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INTERVISTE

ACITELLI

FERNANDO ACITELLI, CANTORE DI ROMA E DEL CALCIO

 

Nato a Roma nel 1957, laureato in Lettere Moderne e in Filosofia, ha pubblicato opere in versi e in prosa. Tra le raccolte poetiche: Gli amplessi di Saint Just (1994); La solitudine dell’ala destra (1998); Il bacio dei coniugi Arnolfini (2001), Hogarth (2008), Cantos Romani (2012), Accattone ((2015). In narrativa: I vecchi esultano la sera (2007), Miagola Jane Birkin (2009).

  • Ci può parlare in breve dell’ambiente familiare e culturale in cui è cresciuto e si è formato?

È la Roma degli anni ’60, ariosa, gioiosa, spontanea, in certi scorci ancora belliana sui gradini di certe chiese a Trastevere; una città composta da tante piccole drammaturgie che, tutte insieme, formavano un affresco prezioso. È stata la Roma popolare, colorata e vociante, post bellica; quella dei cortili silenziosi con ballatoi e cessi arrampicati, ricoperti di muschio. Lo stupore all’ascolto di melodie degli anni ’30: qualche superstite disco di Rabagliati da un grammofono. Il timore nei cortili era mandare ariette degli anni ’30. Il giovanotto in canottiera sul balcone, muscoloso per natura. Lei signorina guizzante, già impiegata, puntuale al mattino alla fermata del tram. Una Roma di sguardi sinceri anche nella stentatezza del vivere, anzi, ancor più votati alla sincerità proprio in virtù di tale condizione. Una Roma di strade sgombre, di spazi ampi; una Roma “del quartiere”, che pareva fosse cinto da mura se tutto si svolgeva al suo interno: il panettiere, lo stagnaro, il barbiere, il bar, il cinema di seconda visione, il Due Allori, l’Impero, l’Alfieri, l’Arena Flora e poi il Diana; quindi la sala biliardi, la merceria, la bustaia, la sarta in un negozio sulla strada, le osterie con pergolato dove i vecchi si stordivano con litri di Frascati; un quartiere con le sue eleganze se nelle cartolerie, a Natale, vendevano anche le statuine del presepe. E poi l’universo del mercato dove ogni paura sembrava attenuarsi per l’umanità che grondava dai venditori. Lo sentivo con mia madre, per mano. E tutt’attorno, accanto ad una edilizia economica e popolare con casette basse e giardinetto sul davanti, incominciavano a vedersi i primi palazzoni, proprio come quelli di Don Bosco, a Cinecittà, in certi scorci di Mamma Roma. Anche quei silenzi all’inizio de Il sorpasso di Dino Risi li ho sentiti molto anche se il mio quartiere non era quello alto borghese della Balduina. Ricordo i silenzi d’agosto con la città vuota: uno spettacolo ammirare quella desolazione rovente. Girare da solo nel quartiere era un’avventura entusiasmante. Una Roma umana, non ancora oltraggiata. Una Roma bellissima perché prima del genocidio, della mutazione antropologica come avrebbe sottolineato Pasolini pochi mesi prima di essere ucciso, riferendosi alla nuova dittatura del consumismo. Una Roma in cui la famiglia era al centro di tutto. Eccola in sequenza quella che mi riguardava: mio padre, reduce di guerra ed ex internato nei campi di concentramento e mia madre, l’angelo del perimetro sacro della casa. Io e mia sorella a stupirci che fosse tutto vero dinanzi a noi.

  • Quando e come si è avvicinato alla letteratura, e quali sono stati gli autori che più hanno influenzato la sua scrittura?

Sono nato in mezzo ai libri. Ogni sera mio padre rientrava con un libro o più fascicoli delle varie enciclopedie che iniziava e portava a termine. Il ricordo vivo è che lui apre la porta e in mano ha quel tesoro. Dopo cena a me e mia sorella dedicava molto tempo e ci insegnava il disegno in cui lui era bravissimo. Con i pastelli specialmente. Lo ammiravamo come fosse un eroe. Da subito amai  le enciclopedie, ci rimanevo pomeriggi interi e rimandavo alla sera i compiti. Ero colpito subito dai nomi e dai volti dei personaggi storici. Vedevo immediatamente la loro data di nascita e di morte. M’interessava molto sapere quanto avevano vissuto e cosa avevano combinato. Le illustrazioni e le fotografie aiutavano moltissimo. È ad esse che devo molto. La mia passione per i volti, gli sguardi e quindi l’interpretazione dei tipi umani, credo che sia iniziata in quelle sere alla metà degli anni ’60 insieme a mio padre. Mia madre ci lesse tutto il libro Cuore: io e mia sorella avevamo quattro e cinque anni. Quando mia madre arrivava al racconto Dagli Appennini alle Ande io e mia sorella iniziavamo a piangere. Mio padre leggeva prima di coricarsi: abatjour accesa e vai con le biografie, i libri suoi preferiti. Antichi e moderni faceva lo stesso. Lo imitai: con fatica avanzavo nelle Vite parallele e, come terminavo un’esistenza, mi sentivo grande. Il primo romanzo che lessi fu Capitani coraggiosi di Kipling. Poi vennero Tom Sawyer, I ragazzi della via Pal e L’isola del tesoro, Zanna bianca nelle edizioni a fascicoli della Fabbri Editori con copertina di pelle blu e dorature sul dorso.

  • Lei è stato definito “cantore di Roma e del calcio”. In che modo queste due passioni hanno nutrito la sua produzione letteraria, e insieme a quali altre espressioni artistiche o esperienze esistenziali (cinema, arte, teatro, lavoro, politica…)?

L’altra passione di mio padre era il calcio. Negli anni ’30 era stato bravo nei Boys della Lazio. Aveva smesso subito perché il tempo spensierato mancava. La Roma – frattanto era il 1927 – iniziò la sua storia al Campo Appio, a poca distanza da casa nostra. Mio padre non si perdeva una partita. Giocò per un breve periodo nella Lazio ma tifava Roma perché il primo campo dei giallorossi era vicino casa e lui, fanciullo, stava sempre lì. Giocò a calcio anche durante la guerra: mio padre partì per il servizio di leva nel 1937 e, terminata il periodo canonico di ferma, tornò per un breve periodo a casa; poi nel 1940 fu richiamato alle armi e tornò in Italia nel febbraio del 1946: fronte greco-albanese, Africa settentrionale, fatto prigioniero a Tunisi, poi condotto a Casablanca; da lì in nave fino a New York, poi a Washington, quindi in treno prima nei campi di concentramento di Lordsburg (New Mexico) e poi a Hereford (Texas). Le sue lettere dagli scenari di guerra – a parte il VERIFICATO PER CENSURA – sono delle lezioni di stile e descrivono un animo nobile. Questi fatti devo narrarli, magari di volo, perché hanno influenzato tutta la mia vita. Quanto al sentirsi definire “cantore di Roma e del calcio”, è un onore: se lo sapesse mio padre! A lui devo tutto. Le antichità di Roma erano le nostre traiettorie quando lui era libero: musei, Foro romano, chiese, marmi, scheggiature, busti d’imperatori. E poi gli anfiteatri. La via Appia Antica, la regina viarum, la posso vedere ad ogni ora del giorno salendo al terrazzo condominiale. Le tombe romane, sulla via Latina, la via arcaica dell’Urbe, sono a cento metri da casa. Sto tra le rovine, nella Storia. Sono un reperto anch’io. Succedeva questo quando ero piccolo: giocavo a pallone all’oratorio che stava proprio lungo la via Latina e lì, dopo le varie partite, scambiavo le figurine Panini giocando pure “a soffietto” per vincere. Quindi avevo degli eroi in mano, i calciatori appunto. Uscendo dall’oratorio c’era un infinito verde ondulato, quello che oggi è il più grande parco archeologico d’Italia, quello della Caffarella: lì, dopo la pioggia, la terra faceva riemergere monete romane, corniole, lacrimatoi, ampolle. Ogni moneta mostrava il profilo d’un imperatore. Una fortuna per me girovagare in cerca dei reperti. Il cortocircuito in me avvenne allora: figurine Panini in una mano e profili d’imperatori romani nell’altra. Il gioco era fatto. La solitudine dell’ala destra, si può dire con certezza, nacque quando non avevo nemmeno dieci anni, lungo la via Latina. Dovevo soltanto aspettare e accumulare dolore e trovare la forma. Passare alla parola scritta è stato abbastanza facile: sono stato e sono un instancabile camminatore e Roma l’ho attraversata a piedi in lungo e in largo; tutto questo non poteva che lasciare un segno in me. Camminando, superando quartieri, sentendo conversazioni, vedendo le case antiche accanto alle costruzioni moderne, comunicandomi con il passato, ecco che la parola, almeno agli animi sensibili, sopraggiunge. Inoltre: soprattutto il cinema mi affascinava ma intendo per lo più il luogo: era un miracolo vedere l’umanità che si sbracava lì dentro, nei cinema di 2° e 3° visione. Mi perdevo ad osservare tutti gli individui presenti in platea quasi tralasciando la pellicola che scorreva sullo schermo. Che miracolo erano i cinema di 2° e 3° visione a Roma tra la fine degli anni ’60 e tutti li anni ’70!… Avrei anche dormito lì dentro, insieme a chi mi aveva colpito tra perdigiorno, vagabondi, poveri che forse erano finiti là dentro per non pensare alla loro magra esistenza. Avevo il mito della cassiera ma non perché bella o provocante ma perché lei in un cinema di periferia era uno scrigno d’immagini per me, come pure l’uomo che strappava i biglietti. Lei stava al suo posto fino all’ultimo spettacolo e prendeva l’autobus per tornare a casa, l’ultima corsa. Bellissimo! Quasi sempre, nel raccontare, finisco in un cinema. Quanto all’arte, devo dire che la pittura mi è sempre stata accanto: anche lì, fondamentali sono state le visite con mio padre in chiesa e musei: ricordo soprattutto la Galleria Doria-Pamphilj e poi la Galleria Spada. Sono traiettorie che ancora m’appartengono. Per chi come me pensa per immagini e tiene a distanza i concetti, la pittura è amica fedele.

  • La Roma del passato e quella presente, lo sport nobile e quello corrotto: un confronto sempre deludente e insanabile?

Non è più tempo per le poesie scritte con il lapis o i foglietti ritrovati  di Kavafis. Quel tempo l’ho amato e pendo ancora verso di esso ma s’è dissolto: la mia inattualità è una certezza. Ho scritto tanto con i mozziconi di matita e ancora lo faccio per resistere: m’accantuccio da qualche parte – chiesa, vicolo, piazzola, ufficio postale – e sogno che la favola bella sia ancora nel paesaggio; in verità davanti ho tutte quinte sceniche che crollano. Il linguaggio s’è fatto acrilico e le vite inautentiche sono ovunque. La schedatura della società tecnologica ha tolto ogni mistero: ovunque si vada c’è una telecamera e l’essere rintracciabile con un codice è spaventoso. Dov’è finito l’uomo? La verità è che non credo negli individui e non ho speranze.

  • Dai suoi versi si intuisce una sensibilità attenta nei riguardi della fede e della spiritualità, della solidarietà verso gli ultimi e del rispetto per l’ambiente e la cultura. Sono valori trasmissibili, secondo lei, anche attraverso la poesia, o risultano obsoleti e indifferenti per il pubblico dei lettori?

Il mio mondo è quello dove s’innalzano gli ultimi e dove si stenta a vivere: questo lo vede benissimo e lo introietta soltanto il camminatore solitario. C’è una vicinanza ad essi perché anch’io vivo con poco e oggi la possibilità di finire sotto le arcate della Stazione Termini è possibile per tutti. Quanto allo scrivere, le disperazioni non si cercano e non si trovano nel computer, semplicemente si vivono. I reduci da qualcosa sono i miei compagni di strada: la loro chioma arruffata, il cappottone, la fragilità nello sguardo, gli improvvisi sorrisi, l’assenza d’una busta paga, d’un libretto sanitario. Possono contare soltanto su se stessi. E poi non sono in contatto. Per me sono queste figure a mandare in onda filmati d’un privato Ancien Régime dove anche Dio era presente. I disperati, i monologanti, i dormienti dentro vecchi vagoni sono l’idea del “senza orario”, del giorno pieno veramente, dell’abbandonata ossessione del tempo. Esistenze uscite dalla vita. E poi stravedo per le camere ammobiliate dove il sogno si solleva: lì dentro non si sarà mai raggiunti da messi comunali, da raccomandate e neppure da quegli ultimatum propri della Tecnica. La vera poesia nasce dalla disperazione e non nei salotti o nel tepore senza fine del benessere. La poesia (che si sente anche quando scrivo in prosa) mi sostiene; è l’unico puntello vero, ma non credo serva a mutare le tante crudeltà che s’allestiscono ogni giorno in gran silenzio.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/intervista-FernandoAcitelli.html      29 novembre 2016

   

 

 

 

INTERVISTE

ANELLI

Organizzare la cultura: poesia e critica secondo Amedeo Anelli

 

ORGANIZZARE LA CULTURA: POESIA E CRITICA SECONDO AMEDEO ANELLI
INTERVISTE

ATMOSPHERE LIBRI

Intervista a Mauro Di Leo, editore di Atmosphere Libri

INTERVISTA A MAURO DI LEO, EDITORE DI ATMOSPHERE LIBRI

  • Quando e dove è nata la vostra casa editrice e con quali motivazioni e scopi?

Atmosphere libri è nata nel 2010 con l’intento di pubblicare soprattutto letteratura straniera che non fosse quella scritta nelle maggiori lingue, cioè l’inglese, il francese e lo spagnolo. È pur vero che nel corso di questi anni (abbiamo pubblicato oltre cento romanzi), nel nostro catalogo sono presenti, seppure in numero esiguo, anche alcuni scrittori francesi, americani e spagnoli (tuttavia la maggior parte sono di lingua catalana), ma la nostra visione spazia verso mondi culturalmente lontani dal nostro, come l’Estremo Oriente e l’Europa dell’Est, in particolare la letteratura russa, o il mondo del Medio Oriente, senza preclusioni religiose, linguistiche e culturali tra arabi ed ebrei. Nel nostro catalogo ospitiamo scrittori israeliani e arabi in una comune visione, benché solo virtuale, di un mondo di pace. Forse, almeno la letteratura può mettere d’accordo mondi che sono in perenne conflitto tra loro. Cerchiamo di dare una visione obiettiva ai nostri lettori, tramite la scrittura romanzata, di come sono e come vivono le persone in un certo luogo. Molte volte si scopre che le problematiche di un giapponese sono le stesse che quotidianamente vivono un egiziano, un israeliano o un russo. Crediamo di essere diversi ma lo siamo sono nel colore della pelle e di altri particolari somatici ma non nella testa. Siamo sempre stati convinti che non si possa fare a meno della forza culturale di società lontane ideologicamente dalla nostra società. Non esistono maggiori libertà e progresso nello scambio interculturale tra i popoli.

  • Quante persone collaborano al vostro progetto?

Ci sono redattori, un grafico e altri soggetti che ci aiutano nel nostro percorso di crescita. Soprattutto, abbiamo lettori che ci stimano e ci leggono condividendo le nostre scelte.

  • Che genere di narrativa proponete e quante collane avete in catalogo?

Proponiamo una letteratura colta che proviene dal Giappone, Corea, Cina in una collana curata dal professor Gianluca Coci, dalla Russia (agiamo in collaborazione con il professor Mario Caramitti), Egitto e altri paesi di lingua araba in una nuova collana denominata biblioteca araba. Pubblichiamo anche letteratura più commerciale ma pur sempre valida che proviene dai paesi scandinavi. In questo caso, riteniamo che la lettura di un thriller norvegese o finlandese non sia solo di svago, ma rappresenti un modo per conoscere dei luoghi tanto diversi dai nostri, soprattutto dal punto di vista climatico, che tanto accuratamente sanno descrivere gli scrittori nordici. Inoltre, abbiamo una forte presenza di letteratura per ragazzi e adolescenti perché crediamo nel processo di crescita delle generazioni più giovani.

  • Qual è stato il vostro libro che ha riscosso più successo, di pubblico e di critica?

Abbiamo alcuni libri che hanno riscontrato il successo della critica e dei lettori (seppur sempre in numero esiguo): La giornata di un opricnik del russo Vladimir Sorokin, vincitore del Premio Von Rezzori come migliore romanzo straniero pubblicato in Italia nel 2014 e il romanzo per ragazzi Amici della giapponese Yumoto Kazumi, finalista in vari premi letterari, tra cui l’Andersen. Abbiamo anche ottenuto un buon riscontro con un classico autore giapponese, Akutagawa Ryunosuke, di cui recentemente abbiamo pubblicato dei racconti, tra cui diversi inediti, dal titolo La scena dell’inferno e altri racconti. Stiamo parlando del maggior autore nipponico dei primi anni Trenta del Novecento, il maestro del racconto breve.

  • Che tipo di difficoltà incontrate nel diffondere la vostra attività e cosa vi augurate per il vostro futuro di editori?

Abbiamo le difficoltà di tutti i piccoli editori che sono legate soprattutto alla scarsa visibilità nelle librerie. È impossibile contrastare la strapotere dei grandi gruppi editoriali e, se il libro non è presente in una libreria, il lettore è difficile che ti venga a cercare se non ti conosce. È assurdo che stiamo morendo le librerie indipendenti, le uniche che riservano un po’ di spazio agli editori indipendenti, anche quelli piccoli come noi. Le librerie del genere supermercato del compra-libri ormai rappresentano la maggioranza e vendono solo ciò che è commerciale e sia prodotto dai propri editori di cui fanno parte. Purtroppo, l’Italia non è un paese che dedica le proprie energie anche alla cultura. Ci sono pochi lettori perché non ci sono biblioteche scolastiche, non ci sono librerie con librai competenti, non ci sono aiuti e fondi per tutelare i librai e gli editori indipendenti, non ci sono associazioni di editori e librai indipendenti che sappiano dialogare. Speriamo di crescere tutti insieme e la speranza di Atmosphere libri è quella di farci conoscere da più lettori per confermare la nostra presenza culturale perché siamo consapevoli di offrire un prodotto diverso e interessante con cui confrontarsi. Nel nostro futuro, ci sarà una maggiore caratterizzazione come casa editrice che guarda ai romanzi per ragazzi e alla fiction dell’Estremo Oriente e della Russia. A breve, nel nostro catalogo, avremo scrittori già famosi in gran parte del mondo come Raja Alem, Abdo Khal, Viktor Pelevin, ancora Vladimir Sorokin, Murakami Ryu, Abe Kobo e diversi coreani.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Intervista-html     29 marzo 2016

 

INTERVISTE

BARBERA

GIUSEPPE BARBERA: AGRONOMO, DOCENTE UNIVERSITARIO, SCRITTORE
Cinque domande al professor Giuseppe Barbera

 

Giuseppe Barbera è professore ordinario di Colture Arboree all’Università di Palermo. Si occupa di alberi, sistemi e paesaggi agrari. Tra i suoi libri, “Tuttifrutti. Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei, fra scienza e letteratura” (Oscar Mondadori, Premio Giardini Hanbury, Grinzane Cavour. 2007) e il più recente “Abbracciare gli alberi” (Il Saggiatore, 2017).
Per il FAI ha curato il recupero della Kolymbetra nella Valle dei Templi e del giardino Donnafugata nell’isola di Pantelleria. È socio onorario AIAPP.

  • Ci può introdurre all’ambiente in cui è nato, cresciuto e ha studiato, raccontandoci quanto il suo milieu formativo ha contato nelle sue scelte professionali e culturali?

La famiglia di mio padre possedeva una vecchia villa nella Conca d’oro, circondata da limoni e mandarini. Ai tempi della scuola vivevamo però in città per trasferirci per le lunghe vacanze estive in quella che consideravamo una lontana campagna. Adesso e dagli anni del sacco edilizio di Palermo è circondata da orrendi palazzi di cemento ma il ricordo delle estati passate nel giardino, rimane indimenticabile. E certo ha contribuito ad orientarmi verso gli studi agrari in università. A quel tempo fu una scelta nata dal desiderio di sfuggire al destino che voleva che prendessi il posto del padre nell’azienda (una centrale del latte) paterna. Era il Sessantotto e volevo guadagnare tempo.

  • Nella sua attività di docente universitario, rileva una particolare sensibilità ai problemi ambientali tra gli studenti, i collaboratori e i colleghi?

Ormai la mia attività dura da molti anni e l’interesse degli studenti va e viene con le passioni politiche e culturali dei tempi. Diversa l’attenzione dei colleghi. In genere incapaci di andare oltre i saperi ristretti dell’agricoltura intensiva e incapaci di una visione sistemica. Per loro l’irrompere delle scienze ecologiche ha rappresentato un incomodo e nel migliore dei casi è stato strumentalmente colto per avanzamenti di carriera o pingui finanziamenti per attività di ricerca

  • Ritiene che le istituzioni, regionali e statali, siano sufficientemente attente alla salvaguardia della natura che ci circonda? Nel suo ultimo libro “Abbracciare gli alberi” sono evidenti i toni polemici e indignati riguardo alla corruzione e al disinteresse politico su questo argomento.

Certo che no! I loro interessi non vanno oltre ravvicinati orizzonti elettorali, ovviamente con qualche eccezione. La salvaguardia della natura, ma più ancora la necessità di perseguire un rapporto di collaborazione tra uomini, piante e animali e di non considerare l’umanità centro e misura del pianeta è a loro sconosciuta. Guardiamo al caso dei cambiamenti climatici. Tra non molti anni il clima sarà definitivamente sconvolto, molte aree diventeranno sterili e masse di disperati saranno in viaggio verso luoghi di sopravvivenza. Questo dovrebbe portare a politiche di grande respiro e lungo periodo e invece il tempo passa a vuoto.

  • Oltre alle numerose pubblicazioni accademiche, quali sono stati i suoi libri diretti a un pubblico non specialistico, e che riscontro hanno avuto tra i lettori e i critici?

Tuttifrutti” è stato il primo importante ed è stato giocoso scriverlo. “Conca d’oro” parla di me, del posto dove vivo e del mio lavoro d’agronomo e del mio impegno ecologista. Sono fiero di averlo scritto. “Abbracciare gli alberi”, in questa seconda edizione, è finalmente il libro che pensavo di scrivere.

  • Quali scrittori e poeti, antichi e contemporanei, ha trovato più affascinati e vigili rispetto al mondo naturale?

Sono un lettore onnivoro ma, essendo fortemente legato agli alberi e ai paesaggi mediterranei amo particolarmente gli scrittori siciliani. Mi viene da dire: tutti. Da Vittorini a Tomasi di Lampedusa, Pirandello, Sciascia, Verga e Brancati…

 

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/intervista-Giuseppe-Barbera.html       6 settembre 2017

 

INTERVISTE

BERENGO

VALENTINA BERENGO E LA POESIA

Valentina Berengo, veneziana, scrive di narrativa su quotidiani e riviste online, tra cui «Il Foglio», «minima&moralia» e «Il Bo Live», magazine dell’Università di Padova. Laureata in Ingegneria nel 2006, ha ottenuto un dottorato in Ingegneria geotecnica nel 2010. Nel 2016 ha pubblicato con Cleup il volume di racconti L’incanto dentro. È giornalista professionista dal 2021.

·       Dopo quale percorso di studi, e assecondando quale inclinazione personale, è arrivata a occuparsi di giornalismo culturale?

Al liceo classico ho capito che l’umanesimo è la mia dimensione interiore: ho iniziato allora a subire la fascinazione del mondo greco antico, dal mito alla tragedia. Quando, nel mezzo di un lutto emotivo molto grosso, cercavo qualcosa che potesse darmi un po’di sollievo, ricordo di essere salita su un treno per Firenze diretta a Palazzo Strozzi dove c’era una mostra sul Verrocchio e di aver respirato per qualche ora. Certo, sono laureata e ho un dottorato in ingegneria geotecnica: la matematica è un linguaggio che tutti dovrebbero poter parlare, e la pratica dell’ingegneria mi ha mostrato che c’è chi riesce ad abitare il mondo senza sentire il bisogno di speculare sull’interiorità umana. Ma non io: la letteratura è per me una chiave di accesso al senso dell’esistere, quindi a trent’anni ho deciso che la lettura e la scrittura, che coltivavo da sempre, sarebbero dovute diventare il mio lavoro. Ho iniziato così la gavetta nel mondo editoriale. Ho inventato progetti di diffusione del libro, rassegne letterarie, lavorato in redazione e all’ufficio stampa per due case editrici, iniziato a presentare autori in libreria e contemporaneamente a scrivere di narrativa sui giornali: ci ho messo un po’ a decidere di prendere il tesserino, ma credo che, a un certo punto, far coincidere il titolo con il mestiere possa aiutare – quantomeno gli altri – a capire chi sei. La domanda: “Che lavoro fai?” mi mette ancora in crisi, perché mi occupo di molte cose diverse, anche se tutte in ambito editoriale, ma la risposta: “Sono una giornalista culturale” è quella che ne comprende la massima parte.

·       Quali iniziative e progetti ha ideato e vorrebbe perseguire, sempre in ambito culturale ed editoriale?

Ho iniziato con un progetto di consigli di lettura in radio, Personal Book Shopper: dimmi chi sei e ti dirò cosa leggere, che segue l’adagio secondo cui ogni libro ha il suo lettore ed è importante che libro e lettore si incontrino nel momento giusto, filosofia che oggi sviluppo con il gruppo di lettura che coordino da anni alla Feltrinelli di Padova; mi batto per divulgare l’idea che non ci sia conflitto tra il sapere umanistico e quello scientifico-tecnico con una rassegna che ho fatto nascere a Padova e ora vive a Torino: L’anima cólta dell’ingegnere, e dal lockdown in avanti “porto” scrittori e scrittrici nelle case di chi ama leggere con Scrittori a domicilio, un canale online di presentazioni di libri. Poi organizzo rassegne per le Biblioteche, sono la editor di una collana di saggi divulgativi per il giornale dell’Università di Padova, e ho in animo di continuare a fare tutto questo, senza smettere di presentare autori e scrivere di libri, ma anche di ampliare l’orizzonte. La filiera del libro mi affascina tutta. È un settore complesso, sempre in sofferenza dal punto di vista economico, in cui le persone si muovono chiamate da una vocazione e da una punta di narcisismo. Voglio scandagliarlo ancora e fare del mio meglio per portare il mio contributo alla causa. Sto lavorando su un paio di progetti, ma per scaramanzia non dico ancora nulla. Incrocio le dita e continuo!

 

·       Nello spazio che i media dedicano ai libri, la poesia ha sempre un ruolo marginale. La diffidenza verso la forma poetica è dovuta a una scarsa diffusione, frequentazione ed educazione al testo letterario in versi, o al suo linguaggio non facilmente approcciabile? In che modo si può incoraggiarne la fruizione? Secondo la sua esperienza, i lettori di poesia in Italia sono in aumento, e in quale fascia d’età?

 

·       Le è capitato di intervistare poeti e poete, magari durante un festival o nel corso di una premiazione? Ha un ricordo particolare, un episodio simpatico, un’emozione suscitata dall’ascolto dei loro versi da raccontare?

Purtroppo solo due volte: centinaia e centinaia di romanzieri, e due soli poeti. Ma che poeti! Mariangela Gualtieri, online, che mi chiedeva di guardarla negli occhi (alle volte, mentre ascolto l’autore, ho la testa – letteralmente – nel libro, perché scelgo riferimenti, citazioni per offrirli alla domanda successiva) e mi sono emozionata sentendola recitare i suoi versi, e Imre Oravecz che, prima di ogni altra cosa, m’è sembrato profondamente umano.

·       Personalmente, lei legge poesia? Preferisce testi classici o contemporanei, italiani o stranieri?

La leggo, sì, e ancora con quella felicità della neofita: di chi non ha esagerato, non sa i retroscena, non conosce i trucchi del mestiere e può permettersi il lusso di seguire l’inclinazione e il momento. E si vede anche dalla varietà e dal disordine di ciò che leggo. Amo Szymborska, Gualtieri, Saffo, Saba, Tasso, Dickinson, Achmatova, Donne, Shakespeare, Hikmet, Merini e di recente mi sono innamorata di Alicia Gallienne, morta a vent’anni nel 1990, “scoperta” due anni fa in Francia da Gallimard e portata in Italia qualche mese fa da Molesini con la traduzione di Francesco Zambon. Quando leggo i poeti sento che sono, in qualche modo, baciati da Dio. Come sarebbe possibile, altrimenti, scrivere così a diciassette anni?

Ogni eloquenza del tuo cuore / Ti condurrà a ciò che Dio creò di più bello. / Il tuo viso ramificato extra-lucido / Sotto il vento degli alberi /  È certo già la vita che ricomincia. // Il mare sulla sabbia, / Posato come una conchiglia / E il tuo viso ancora su carta da lucido / Dietro la bruma delle acque, / È certo già uno sguardo nella notte. // Ma sempre la vita che fugge / Ma sempre la stessa immagine. / Ogni eloquenza del tuo cuore / Ti farà annegare / Nelle nuvole profonde / Dove si dimenano i pazzi. // Ma sempre la stessa immagine / Ma sempre la vita che fugge. // Non dimenticare che il mio amore rimane / Sulla neve del passato, / Sul vento degli alberi, / Sulla bruma delle acque, / Nelle nubi profonde, / In tutto ciò che mi ricorda l’eloquenza del tuo volto dimenticato. // È certo già la vita che ricomincia.”  Alicia Gallienne, 6 dicembre 1987

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 14 dicembre 2023

 

 

 

 

INTERVISTE

BETTARINI

MARIELLA BETTARINI, POESIA E IMPEGNO

 

Mariella Bettarini (Firenze, 1942) è una poetessa, saggista, scrittrice e traduttrice italiana. Nel 1973 ha fondato il quadrimestrale di poesia autogestito e autofinanziato Salvo imprevisti, (sottotitolato Quadrimestrale di poesia e altro materiale di lotta), che ha spesso pubblicato numeri monografici dedicati a temi che collegano cultura, poesia e problemi sociali. Nel 1993 Salvo imprevisti ha continuato le pubblicazioni col nuovo nome L’area di Broca, semestrale di letteratura e conoscenza. Ha curato, sulla rivista Poesia (Crocetti) una rassegna dal titolo Donne e poesia, antologia di poesie di circa cento autrici italiane dal ’63 al ’99. Ha collaborato con svariate riviste, quotidiani e periodici. Dal 1984 ha curato, con Gabriella Maleti le Edizioni Gazebo.

 

INTERVISTE

BETTIN

Nato a Venezia nel 1955, Gianfranco Bettin è laureato in Scienze politiche. Ha insegnato e lavorato nel campo della ricerca e degli studi socioeconomici e politici. Giornalista pubblicista, narratore e saggista, ha pubblicato alcuni romanzi e diversi volumi di indagine storica e sociale. Attivista politico e ambientalista, è stato deputato al parlamento, consigliere regionale del Veneto, assessore e prosindaco di Venezia e presidente della Municipalità di Porto Marghera. Attualmente è consigliere comunale a Venezia.

Tra i suoi libri: Qualcosa che brucia, Garzanti 1989; L’erede. Pietro Maso, una storia dal vero, Feltrinelli 1992; Nemmeno il destino, Feltrinelli 1997, 2004; La strage: Piazza Fontana. Verità e memoria, Feltrinelli 1999; Il clima è fuori dai gangheri, Nottetempo 2004; Gorgo: in fondo alla paura, Feltrinelli 2009; Cracking, Mondadori, 2019; I tempi stanno cambiando. Clima, scienza, politica, E/O 2022; La tigre e i gelidi mostri. Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia, Feltrinelli 2023.

La domanda più scontata che si può fare a un sociologo, in un’intervista sulla poesia, è se tale forma letteraria mantiene una rilevanza non solo culturale, ma anche civile, nell’Italia contemporanea, come per esempio è stato nell’800. La poesia, oggi, serve ancora a qualcosa nella nostra società?

Serve a molto, forse non a molti, ma quelli che ne vengono raggiunti, e che la cercano, ne traggono forza, idee, e a volte arrivano – loro, così alimentati – a tanti altri.

 

A quale età ha iniziato a leggere versi, e privilegiando quali autori nell’arco della sua vita? Ci sono state voci poetiche, anche straniere, che hanno lasciato un’impronta sul suo impegno politico e ambientale?  

 

Ha incontrato personalmente qualche poeta, e traendone quali arricchimenti dal punto di vista umano?

Ho conosciuto diversi poeti. Un po’ meglio, Patrizia Cavalli e Andrea Zanzotto. Cavalli quando ero molto giovane, negli anni Settanta, nell’ambiente di Elsa Morante (che pure ho conosciuto bene, e che considererei anche poeta oltre che romanziera, grandissima, a cui devo molto sia della mia formazione culturale che umana). Alla capacità di condensazione del verso di Cavalli, alla gravitas che cela nella sua grazia e leggerezza apparente (ma anche sostanziale, spesso, mozartiana), ho guardato sempre, cercando di assimilarla, scrivendo spesso di cose pesanti e cupe io stesso. Né le poesie né altri testi “cambieranno il mondo”, ma qualcosa, qualcuno, qualche momento sì, invece, che li cambiano. Patrizia lo sapeva. Zanzotto l’ho incontro quand’ero già adulto, sui 35 anni, alla fine degli anni Ottanta, dunque, ma il rapporto con lui, proseguito fino alla sua morte nel 2011, è stato davvero fecondo, per me, ricco di idee e suggestioni, di discussioni e scambi, in particolare sul territorio di entrambi, il Veneto, nel confronto tra la sua Marca e le mie Venezia e Porto Marghera, mondi estremi e alieni l’un l’altro e tuttavia compresenti in uno spazio ridotto, per i quali Andrea aveva grande interesse.

Che giudizio dà della produzione poetica attuale nel nostro paese? Dopo l’ermetismo, l’impegno politico del dopoguerra, lo sperimentalismo degli anni ’60, il collegamento con le arti visive e musicali, non ritiene ci sia stato un ristringimento di prospettiva, sia in termini di una chiusura solipsistica nel privato, sia nell’abbandono della ricerca formale?

Non ne so abbastanza per azzardare un giudizio. A volte mi imbatto nella poesia contemporanea, a volte mi accorgo di cercarla, e di trovare non di rado versi o testi che mi confermano in quella lontana idea che ne ho sempre avuto e che risale alle prime letture: l’eccezionale capacità della parola poetica di dire, o suggerire o evocare, qualcosa che non si può dire in un altro modo e che esprime una verità, la precisione clinica e artistica per così dire, di ciò di cui parla e, al tempo stesso, di far risuonare in sé tutto quello che fino a quel momento si è letto altrove, in altri testi, in altre circostanze, mettendo tutto insieme in un significato specifico, in quel punto, quel puntino connesso a una vastità incommensurabile, di cui si è parte e in cui ci si perde, tuttavia trovando qualcosa di sé. Tutti i limiti che la domanda rimarca rimangono: solo, non so se riguardino la poesia attuale o siano e siano stati propri di tutta la poesia, sempre. Capita, però, che vengano superati, anche oggi. che una forza e una grazia e una vitalità poetica si producano, in certi casi.

Poesia come spettacolo, esibizione, performance, poetry slam, festival, letture… Eppure le vendite nelle librerie ristagnano, mentre si alza il livello di competizione tra poeti, che rimangono i soli a leggersi tra di loro. Cosa ne pensa?

Ancora una volta, non ne so molto, ma ho l’impressione che tutto ciò sia sempre accaduto (comprese, in Italia, le scarse vendite, purtroppo), che faccia da sempre parte degli “immediati dintorni” della poesia (e della letteratura, e dell’arte). Per il resto, che si moltiplichino occasioni pubbliche – spoken word e poetry slam compresi, di cui pioniere in Italia è stato un altro mio amico valente poeta, Lello Voce – va benissimo: che parole e versi girino, vagando nell’aria e nella testa di chi ascolta, di chi passa e va.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 20 ottobre 2023

 

INTERVISTE

BORDINI

CARLO BORDINI, SCRITTORE E POETA


Intervista allo scrittore Carlo Bordini

Tra le sue pubblicazioni:

Dal fondo, la poesia dei marginali (Savelli, 1978); Strategia (Savelli, 1981); Manuale di autodistruzione (Fazi, 1998); Polvere (Empirìa, 1999); Pezzi di ricambio (Empiria, 2003-2019); Pericolo, Poesie 1975-2001 (Manni, 2004); Gustavo, una malattia mentale (Avagliano, 2006); Sasso (Scheiwiller, 2008); I costruttori di vulcani (Luca Sossella, 2010); Memorie di un rivoluzionario timido (Luca Sossella, 2016); Difesa berlinese (Luca Sossella, 2018).

  • Da quale ambiente familiare e culturale provieni? Come e quanto gli studi, le amicizie e gli amori hanno influenzato la tua scrittura?

Una famiglia autoritaria ha fatto di me un ribelle. Questo spiega il lungo periodo (nove anni) di militanza politica. Ma sono un ribelle anche in letteratura. Non amo l’istituzione letteraria, non amo le regole, non amo le mode di scrittura, non faccio parte di nessun gruppo o tendenza. Sono un po’ anarchico, in campo letterario. Leggo quello che mi interessa e non leggo quello che, al primo incontro, non mi interessa. Non cerco di assomigliare a qualcuno e non imito. In America Latina alcune persone si definiscono così: “Laureato in filosofia della vita studiata nell’università della strada”. Io, letterariamente, mi sento un po’ così.

  • Nella tua vita, viene prima l’impegno politico o quello letterario e come le due passioni si confondono e si nutrono vicendevolmente?

Questa domanda mi obbliga a riflettere. Nel periodo della militanza politica non ho scritto nulla. Pensavo, come lo pensavano in molti, che era più utile un mediocre rivoluzionario che un buon scrittore. Quando ho ricominciato a scrivere, essere di sinistra è rimasto dentro di me, ma come un velo. Come una nebbia leggera. Come qualcosa che dava un colore delicato ad altre cose. Come una sorta di etica. Abbinata alla coscienza che l’idea di cambiare in meglio il mondo è un’utopia che si ripresenta puntualmente nella storia come una perenne illusione. Quasi una religione.

  • Quali sono i poeti, i narratori e i filosofi che più hanno nutrito la tua produzione? Cinema e musica hanno un rilievo importante nella tua quotidianità?

Amo molto Apollinaire. È il mio poeta preferito.

  • Che cosa rimpiangi di più dell’atmosfera culturale e politica in cui ti sei formato?

Il senso di libertà e di provvisorietà. Adesso essere provvisori è un lusso molto pericoloso. Un tempo era un lusso piacevole, possibile, e anche creativo ed appagante. Era possibile essere contro e fare esperimenti. Cioè: fare esperienze che erano anche esperimenti…

  • Qual è il tuo libro a cui sei più legato e cosa ti piacerebbe ancora scrivere e pubblicare in futuro?

Credo di aver scritto un unico libro, in tutta la mia vita, che poi si è diviso in varie occasioni editoriali. E credo che continuerò a fare la stessa cosa anche in futuro. Posso dire che l’unico libro che sono andato scrivendo fin dalla nascita è composto da una serie di domande, da una serie di interrogazioni su me stesso, e sul mondo che mi circonda. Credo che troverò sempre risposte parziali che mi lasceranno insoddisfatto e che continuerò a cercare. Ma le domande vengono da sole. Non bisogna forzarle. Se vogliamo invece passare al piano editoriale, i miei libri più importanti sono I costruttori di vulcani, che contiene tutte le mie poesie fino al 2010, e Difesa berlinese, che contiene quasi tutta la mia produzione in prosa. Entrambi i libri sono stati pubblicati da Luca Sossella.

  • Sei molto presente nei festival, nelle performance e nei raduni letterari. Credi che queste manifestazioni pubbliche aiutino la diffusione della poesia o viviamo in tempi irrimediabilmente prosaici e indifferenti?

Attenzione. Qualcosa sta cambiando. Nonostante il mondo sia governato da forze sempre più oppressive, esiste (anzi, sta crescendo) una forma di resistenza. Minoritaria ma in crescita. In Italia la cultura è stata privata di ogni appoggio economico e il populismo la considera qualcosa di negativo. Ma si sta moltiplicando tutta una serie di iniziative, anche se sono piccole e prive di mezzi. E una parte minoritaria ma consistente di giovani comincia ad esserne attratta. A Roma è impossibile star dietro a tutto, ci sono un sacco di cose in contemporanea, c’è una vita culturale intensa.

 

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Intervista-a-Carlo-Bordini.html       25 giugno 2019

 

 

 

 

INTERVISTE

BORGNA

EUGENIO BORGNA E LA POESIA

Eugenio Borgna (Borgomanero 1930), già libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano e Primario emerito dell’ospedale psichiatrico di Novara, è tra i principali esponenti della psichiatria fenomenologica, che sposta il suo oggetto di analisi dalla malattia al paziente. Sostenitore di una “psichiatria dell’interiorità” in grado di ricostruire la dimensione profonda e soggettiva del disagio psichico, indagata attraversando letteratura, filosofia e arte, ha compiuto studi approfonditi sulla depressione e la schizofrenia, come dimostrano numerosi saggi scientifici e pubblicazioni divulgative. Fra i titoli della sua ricca produzione vanno citati: Malinconia (1992); Le figure dell’ansia (1997); Noi siamo un colloquio (1999); L’arcipelago delle emozioni (2001); Le intermittenze del cuore (2003); L’attesa e la speranza (2005); La solitudine dell’anima (2011); La fragilità che è in noi (2014); L’agonia della psichiatria (2022); Sull’amicizia (2022); Mitezza (2023).

Professore, in tutti i suoi libri sulla psichiatria e la psicanalisi, pubblicati soprattutto da Einaudi e Feltrinelli, si è soffermato spesso sull’importanza della poesia come strumento di conoscenza e riflessione interiore. Quali altri meriti attribuisce alla scrittura in versi?

Il leitmotiv dei miei libri, di quelli divulgativi in particolare, che sono i più letti, è sempre stato animato dalla poesia come strumento di conoscenza e di riflessione interiore. Non saprei riassumere meglio le premesse tematiche di questi miei libri che sgorgano, o almeno vorrebbero sgorgare, dalla interiorità. Lo ha scritto Sant’Agostino nelle Confessioni: “in interiore homine habitat veritas”, e in questo cammino la poesia ha una importanza radicale.

 

Quando ha iniziato a leggere con continuità i poeti, e con quali differenti rifrazioni sentimentali, nelle diverse età della vita che ha attraversato?

Ho incominciato a leggere poesia nella mia prima adolescenza. Mio padre, che era avvocato, ritornando da Milano, portava in casa una infinità di libri di letteratura e di filosofia, non solo ovviamente italiani, ma anche francesi e tedeschi. La casa sommersa di libri, e così c’è sempre stata una continuità dalla adolescenza alla età avanzata. Così, ad esempio, ho continuato a leggere dall’adolescenza i versi di Giacomo Leopardi e quelle di Antonia Pozzi, e le Confessioni di Sant’Agostino. Sono state stelle del mattino che non si sono mai spente.

 

Nel valutare la resa poetica di una composizione, viene più colpito dalle immagini, dalla musicalità o dal messaggio trasmesso?

Nel rivivere e nel ricreare uno stato d’animo lirico sono stato abitualmente affascinato dalle immagini più ancora che non dal messaggio trasmesso, o dalla sua musicalità.

I poeti che cita maggiormente nei suoi testi sono Emily Dickinson, Rainer Maria Rilke, Antonia Pozzi. Quali altri nomi le sono particolarmente affini? Trova una differenza di intensità espressiva tra le voci femminili e maschili?

Alla voce poetica di Emily Dickinson, di Rainer Maria Rilke e di Antonia Pozzi si è sempre aggiunta quella suprema di Giacomo Leopardi, quella dei crepuscolari, di Sergio Corazzini e di Guido Gozzano, e non solo ma anche quella di Giovanni Pascoli e di Giuseppe Ungaretti. Ho sempre letto con passione le poesie di Nelly Sachs e di Georg Trakl, non molto conosciuto e conosciuta, quelle dei poeti romantici, come Clemens Brentano. Direi di non trovare differenze di intensità espressiva nelle voci poetiche femminili e maschili, sì, le une diverse dalle altre, ma non diverse nel fascino e nella magia, che si ridestano nel cuore.

 

Legge poesia contemporanea italiana? Che giudizio ne dà?

Non leggo, non ne ho avuta l’occasione, poesie italiane contemporanee,

Recentemente, in un’intervista sul Corriere della Sera, ha postulato una contiguità tra poesia e follia. Nel senso di un’intrinseca originalità della voce poetica, di una sua estraneità alla concretezza dell’esistenza, o di una particolare e quasi temibile fragilità emotiva e psichica?

Le sue domande sul tema della contiguità fra poesia e follia sono originali e profonde, e quello che avvicina l’una all’altra, è la particolare e quasi temibile fragilità emotiva e psichica.

 

È mai stato tentato dal desiderio di cimentarsi in prima persona con la scrittura in versi? Pensa che il suo stile sarebbe più vicino al crepuscolarismo, all’ermetismo, al surrealismo o al quotidiano prosastico in voga oggi?

Non ho mai avuto il desiderio di dare voce ad una poesia personale, che sarebbe stata, direi, quella crepuscolare. Non ne avrei avute in ogni caso le attitudini.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 21 settembre 2023

 

INTERVISTE

BORSO

DARIO BORSO, FILOSOFO E TRADUTTORE

Nato a Cartigliano l’8/12/1949, si è laureato in storia della filosofia alla Statale di Milano con una tesi su Hegel, uscita poi da Feltrinelli. Dopo anni di precariato (correttore di bozze e giornalista a L’Unità, insegnante 150 ore, bibliotecario a Crema, coordinatore delle attività seminariali per Fondazione Feltrinelli), nel 1981 diviene ricercatore confermato e si conferma tale sino a fine carriera (senza partecipare più a un concorso ma tenendo per anni una cattedra di estetica a contratto al Politecnico). Appassionato di traduzione, si prova inizialmente con Hegel, Bloch e Diderot, finché l’interesse per Kierkegaard lo assorbe negli anni 90 come curatore di numerose sue opere.

Il suo basso continuo è rimasto comunque la filosofia tedesca, con slittamenti progressivi verso la letteratura. Microeditore all’alba del millennio (edizioni de Il Ragazzo Innocuo poi Ubiquo), nel 2007 fonda il Premio Baghetta, alla sesta edizione, cui partecipano importanti poeti contemporanei e un folto pubblico. Impegnato da sempre a decifrare la modernità, interviene sulla carta stampata e online, spaziando in vari ambiti culturali e di costume.

Partendo dall’ambiente veneto di nascita, passando poi agli studi universitari fino al lavoro di docente: quali eredità affettive e culturali le ha lasciato questo percorso?
In paese (2.700 anime) parlavano italiano il maestro, il parroco e il sindaco, e tutti solo in ambito istituzionale. Iniziai l’apprendimento dell’idioma a sette anni, in ritardo rispetto ai compagni per via di una tbc che m’inchiodò per un biennio a letto, dov’ebbi modo di affinare certe doti, prima fra tutte la capacità d’ascolto: dalla camera sentivo le voci dei clienti giù in bottega (padre fruttivendolo e madre ex-ostessa, lui frequentava il mercato notturno a Bassano, lei serviva di giorno, io vegliavo da solo salvo rare irruzioni genitoriali compatibili col commercio). Altre voci, di cui ero meno curioso che nostalgico, venivano dalla corte comune, dove amichetti chiassosi giocavano. Da lì, penso, la passione per le varie lingue (italiano dalle elementari, più latino e francese dalle medie, più greco al liceo) e per le varie inflessioni individuali entro la stessa lingua. Passione, mentre l’amore andava e va al mio veneto, l’unica lingua che considero viva sebben morente, mentre le altre considero morte ma riportabili in vita traducendole – amore che ha cementato per oltre mezzo secolo l’amicizia infrangibile con pochi eletti pressoché coetanei, una specie di academiuta a sede mobile (= osterie).
Quanto all’odio (seconda superpassione secondo Spinoza), andò così. Giusto mentre mi ammalavo, mio padre ebbe a subire un inatteso linciaggio democristo, lui ch’era il giusto del villaggio. Risultato: cadde in depressione e ammutolì letteralmente. Il clima in famiglia (allargata: genitori, fratelli, zii, nonna e amica sua di filanda) divenne in breve irrespirabile. Catastrofica fu per me la scoperta in granaio di rotoli cartonati su cui a pennello nero s’inveiva (Andrea B. della Mano Nera mi occupò ermeneuticamente in modo particolare, specie la notte) e di cui era vietato parlare.
Salto di decenni: in comune ho preteso (impiegati leghisti allibiti) di esaminare le scartoffie locali, con due risultati definitivi: mio padre fu partigiano, il linciaggio concordato tra sindaco e parroco totalmente vile (a secondaria conferma, don Casto agonizzante invocò perdono).
Divenni comunista a diciassette anni e formammo una cellula, poi sez. Pablo Neruda. Lo dico per giustificare la mia vena polemica, che straborda in tutti i campi, culturale compreso. (Diversamente da Democrito, con mezza faccia rido e con l’altra mezza ringhio). Essa si sviluppò investendo pure i miei che, schiantati da quella tragedia, tremavano all’idea che mi schiantassi anch’io. Risultato: lasciai in malo modo la famiglia e m’iscrissi a Filosofia a Milano. E la pagai: rinchiuso alla Casa dello Studente di Viale Romagna, ogni fine-settimana in treno piangevo (come Democrito stavolta), all’andata per il dissidio in famiglia, al ritorno perché lasciavo gli amici.
Su questo versante, il libro fondamentale fu Lettera a una professoressa, divorato nell’estate 1967: in autunno uscimmo al liceo di Bassano con il numero unico FOGLI, nel cui editoriale Quelli (mia prima pubblicazione!) attaccavo i signorini della A: quelli che vanno a sciare, quelli che parlano italiano, quelli coi pantaloni a mezza gamba ecc. Noi della B eravamo allocati in cortile (una baracca su cui spruzzammo presto Che Guevara); entravamo dal portone delle bici e calcavamo i marmi secenteschi del Brocchi solo quando convocati dal preside. Stranamente uscii con la media più alta di tutti i tempi senza mai studiare, eccetto il trimestre prima degli esami. Stavo attento a scuola, il resto era osteria o campo sportivo; passavo sempre i compiti a tutti (alla maturità pure a quelli della A, essendo segretamente invaghito dell’angelica Luisella); tenevo un controregistro delle interrogazioni a scopo statistico, i compagni entrando in aula chiedevano: “Quando m’interrogano?”; se finita l’ora uno/a si avvicinava al prof per chiedere qualcosa, veniva isolato in quanto leccaculo/a. Prof tutti e sempre supplenti (cinque di filosofia in tre anni di liceo), nessuno stimolo se non la sferza di due zitelle, in matematica e latino-greco. Iniziai a leggere per conto mio a diciassette anni, prima credo di non aver letto un romanzo, neanche metà. Poi a valanga.
Consigliere comunale PCI nei primi anni 70 con mio cugino Roberto (sedici democristi e due lacché socialdemocratici), femmo saltare la giunta a furor di populo (non chiedetemi come: dico solo che il sindaco dimissionario in lacrime esordì in consiglio davanti a un pubblico straripante con la mitica frase: “Siamo in un veicolo [sic] cieco…”).

Dalla razionalità hegeliana alla spiritualità di Kierkegaard, dal cripticismo di Paul Celan al funambolismo di Arno Schmidt: come riesce a conciliare queste diverse esperienze intellettuali?
La mia risposta consegue da quanto detto: sentivo le voci → traduco le voci, le più disparate in una specie di grand guignol o di barufa ciosota, dove la regia è affidata a monna ironia (grande lezione di Kierkegaard, imitatore massimo di voci dal prete al gagà, nonché polemista di natura).

Quali lingue conosce, e da quale di esse sente di trarre maggiore arricchimento?
Conoscere è un termine vago, va dal biblico al renziano (v. i suoi speeches). Restringendo alle lingue da cui ho tradotto: il veneto, nel quale ragiono mentalmente tuttora; il francese (Diderot); il tedesco (parecchio), imparato in più estati institut-goethiane via borsa-di-studio e un anno all’università di Bonn grazie al consiglio di Mario Dal Pra, che mi ha insegnato il mestiere e l’onestà filologica (ho tentato di sdebitarmi in mortem curandone il manoscritto inedito 1947 Storia della guerra partigiana in Italia, immolato il 19 aprile 1948 da Raffaele Cadorna sull’altare della madonna piangente dopo che Dal Pra, già responsabile dell’ufficio stampa & propaganda del CLNAI per il Pd’A, aveva creato materialmente dal nulla l’Istituto della Resistenza); il danese, in mesi e mesi al S.K. Forskningscenteret; l’inglese da sempre, come lingua del mondo (Sasha Dugdale); il russo (Šestov e Blok) per ultimo.
Due mie costanti di metodo: porre l’asticella più in alto possibile (come difficoltà oggettiva e interesse soggettivo); sostanziare l’esercizio di rapporti umani, nell’ordine: francese in anni di convivenza con Nadine Celotti (ora ordinaria di traduzione dal francese a Trieste); tedesco in un rapporto imperituro col mio primo amore Vivetta Vivarelli (ora germanista all’Università di Firenze); danese in un abbaino di via Bramante con Michelle Mafille che di francese ha solo il nome; russo grazie all’arguzia stacanovista della slavista Valentina Parisi; inglese via Beatles.

Oltre alla filosofia, alla letteratura, all’architettura, nutre qualche interesse anche per il cinema, la fotografia e la pittura? Occorrono troppe vite per farne una, scriveva Montale…
Anche qui, interesse per tutto e niente. Di concreto – cinema: la collaborazione con mia moglie Giulia Ciniselli in diversi mediometraggi su Via Padova (l’ultimo, Prossima fermata via Padova sui migranti del ’900, terroni e polentoni); architettura: il saggio Disegnology che sta per uscire in SAFT (cofanetto con nove fanzine di ex-laureandi del Poli che mi hanno ripescato dopo vent’anni, grati di esperienze scolastiche esaltanti); fotografia: zero assoluto da quando nel 1973 fui derubato della mia Olympus OM-1, rullini e tutto il resto da due negroni strafatti che mi tirarono su a St. Louis dopo quasi tre mesi di autostop (fortunatamente mio figlio Dogui ha preso la staffetta, mentre io curo ogni tanto foto altrui, v. Ugo Mulas, Danimarca 1961, uscito mesi fa dalla Humboldt).

Che giudizio dà del panorama poetico attuale in Italia, così ricco di esperienze e iniziative editoriali (festival, blog, premi…)? Ritiene che tutto ciò sia utile o produca in realtà confusione e qualche dilettantismo?
Seguo quanto circola in rete, dove anche vale la massima di De André: “Dal letame nascono i fior”. A me interessano entrambi: i fior va da sé, il letame in quanto sintomo ulteriore del carattere degli italiani: furbi come servi, leccaculi come pochi (v. parecchi sedicenti litblog).

Nei riguardi del nuovo corso politico cui sembra avviarsi il nostro Paese, è più o meno ottimista?
Anch’esso seguo con interesse, soprattutto linguistico. Ad es., il fatto che Di Maio negli ultimi mesi non abbia sbagliato un congiuntivo, mi fa essere moderatamente ottimista.

A cosa sta lavorando attualmente, e quale progetto sogna di portare a termine in futuro?
Ho sempre fatto quel che volevo, conscio delle conseguenze. In questo senso a non piacermi del mio lavoro è il dopolavoro, ossia piazzarne i frutti sul mercato (nemesi familiare?). Ci ho fatto il callo, limando entusiasmi e frustrazioni con un moderato pessimismo. La cosa che più mi secca è che, essendo io disordinato, tendo a perdere o dimenticare file di lavori che nessuno ha voluto, ad es.: l’edizione critica di un racconto di Parise; il diario di un artigliere semianalfabeta della Prima guerra; i racconti di un Brera giovanissimo che nemmeno gli eredi conoscono; la curatela di un romanzetto ironico di Jean Paul sul coraggio ecc. A me sembrano fior, ma evidentemente per gli editori son letame (“per” pleonastico?).
Ora sto vivendo en souplesse l’ennesima odissea riguardo a un testo che come le mie traduzioni è mio e non è mio, ma in un altro senso: è mio, ma del 1974. Ripescato in condizioni rocambolesche grazie al compagno anarchico di viaggio Pietro Spica che, tornato dagli USA ad abitare in via Padova come me, ha ritrovato le sue foto di allora innestando una reazioncina a catenina, è piaciuto a Valerio Magrelli che lo ha prefato e a Chandra Candiani che lo ha quartacopertinato. Nel giro di un mese ha collezionato tre rifiuti; si chiama Piccolo diario indiano e contiene foto di Spica, che lì mi liberò dei lacci catto-comunisti residui favorendo un situazionismo mentale già covato di mio. Come accennato infatti, sentivo le voci, e ora sto editando per Museo del Novecento, Fondazione Empatia e Coop Lotta contro l’Emarginazione un libro di racconti scritti da persone con disagio psichico (una sente le voci, per l’esattezza dieci, e ciò me lo fa ancor più fratello).
P.S.: Per la prima volta in vita sto traducendo sotto contratto – si fa per dire, ché l’autrice l’avevo scoperta da me e tradotta su L’Internazionale. Così mi sento un po’ più protetto, grazie anche a una clausola in auge in Germania, secondo cui il traduttore scelto dalla casa editrice d’arrivo deve passare il vaglio dell’autore. Bene, lei ha scritto: “Es geht, db ist legendär”.

«Il Pickwick», 24 aprile 2018