliori da luci bianche e rosse, e oltre il tetto della stazione insegne al neon reclamizzavano assicurazioni, banche e l’Hotel Continental.

“Addio” pensò Guido, sporgendo la testa dal finestrino, accendendosi una sigaretta. Il treno si mosse, lento e silenzioso. “Addio”, gli ricambiò il saluto una mano pallida da un cartellone pubblicitario, la mano di una donna fotografata di spalle, un grande cappello nero in testa e, sotto, un codino biondo. Guido pensò senza stupore “Eccola ancora, fino all’ultimo. Ma io la lascio. È Zurigo che lascio. Per sempre”. Addio, dunque, e tirò su il finestrino, ci si appoggiò con la schiena, continuando a fumare, calmo come da tempo non gli era più successo.

Poteva essere stata l’immagine di un manifesto, quella che l’aveva tormentato per mesi? O non era invece la Susan in carne e ossa che lui continuava a proiettare in ogni donna, a vedere ovunque?Immagine o realtà, era comunque rimasta lì, sul binario numero uno dell’Hauptbahnhof.

Guido entrò nello scompartimento e si stravaccò sul sedile. Schiacciò il mozzicone nel portacenere, poi gli venne in mente che aveva lasciato il giornale in valigia. Si alzò straccamente, spostò una borsa, tirò giù la valigia. Gli scivolò davanti agli occhi, legato con uno spago al portabagagli, un depliant illustrativo:

Zürich: Ihr werdet sie nicht so leicht vergessen

Zurich: vous ne l’oublierez pas facilement

Zurigo: non la dimenticherete facilmente

Lei era lì, col suo codino biondo, Grossmünster e il fiume Limmat alle spalle. Lo guardava seria, muoveva appena le dita a dirgli ciao, sono con te.

 

 

In Sotto assedio, Gattomerlino edizioni, Roma 2023

 

 

RECENSIONI

OZ

AMOS OZ, RESTA ANCORA TANTO DA DIRE – FELTRINELLI, MILANO 2023

Amos Oz (Gerusalemme 1939Tel Aviv 2018), tra i più noti  scrittori e saggisti d’Israele, poco prima di morire tenne una conferenza all’università di Tel Aviv, il cui testo è stato pubblicato da Feltrinelli con il titolo Resta ancora tanto da dire. È interessante rileggere questo documento, che mantiene pregi e difetti di ogni comunicazione orale trascritta per la lettura (vivacità, arguzia, improvvisazione, ma anche disorganicità e gusto provocatorio), nei giorni terribili che il mondo sta vivendo a causa della guerra in corso.

Prima di addentrarci nella disamina del pamphlet in questione, è forse opportuno ricordare qual è stata la vicenda biografica di Amos Oz. A partire dal suo vero cognome, Klausner, ripudiato per l’insanabile contrasto che lo contrappose al padre, sionista di destra, dopo il suicidio della madre avvenuto quando lui aveva solo dodici anni, con la conseguente decisione di lasciare la casa di famiglia e di entrare nel kibbutz di Hulda. “Oz” in ebraico significa “forza”, e il ragazzo Amos ne ebbe molta, riuscendo a conciliare i lavori agricoli nei campi sia con gli studi, conclusisi con la laurea a Gerusalemme e poi con la specializzazione a Oxford, sia con la scrittura, praticata assiduamente dai ventidue anni in poi. Sposo di Nilli e padre di due figli, docente di letteratura alla Università Ben Gurion del Negev, aveva prestato servizio di leva nelle forze di difesa israeliane sia nella guerra dei sei giorni sia durante la guerra del Kippur.

Le sue posizioni sono sempre state conciliatorie nella sfera politica e social-democratiche nella sfera socio-economica. Tra i primi intellettuali israeliani a sostenere la soluzione dei due Stati, aveva dichiarato in un articolo del 1967 sul giornale laburista Davar: “Anche un’occupazione inevitabile è un’occupazione ingiusta”. Nel 1978 fu uno dei fondatori di Peace Now. opponendosi all’attività colonizzatrice sin dall’inizio e sostenendo gli Accordi di Oslo e le trattative con l’OLP, con simpatie per le posizioni laburiste di Shimon Peres. Se nel luglio 2006 Oz aveva appoggiato l’esercito israeliano durante la guerra con il Libano, più recentemente in una conferenza comune con Grossman e Yehoshua dichiarò invece che Israele aveva esaurito il suo diritto all’auto-difesa.

Autore di romanzi di successo che indagano soprattutto le relazioni di coppia o generazionali (l’autobiografico Una storia di amore e di tenebra, Michael mio, Un giusto riposo), si è occupato della situazione politica del suo paese in molti interventi sulla stampa internazionale e nei due saggi In terra di Israele (1983) e Contro il fanatismo (2004), quest’ultimo stampato, distribuito e tradotto in varie lingue a sue spese per favorirne una diffusione capillare. I concetti fondamentali di Contro il fanatismo (secondo cui il conflitto israelo-palestinese non è una guerra di religione o di culture, ma piuttosto una controversia possessoria da risolvere con un compromesso) sono stati ripresi appunto nella conferenza del 2018, e si riducono principalmente a tre.

Lontano in ugual misura da ogni fanatico estremismo come da un pacifismo imbelle, Oz non ritiene che il male assoluto sia la violenza, bensì l’aggressività e la sopraffazione, che vanno decisamente fermate con la forza. Hitler non è stato sconfitto da una colomba con il rametto d’ulivo nel becco, ma dalla forza militare. Tuttavia non è con l’esercito che si può curare una ferita, e la ferita putrescente aperta da un secolo tra Israele e Palestina va sanata, non con “il bastone” dell’oppressione, della deterrenza, dell’esibizione muscolare, ma attraverso l’uso di una lingua di cura, una base di colloquio comune, nella comprensione e accettazione dei reciproci diritti ad esistere.

In secondo luogo, è necessaria, ineludibile, la creazione di due stati: “Se non ci saranno qui, e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo. E se dovesse sorgere qui un solo stato, non sarebbe uno stato binazionale. Sarebbe, prima o poi, uno stato arabo dal Mediterraneo al Giordano”, con gli ebrei ridotti a una minoranza senza rilevanza politica, così come è successo ai cristiani in tutto il Medioriente. Non esiste la possibilità di un unico stato multietnico prospero e pacifico, eccezione realizzata nel mondo solo dalla Svizzera. Tutti gli altri stati multietnici che hanno tentato la strada della bi-nazionalità sono incorsi in rovinosi fallimenti, e solamente la Cecoslovacchia è riuscita a creare due repubbliche separate senza spargimento di sangue.

Oz come terzo punto della sua lezione affronta la questione del sionismo, contestando l’idea che il rientro in Israele degli ebrei dispersi dalla diaspora sia stato determinato da un malinteso sentimento nostalgico di “ritornismo” o dalla ricerca di una spiritualità originaria. In realtà, era stata la consapevolezza (avvertita anche dai suoi nonni ucraini) di non avere un “altrove” in cui essere accolti, a spingerli a stabilirsi nella “Terra dei Padri”, pur sapendo che non avrebbero potuto trovare nello spazio qualcosa che si era perduto nel tempo. Non avrebbero lasciato l’Europa “se non fosse stato per la sofferenza, le persecuzioni e la scoperta che non c’era alternativa se non la reclusione nel ghetto o la totale assimilazione. Tutto ciò non deriva dal desiderio di ritorno. Non deriva soltanto né principalmente da ‘l’anno prossimo a Gerusalemme’. La verità è che non c’era altro luogo dove andare”.

Dopo essersi soffermato, con profonda tristezza, sull’odio secolare che gli ebrei hanno catalizzato su di sé in ogni epoca e luogo, Amos Oz conclude tuttavia il suo saggio con una nota di speranza non illusoria: “Nulla è irreversibile”, si può sempre cambiare. Mentalmente, caratterialmente, culturalmente, politicamente. Una diversa leadership in Israele e in Palestina potrebbe finalmente indicare la strada di un accordo: “Su, dai, facciamolo. Sarà difficile, complicato, doloroso, ma facciamolo e chiudiamo la faccenda una volta per tutte”.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 28 ottobre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

OGAWA

YŌKO OGAWA, LA CASA DELLA LUCE – IL SAGGIATORE, MILANO 2011

Quasi tutti i romanzi di Yōko Ogawa (Okayama,1962) sono stati pubblicati in Italia dalle edizioni Il Saggiatore: La casa della luce del 1990, è uscito nel 2006, e ristampato cinque anni dopo. Premiatissima, celebre in patria e molto tradotta all’estero, Yōko Ogawa è considerata una delle più importanti autrici post-moderne contemporanee giapponesi, esponente della corrente letteraria chiamata “black romanticism”, che esprime un punto di vista cupo e pessimista relativamente alla psicologia e ai sentimenti dei personaggi rappresentati. Le opere di Yōko Ogawa sono perlopiù storie narrate in prima persona, situandosi fra il genere realista e quello fantastico, con una sovrabbondanza di elementi concreti su cui si inseriscono dettagli surreali, grotteschi o addirittura soprannaturali. Le trame evitano il sentimentalismo e le situazioni esplicitamente erotiche o sensuali, mettendo in primo piano protagonisti alienati dal contesto storico e sociale in cui vivono. Con uno stile minimalista ma descrittivamente puntuale, propone una narrazione scorrevole e priva di pretenziose artificiosità formali.

Il volume di cui ci occupiamo consta di tre racconti lunghi, il primo e più riuscito dei quali, “La gravidanza di mia sorella”, ha ottenuto il prestigioso premio Akutagawa ed è stato pubblicato sul New Yorker, onore riservato precedentemente solo ad altri due autori nipponici.

La protagonista (senza nome, come quasi tutti i personaggi femminili di Ogawa) è una giovane universitaria, venditrice part-time nei supermercati della città, che vive con la sorella e il cognato odontotecnico novelli sposi. Quando la sorella rimane incinta, i nove mesi della gestazione diventano un incubo per il piccolo nucleo familiare: per la sorella stessa, in preda a ossessioni nevrotiche che la portano dapprima a rifiutare il cibo e poi a ingozzarsi di marmellata di pompelmo ingurgitata a cucchiaiate, conducendola a una pericolosa obesità; per il marito timoroso di contrastare i capricci tirannici della moglie: per la narratrice in prima persona, che annota meticolosamente in un diario settimanale il progredire angoscioso della gravidanza, sino alla sua temuta e imprevista conclusione.

Nel secondo testo, è ancora una giovane donna la figura di spicco della narrazione. Raggiunta al telefono dalla telefonata di un cugino ventenne perso di vista da molti anni, si adopera per trovare al ragazzo una sistemazione nella residenza studentesca da lei stessa frequentata durante l’università. Lo accompagna quindi nel suo ex-collegio per studenti, periferico e architettonicamente fatiscente, presentandolo al preside, un anziano e colto professore, menomato nel fisico perché amputato di entrambe le braccia e di una gamba. Nelle settimane che seguono all’iscrizione del cugino al convitto, la protagonista non riuscirà tuttavia a mettersi più in contatto con lui, venendo invece trattenuta a lungo nell’ufficio di presidenza. Scopre così che sulla residenza universitaria si sono addensate ombre di sospetto per l’improvvisa e inspiegabile scomparsa di uno degli studenti, motivo dell’allontanamento di tutti gli altri frequentanti. Il racconto rimane sospeso in un’atmosfera di dubbio e sconcerto, che la figura misteriosa e infelice del professore, ormai moribondo e impossibilitato a rivelare alcun segreto, contribuisce a rendere più inquietante.

Il terzo racconto, che dà il titolo alla raccolta, vede ancora come voce narrante una adolescente, segnata dai turbamenti e dalle ansie tipiche dell’età. Figlia del rigido direttore di un orfanatrofio buddhista, la ragazzina vive con fastidio e rancore l’atmosfera opprimente della Casa della luce, nutrendo il rapporto con gli infelici ospiti in essa accolti di sfumature morbose, che vanno dall’amore non corrisposto per un ragazzo fisicamente e caratterialmente eccezionale, al disgusto espresso in dispetti, ritorsioni e sadico disinteresse verso i più piccoli e fragili di lei.

Tre protagoniste di tre racconti raccontate con sensibilità e penetrante intuizione da una scrittrice donna. Se dovessi definire con due aggettivi la scrittura di Yoko Ogawa, così come si manifesta nel volume preso in esame, non avrei nessuna incertezza nell’utilizzare questi termini: delicata nella forma, implacabile nel contenuto.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net  «SoloLibri», 26 ottobre 2023

 

 

 

INTERVISTE

BETTIN

Nato a Venezia nel 1955, Gianfranco Bettin è laureato in Scienze politiche. Ha insegnato e lavorato nel campo della ricerca e degli studi socioeconomici e politici. Giornalista pubblicista, narratore e saggista, ha pubblicato alcuni romanzi e diversi volumi di indagine storica e sociale. Attivista politico e ambientalista, è stato deputato al parlamento, consigliere regionale del Veneto, assessore e prosindaco di Venezia e presidente della Municipalità di Porto Marghera. Attualmente è consigliere comunale a Venezia.

Tra i suoi libri: Qualcosa che brucia, Garzanti 1989; L’erede. Pietro Maso, una storia dal vero, Feltrinelli 1992; Nemmeno il destino, Feltrinelli 1997, 2004; La strage: Piazza Fontana. Verità e memoria, Feltrinelli 1999; Il clima è fuori dai gangheri, Nottetempo 2004; Gorgo: in fondo alla paura, Feltrinelli 2009; Cracking, Mondadori, 2019; I tempi stanno cambiando. Clima, scienza, politica, E/O 2022; La tigre e i gelidi mostri. Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia, Feltrinelli 2023.

La domanda più scontata che si può fare a un sociologo, in un’intervista sulla poesia, è se tale forma letteraria mantiene una rilevanza non solo culturale, ma anche civile, nell’Italia contemporanea, come per esempio è stato nell’800. La poesia, oggi, serve ancora a qualcosa nella nostra società?

Serve a molto, forse non a molti, ma quelli che ne vengono raggiunti, e che la cercano, ne traggono forza, idee, e a volte arrivano – loro, così alimentati – a tanti altri.

 

A quale età ha iniziato a leggere versi, e privilegiando quali autori nell’arco della sua vita? Ci sono state voci poetiche, anche straniere, che hanno lasciato un’impronta sul suo impegno politico e ambientale?  

 

Ha incontrato personalmente qualche poeta, e traendone quali arricchimenti dal punto di vista umano?

Ho conosciuto diversi poeti. Un po’ meglio, Patrizia Cavalli e Andrea Zanzotto. Cavalli quando ero molto giovane, negli anni Settanta, nell’ambiente di Elsa Morante (che pure ho conosciuto bene, e che considererei anche poeta oltre che romanziera, grandissima, a cui devo molto sia della mia formazione culturale che umana). Alla capacità di condensazione del verso di Cavalli, alla gravitas che cela nella sua grazia e leggerezza apparente (ma anche sostanziale, spesso, mozartiana), ho guardato sempre, cercando di assimilarla, scrivendo spesso di cose pesanti e cupe io stesso. Né le poesie né altri testi “cambieranno il mondo”, ma qualcosa, qualcuno, qualche momento sì, invece, che li cambiano. Patrizia lo sapeva. Zanzotto l’ho incontro quand’ero già adulto, sui 35 anni, alla fine degli anni Ottanta, dunque, ma il rapporto con lui, proseguito fino alla sua morte nel 2011, è stato davvero fecondo, per me, ricco di idee e suggestioni, di discussioni e scambi, in particolare sul territorio di entrambi, il Veneto, nel confronto tra la sua Marca e le mie Venezia e Porto Marghera, mondi estremi e alieni l’un l’altro e tuttavia compresenti in uno spazio ridotto, per i quali Andrea aveva grande interesse.

Che giudizio dà della produzione poetica attuale nel nostro paese? Dopo l’ermetismo, l’impegno politico del dopoguerra, lo sperimentalismo degli anni ’60, il collegamento con le arti visive e musicali, non ritiene ci sia stato un ristringimento di prospettiva, sia in termini di una chiusura solipsistica nel privato, sia nell’abbandono della ricerca formale?

Non ne so abbastanza per azzardare un giudizio. A volte mi imbatto nella poesia contemporanea, a volte mi accorgo di cercarla, e di trovare non di rado versi o testi che mi confermano in quella lontana idea che ne ho sempre avuto e che risale alle prime letture: l’eccezionale capacità della parola poetica di dire, o suggerire o evocare, qualcosa che non si può dire in un altro modo e che esprime una verità, la precisione clinica e artistica per così dire, di ciò di cui parla e, al tempo stesso, di far risuonare in sé tutto quello che fino a quel momento si è letto altrove, in altri testi, in altre circostanze, mettendo tutto insieme in un significato specifico, in quel punto, quel puntino connesso a una vastità incommensurabile, di cui si è parte e in cui ci si perde, tuttavia trovando qualcosa di sé. Tutti i limiti che la domanda rimarca rimangono: solo, non so se riguardino la poesia attuale o siano e siano stati propri di tutta la poesia, sempre. Capita, però, che vengano superati, anche oggi. che una forza e una grazia e una vitalità poetica si producano, in certi casi.

Poesia come spettacolo, esibizione, performance, poetry slam, festival, letture… Eppure le vendite nelle librerie ristagnano, mentre si alza il livello di competizione tra poeti, che rimangono i soli a leggersi tra di loro. Cosa ne pensa?

Ancora una volta, non ne so molto, ma ho l’impressione che tutto ciò sia sempre accaduto (comprese, in Italia, le scarse vendite, purtroppo), che faccia da sempre parte degli “immediati dintorni” della poesia (e della letteratura, e dell’arte). Per il resto, che si moltiplichino occasioni pubbliche – spoken word e poetry slam compresi, di cui pioniere in Italia è stato un altro mio amico valente poeta, Lello Voce – va benissimo: che parole e versi girino, vagando nell’aria e nella testa di chi ascolta, di chi passa e va.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 20 ottobre 2023

 

RECENSIONI

OLIVER

MARY OLIVER, PRIMITIVO AMERICANO – EINAUDI, TORINO 2023

Primitivo americano, premio Pulitzer per la poesia nel 1984, è il libro più noto di Mary Oliver, autrice poco conosciuta in Italia, ma amatissima dal pubblico americano. Einaudi lo propone nella sua prestigiosa collana bianca, con l’appassionata prefazione della curatrice Paola Loreto e testo a fronte. Mary Oliver, nata in Ohio nel 1935 e morta in Florida nel 2019, è vissuta principalmente nell’East Cost, nei dintorni meno frequentati di Cape Cod, là dove boschi, laghi, paludi delle Province Lands, nella loro intricata e misteriosa wilderness, si approssimano al mare protetto da scogli e dune sabbiose.

Sacerdotessa di un panteismo naturalistico, Oliver è stata la riconosciuta e celebrata rappresentante della poesia ecologista statunitense. Le cinquanta composizioni della raccolta riecheggiano temi e atmosfere presenti nei massimi cantori nordamericani della natura, da Henry David Thoreau a Ralph Waldo Emerson, da Walt Withman a Emily Dickinson, da Robert Frost a Elizabeth Bishop, con un’accentuazione visionaria particolare, prossima alle proiezioni allucinatorie della letteratura distopica e postumana di oggi.

Nella sua interpretazione del reale, sfumano i contorni materiali che differenziano specie da specie, mondo animale e vegetale, interconnettendo l’umano con il minerale, l’acqua e l’aria, nella fusione di elementi diversi in un’indistinta origine biologica comune.

Lunghe passeggiate solitarie, o in compagnia del suo cane, nella foresta o ai bordi di stagni e sulle rive dei fiumi, portano la poeta a imbattersi in tipologie diverse di alberi, cespugli, fiori e frutti (querce, pini, meli, anemoni, caprifogli, bacche, uva, more, funghi…), e in una ricca varietà di insetti, uccelli, quadrupedi, pesci, anfibi: dalle volpi alle lepri, dagli aironi ai corvi, dai pipistrelli ai gufi. Durante le sue quotidiane immersioni nel verde, si lascia pungere da spini e parassiti: “Dove il sentiero chiude / i battenti e oltre, / attraverso le foglie sgamollate, / i rami caduti, / attraverso l’intrico di salsapariglia, / ho proseguito. Alla fine / non riuscivo più / a salvare le braccia / dalle spine; le zanzare / mi hanno annusata / alla svelta, calda / e ferita, e sono arrivate / roteando e ronzando” (Egrette); incontra due serpenti che attraversano veloci il bosco “come una coppia affiatata / come una danza / come una storia d’amore”; osserva ortaggi selvatici maleodoranti ma comunque da rispettare: “Quello che infiamma il sentiero non è per forza grazioso”.

Con animali e piante vive esperienze simbiotiche e metamorfizzanti, in un mistero di compenetrazione reciproca: si trasforma nell’orsa che assaggia il miele, nel pesce appeso all’amo e poi ingerito, nel vitellino allattato dalla mucca, nella cerva che beve al ruscello, nei fiori pallidi bagnati dalla pioggia,  e l’assimilazione è più fisica che mentale, più carnale che emotiva: “l’unico modo / di indurre la felicità nella tua mente è introdurla // prima nel corpo, come piccole / prugne selvatiche”, “il blu del cielo mi cade addosso // come seta, i fiori ardono, e io voglio / rivivere tutta la mia vita, riiniziare daccapo, // essere assolutamente / selvaggia”.

Persino nella palude fangosa la poeta celebra il pantano, facendosi essa stessa palude: “Mi sento /… un ramo che ancora potrebbe, / a distanza di anni, metter radice, / germogli, gemmare, fiorire – / fare della sua vita un palazzo / vibrante di foglie”. L’elemento equoreo in cui si immerge diviene amnio ancestrale, e l’accoglie non più donna ma pesce, come all’alba della vita nel nostro pianeta: “Bracciata dopo / bracciata il mio / corpo ricorda quella vita e reclama / le parti perdute di sé – / pinne, branchie che / si aprono come fiori nella / carne – le gambe / vogliono serrarsi e diventare / un muscolo solo, giuro che / conosce / l’esatta sensazione / di essere coperta / di squame grigio blu!”

I mondi animali vegetali e umani sono parte inscindibile della stessa creazione, e le sedimentazioni millenarie di ossa sepolte nel terreno – scheletri di persone e carcasse di bestie – appaiono uguali nel ciclo eterno di nascita riproduzione e morte. Officiante di una Messa panica, Mary Oliver proclama un suo “Vangelo ecocentrico”, come suggerisce Paola Loreto nella prefazione, messaggio di salvezza per il pianeta soffrente, a cui indica la sola possibilità di resistenza nel destino comune di accoglienza di tutto ciò che vive e respira.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 ottobre 2023

RECENSIONI

CAROTENUTO

ALDO CAROTENUTO, I SOTTERRANEI DELL’ANIMA – BOMPIANI, FIRENZE-MILANO 2023

 Lo psicanalista Aldo Carotenuto (Napoli, 1933Roma, 2005) è stato uno dei massimi esponenti dello junghismo internazionale: tra i suoi numerosi volumi, Bompiani ha scelto di ripubblicare un testo fondamentale nell’indagine del rapporto che lega la creazione artistica con il malessere psichico: I sotterranei dell’anima, edito per la prima volta nel 1993, e ora riproposto: con il sottotitolo Tra i mostri della follia e gli dèi della creazione e la cura di Erika Czako. Czako è stata allieva di Carotenuto, e oggi è un medico che si occupa dell’assistenza ai malati oncologici terminali: nella sua intensa prefazione al volume ricorda che il suo maestro aveva fondato nel 1992 il Centro Studi di Psicologia e Letteratura, ancora operante, sulla base della convinzione che la psicoanalisi sia un esercizio più prossimo all’arte che alla scienza, e lo psicoanalista un soggetto dotato dell’ipersensibilità e della vulnerabilità dell’artista. L’autore propone in questo testo un viaggio affascinante e inquietante negli angoli bui dell’anima, filtrato dalle pagine di alcuni capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi, in particolare da quelle di Fëdor Dostoevskij e Joë Bousquet.

Esiste un pregiudizio millenario, espresso già da Platone e poi ribadito soprattutto dai romantici, che individua nell’alterazione mentale la fonte dell’originalità creativa: il folle come poeta, il malato come profeta visionario. In realtà la sofferenza psichica, e ogni patologia che ne deriva, isterilisce e non nutre, poiché non è in grado di comunicare e di produrre incontro. I grandi psicanalisti del ’900 manifestavano una visione riduttivistica della creatività artistica, ritenendola determinata da processi di frustrazione o sublimazione (Freud), di riparazione di un danno subito (Melanie Klein), di compensazione (Adler), di depressione (Segal). Più generosamente aperti verso la disposizione artistica si sono dimostrati Jung e Neumann, che ritenevano l’arte frutto di una tensione, di una trasformazione messa in atto dialetticamente tra la personalità individuale dell’artista e quella storica della collettività.

Carotenuto sostiene che la grande letteratura sa attivare nel lettore dinamiche profonde, tali da consentirgli la scoperta di parti di sé rimaste nell’ombra, mettendolo in grado di affrontare i propri demoni, trasformandone totalmente la visione della vita. Lo specifico dell’arte consiste nella trasfigurazione estetica del dolore, che viene così traslato sul piano delle sensazioni configurate da immagini. L’uomo del sottosuolo di Dostoevskij ha segnato, nell’ambito della letteratura ottocentesca europea, un profondo mutamento della prospettiva narrativa, non più fondata su una rappresentazione oggettiva della vita sociale dell’epoca, ma sulla soggettività dei protagonisti. La focalizzazione da parte dello scrittore sulla dimensione interiore dei personaggi diventerà poi una peculiarità del romanzo novecentesco, come in Kafka e in Joyce. Il sottosuolo diventa metafora dell’inconscio, luogo demonico citato in tutte le mitologie, sede dei morti e di mostri, ma anche luogo di germinazione, di gestazione e di maturazione delle creature prima di affacciarsi alla luce. Il viaggio nella propria interiorità coincide sempre con il calarsi nella solitudine, nell’allontanamento dagli stimoli del mondo esterno: il protagonista dostoevskijano è consapevole della propria diversità, patita come sofferenza e malattia dell’anima, e lo afferma esplicitamente: “Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso… Non sono un uomo attraente … Io sono solo, mentre loro sono tutti… In tutta la mia vita non mi è mai riuscito di portare a termine nulla”.  Questo sentimento di inadeguatezza nei confronti degli altri, verso cui nutre sentimenti contrastanti e negativi, lo induce a trarre appagamento dal proprio male, dal proprio devastante nichilismo. Sentendosi incompreso, perseguitato dalla società, proietta su di essa il suo disagio, un vero e proprio odio: “Non posso soffrire la gente. La gente mi dà fastidio”. Carotenuto riconosce in questo atteggiamento masochistico un evidente intento autopunitivo, comune a molti pazienti che si rivolgono all’analista perché prigionieri del loro castello interiore abitato da fantasmi, ma insieme ammaliati dalle ombre sinistre e dagli angoli sordidi in cui si rifugiano, fino a trarre da questo disgusto di sé un piacere perverso. Nella sua rabbiosa sfida a un’esistenza senza progettualità e senza futuro, l’uomo del sottosuolo si definisce “un infelice topo”, dando di sé quest’immagine: “Niente sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né ribaldo, né onesto, né eroe, né insetto. E ora trascino la vita nel mio angolo, tenendomi su con la maligna e magrissima consolazione che un uomo intelligente non può in verità diventar nulla e che solo gli sciocchi diventano qualcosa”.

Nella propria lunga esperienza di analista, Aldo Carotenuto ha spesso osservato come in questi pazienti, che si sfiniscono in un processo di autoconoscenza e in “un dibattito incessante tra sé e sé e i propri immaginari interlocutori-giudici”, esista in realtà una grande ricchezza di visioni e fantasie interiori che spingono per uscire allo scoperto, e per farsi riconoscere dagli altri. Su questa occultata positività l’analisi deve operare, per permetterle una riemersione, come fa il pescatore di perle quando porta il tesoro recuperato in superficie.

Carotenuto, nella sua serrata indagine sul malessere masochista che si traduce in atteggiamenti autodistruttivi, prende in esame il meccanismo di identificazione con l’immagine paterna, che ha agito come elemento perturbante nella vita e nell’opera di Fëdor Dostoevskij. “Il rifiuto del modello genitoriale, il processo di differenziazione dalla potente immagine paterna” ha generato un soffocante senso di colpa, presente sia nell’esistenza dello scrittore sia nei suoi personaggi, spesso devianti dalla norma e dalla legalità (l’alcolizzato, il criminale, il giocatore, la prostituta…), e incapaci di adeguarsi al buon senso comune.

In chi rinuncia a confrontarsi con la realtà, in genere l’unica fonte di significato nell’interpretazione degli eventi diventa l’esercizio assoluto della ragione a discapito della dimensione emotiva e irrazionale, che viene negata e mortificata come indegna e umiliante, condannando in tal modo all’aridità dei sentimenti, alla paura delle emozioni, e a un’esistenza rigida e inappagante. “L’emozione coinvolge laddove la ragione controlla”. In tale pericolo è caduto l’uomo occidentale da quando ha negato a sé stesso l’energia vivificante e liberatoria che deriva dall’esercizio dell’immaginazione, della fantasia, dell’utopia in grado di superare i confini del reale, ipotizzando modelli e ideali di vita inediti.

La seconda parte del volume di Carotenuto prende in esame la vita e gli scritti di un autore all’epoca poco noto, e oggi rivalutato e riproposto da molti editori: il francese Joë Bousquet, che durante la prima guerra mondiale riportò una lesione alla colonna vertebrale, rimanendo paralizzato per i restanti trent’anni della sua vita. Costretto a vivere a letto, nella penombra della sua stanza, colpito nella carne e ferito nell’animo, seppe rispondere alla tragicità del suo destino in maniera creativa e feconda, universalizzando la sua esperienza, sublimando il proprio supplizio: “Ecco: distrutto a vent’anni, ho voluto attraversare l’ostacolo che l’infermità erigeva in me, renderlo trasparente… Volevo che la ferita avesse un senso”. Privato del proprio corpo, Bousquet accettò di vivere nella sofferenza e della sofferenza, mediante il corpo della scrittura, che divenne innanzitutto conoscenza soteriologica, metodo di salvezza, individuale e collettiva: “Se una simile afflizione non mi ha ridotto alla disperazione è perché mi è rimasta la voce…  Scrivo per aprire con la solitudine un largo cammino verso gli altri”.

Aveva già sperimentato, prima dell’incidente, la fascinazione della morte, sia nell’uso adolescenziale di droghe, sia nel tormento di amori sconvolgenti e distruttivi, in una inquietudine che lo portò a offrirsi volontario per il combattimento in prima linea, quasi predestinato da una intenzionalità inconscia, in una ricerca di verità ultime, fisiche e spirituali. Riuscì a resistere, in seguito, alla tentazione del suicidio, mantenendosi attento e disponibile a ogni trasalimento del cuore, a nuovi innamoramenti, alla passione per la letteratura, all’incontro con diversi amici e intellettuali (tra cui Simone Weil) che lo visitavano con regolarità nella sua cittadina di Carcassonne. Secondo Carotenuto, “Ciò che trapela dalle pagine dei suoi diari, e che rende la lettura delle sue riflessioni così stimolante, è proprio la forza psicologica che esse emanano, che gli ha consentito non solo di convivere col suo dolore, ma di trasformarlo in materia poetica”.

Due scrittori, Dostoevskij e Bousquet, che hanno conosciuto e abitato i sotterranei dell’anima, con dolore, rabbia, frustrazione, affrontandoli e illuminandoli con diversità di sguardo e destino.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 9 ottobre 2023