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INTERVISTE

LAMBERTI

Intervista al poeta Angelo Lamberti

 

ANGELO LAMBERTI, POETA E DRAMMATURGO 

  • Ci può parlare brevemente della sua infanzia, degli studi che ha fatto e di come è arrivato a occuparsi di letteratura?

Sono nato nel 1942, da sfollato, nel cimitero di Castel d’Ario. Al ritorno di mio padre dalla guerra, sono venute al mondo altre tre sorelline. Sono vissuto per sedici anni, con la mia famiglia, in due stanze di quel cimitero, che all’epoca era del tutto privo dei servizi idrico-sanitari. Ho conseguito il diploma di 3° avviamento (con indirizzo agrario). Sono un autodidatta. La letteratura era il mezzo più nobile per dare corpo all’immaginazione e sconfiggere la realtà.

  • Di cosa si è occupato, materialmente, per mantenere se stesso e la sua famiglia?

Mio padre era un barbiere, ma non aveva i mezzi per acquistare una bottega sua: per dignità e per principio, non ha mai richiesto la tessera di un partito. Oltre a tagliare barbe e capelli a domicilio, si ingegnava a svolgere disparati lavori occasionali: cameriere, stradino, manovale, ecc… Da parte mia, già all’età di dodici anni ho cominciato a dare il mio contributo per la sopravvivenza della famiglia, come “uomo” di fatica presso una fabbrica di zoccoli di legno (con un impegno lavorativo di 10-12 ore al giorno). All’età di trent’anni ho avviato un’attività in proprio, portando la mia ditta ad essere una delle più qualificate in campo europeo.

  • Qual è il rapporto con l’ambiente fisico e culturale in cui vive?

Vivo (anonimamente, da emarginato) a Porto Mantovano, paese di circa quindicimila abitanti. Pochissimi mi conoscono, e quasi nessuno sa del mio amore per la letteratura. E posso affermare, senza timore di smentita, che negli scaffali della biblioteca comunale non c’è neppure l’ombra di un mio libro.

  • Citi i nomi dei poeti e degli scrittori che hanno più influenzato la sua produzione…

Franz Kafka, Umberto Bellintani, Carlo Collodi, Eugenio Montale, Gesualdo Bufalino, Giorgio Caproni, Giampiero Neri, William Shakespeare, Edgard Allan Poe, Bertolt Brecht, Albert Camus, Samuel Beckett, Luis Borges, Harold Pinter, Boris Vian…

  • Quale incisività sociale e politica ritiene possa avere ancora la letteratura?

In questa vita terrena, la letteratura ha per l’uomo la stessa importanza che ha il pane. Esempio: quando l’innamorato, semianalfabeta, scrive all’amorosa dicendole: «Te voio ben…», tra lui e Petrarca, a livello di batticuore poetico e sentimentale, non c’è nessuna differenza. Colgo l’occasione per dire che la forma di scrittura più difficile è quella teatrale. Mentre la scrittura che può favorire la crescita del conto in banca (il thrilling, il noir), io non l’ho mai esercitata.

  • Quanti volumi ha pubblicato, quanti testi teatrali ha portato sulle scene e a quali di essi tiene maggiormente?

Ho cominciato tardi a pubblicare poesia, cedendo alle insistenze di Umberto Bellintani: la mia intenzione era di tenere gli scritti chiusi nel buio e nel silenzio di un cassetto. Ho pubblicato otto volumi di versi, l’ultimo, recentemente, ha come titolo Il signor Franz K.

In teatro sono state rappresentate nove mie commedie: Risciò (con Roberto Herlitzka, al teatro Sangenesio di Roma); Descrizione di una rivolta (regia di Ruggero Jacobbi); Sonnambulismo; Sicario a domicilio; Rottami; Il risveglio... (Teatro Out-Off di Milano); Boxando-boxando (Teatro Arsenale di Milano); La strategia dello scorpione (con Cosimo Cinieri e Angiola Baggi); Un gorgo di terra (Teatro Al Valle di Roma). Non ho preferenze: ogni verso, ogni poesia, ogni battuta, ogni dramma, ogni commedia sono per me un figlio al quale ho dato vita con la parola scritta.

  • Concluda questa breve intervista con un suo verso, a cui delega un particolare messaggio da comunicare a chi legge

Un sentimento simile alla felicità / mi ha trascinato al largo, / disperso in un silenzio di dune. / Col pane rimasto intatto nelle tasche…

 

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4 ottobre 2015

INTERVISTE

LANARO

Leggere di poesia: Paolo Lanaro racconta la sua esperienza di scrittore
PAOLO LANARO,
POETA E NARRATORE

 

Paolo Lanaro, nato a Schio nel 1948, vive a Vicenza. Ha insegnato filosofia nei licei e ha pubblicato sei raccolte di versi: “L’anno del secco” (1981); “Il lavoro della malinconia” (1989); “Luce del pomeriggio e altre poesie” (1997); “Giorni abitati” (2002); “Diario con la lampada accesa” (2005). La sua penultima raccolta, “Poesie dalla scala C” (L’Obliquo, 2011) è stata finalista al Premio Viareggio, al Premio Diego Valeri e ha vinto il premio Contini Bonacossi 2012.
Lanaro ha curato l’antologia “Forme del mistico” (1988) e nel 2007 ha dato alle stampe “In tondo e in corsivo”, un’antologia di saggi e interventi critici su scrittori veneti del ‘900. Da poco è uscito il suo libro di poesia “Rubrica degli inverni” presso l’editore Marcos y Marcos.

 

  • Da quale realtà ambientale proviene, e in che modo tale realtà ha influenzato le sue scelte culturali? Che influenza ha avuto nella sua formazione la tradizione letteraria veneta, e in particolare quella vicentina?

Sono nato a Schio, ho trascorso l’infanzia e la prima adolescenza a Malo (il paese di Meneghello), poi mi sono trasferito a Vicenza dove risiedo tuttora. Ho avuto un lungo rapporto di amicizia con Fernando Bandini e credo che nelle cose che scrivo ci sia qualche traccia della sua poesia, anche se, a dire il vero, chi mi ha dato il coraggio e qualche motivo fondato per scrivere poesie è stato Roberto Roversi, che conobbi nel lontano 1977. Non so quanto abbiano pesato gli autori vicentini nella mia formazione, essenzialmente Piovene, Parise e Meneghello, forse poco, forse di più di quanto io non creda. Ma non bisogna dimenticare o tacere il fatto che le letture che facciamo sono le più diverse. Nel mio caso non conta poco l’interesse e l’ammirazione che ho sempre avuto per la poesia anglosassone.

  • Attraverso quali percorsi di studio e di lettura si è avvicinato alla poesia, e quali sono i poeti classici e contemporanei a cui ritiene di essere più debitore?

Ho già parzialmente risposto, ma sarò più preciso. Intanto Orazio e un po’ il Virgilio delle “Georgiche” e delle “Bucoliche”. Poi lo Shakespeare dei “Sonetti”, Leopardi e Foscolo. E poi Montale, Sereni, Caproni, Roversi, Zanzotto. Tra gli stranieri Eliot, Auden, Larkin, Lowell, Milosz, Enzensberger.

  • Quali sono le sue pubblicazioni più recenti? Verso quale direzione si sta dirigendo la sua ricerca creativa?

Ho pubblicato nel 2014 un breve romanzo di formazione, “Una tazza di polvere”, e nel 2015 una serie di racconti-saggio sugli scrittori vicentini del ’900, “La città delle parole”. Da qualche giorno è in libreria la mia ultima raccolta di poesie “Rubrica degli inverni”, edita da Marcos y Marcos. Sto lavorando da qualche tempo a un memoir che riguarda i miei ultimi anni di servizio come insegnante.

  • Che opinione nutre della produzione poetica contemporanea nel nostro Paese? Quali sono i nomi che considera più rilevanti, e in che modo pensa si possa aiutare maggiormente a diffondere l’interesse per la poesia?

Non la conosco dettagliatamente, ma mi vengono in mente subito i nomi di Magrelli, di Pusterla, di Scarabicchi, di Cucchi, di De Angelis, di Anedda. Riuscire a moltiplicare l’interesse, oggi scarsissimo, per la poesia, non saprei proprio come si fa. Forse aveva ragione Brodskij che proponeva di andarla a vendere porta a porta, come gli aspirapolveri o le spazzole.

  • Nello scrivere versi, ritiene incidano di più le esperienze esistenziali, con i loro contraccolpi emotivi, o invece la riflessione teorica, l’ideologia, il lavoro sui testi?

No, niente ideologia. A sostenere l’importanza di questo fattore era Edoardo Sanguineti che, poi, nell’esecuzione, lo tradiva regolarmente. La poesia ha fondamentalmente, credo, dei generatori psichici e può nascere perfino dal malumore, dalla paura, dall’incoscienza. Poi c’è la costruzione, l’intervento razionale. Altrimenti non si va più in là del grido, del singhiozzo, della risata. Insomma «il dittar dentro e l’andar significando».

 

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13 luglio 2016

 

INTERVISTE

LE PLURALI

INTERVISTA ALLE REDATTRICI DELLA CASA EDITRICE LE PLURALI

Come e quando sono nate “Le Plurali”, con quali finalità e prospettive?  Perché avete deciso di chiamarvi così?

Il progetto de Le plurali è nato ufficialmente a Marzo 2021 ma noi quattro ci conoscevamo già da un anno e mezzo, perché scrivevamo su uno stesso blog. Entusiaste di intraprendere un percorso nostro ci siamo guardate negli occhi di uno schermo (anche prima della pandemia eravamo infatti abituate al digitale vivendo sparse nel continente) e abbiamo pensato… perché non fondare una casa editrice nostra, femminista e indipendente? L’obiettivo era ed è grande: vogliamo pubblicare libri di autrici che alimentino il dibattito femminista, con un’ottica inclusiva e intersezionale. Vogliamo che sia un progetto che diventi sempre più grande e per fare ciò abbiamo deciso di investire le nostre competenze per tre anni durante i quali ci bilanceremo tra primi, secondi e terzi lavori. Vogliamo cercare di rendere la nostra passione un vero e proprio lavoro di cui vivere, anche in un momento in cui si parla molto di crisi del settore editoriale. Eravamo convinte del nostro progetto e ci siamo prese tempo per crearlo dalla a alla zeta, studiando, informandoci e capendo come riuscire a distinguerci per qualità del contenuto e bellezza dell’oggetto. Perché ci chiamiamo plurali? Beh, perché l’unicità di ogni storia risalta ancora di più nella pluralità delle voci delle altre donne che stanno attorno ad ognuna di noi. Ci riconosciamo del tutto nel motto “uniche ma plurali” e abbiamo anche un simbolo che vedete stampato nelle copertine dei libri: la macchia. La macchia è qualcosa che nasce magari per caso, ma che si fa notare, è quel tanto di inchiostro che dilaga sulla pagina e basta a generare parole nuove; la macchia coinvolge altre macchie per creare storie e sconvolgere i fogli su cui si è posata.

Quante persone lavorano nella vostra casa editrice, con quali compiti e ruoli, e dopo aver seguito quale percorso formativo?

Attualmente siamo in quattro: Beatrice (traduttrice ed editor letteratura straniera), Clara (editor sezione italiana, ricezione manoscritti), Hanna (grafica e impaginazione) e Valentina (ufficio stampa e comunicazione). Abbiamo compiti e ruoli diversi ma condividiamo ogni decisione, e ognuna sta infatti imparando poco per volta a sostituire l’altra quando c’è bisogno. Prima di essere colleghe siamo amiche, e questo è un elemento di coesione che ci rende il lavoro più piacevole, facile e veloce da affrontare: ci sentiamo unite e sappiamo che ognuna vuole il bene dell’altra e del progetto. E pensa te che c’è chi ancora è convinto che le donne non riescano a lavorare insieme… pazzesco! Abbiamo un background umanistico, grafico e linguistico: Bea è traduttrice professionista, Clara una ricercatrice di letteratura femminile rinascimentale, Hanna una super grafica con tanti anni di esperienza nel settore e Valentina è esperta di marketing e cinematografia. Le nostre competenze si intrecciano e hanno dato forma alle collane della nostra casa editrice: le sagge (saggistica italiana e straniera), le bussole (agili guide femministe su temi specifici), le cantastorie (narrativa contemporanea italiana e straniera) e le radici (libri di grandi autrici del passato non più ristampati o ancora inediti in Italia). La formazione è fondamentale e ognuna segue dei corsi specifici per ampliare le proprie conoscenze e metterle al servizio della casa editrice: dal digital marketing, all’organizzazione di un magazzino, all’editing.

Quanti titoli pubblicate ogni anno, quali volumi hanno avuto più successo di vendita e di critica, quali saranno le vostre prossime uscite? Credete che l’e-book possa rappresentare un’alternativa vincente rispetto al libro cartaceo?

Per ora abbiamo due titoli usciti, Girls will be girls e Lady Cinema per le collane delle Sagge e Bussole rispettivamente. Quest’anno usciranno altri due libri: Muoviamo le montagne, per la collana Radici, e Come volano le api di un’autrice emergente, per Cantastorie, e che speriamo faccia tanta strada! Girls will be girls ha avuto un bel successo, è stata tra le letture consigliate da Internazionale, menzionata ne la Repubblica e siamo già alla seconda ristampa… probabilmente dovremo procedere alla terza in poco tempo! Lady Cinema, con prefazione di Marina Pierri, pure è piaciuta moltissimo e abbiamo organizzato varie presentazioni del libro: a settembre saremo a Firenze e poi a Roma per Feminism 4, la fiera dell’editoria delle donne, e ci stiamo organizzando anche per un incontro a Milano durante Bookcity, insieme a Marina Pierri. Muoviamo le montagne promette molto bene, ci sono già molti preordini e lo porteremo al festival di Firenze Eredità delle donne del prossimo 22 ottobre. Per il 2022 abbiamo in mano tre bei romanzi inediti di autrici emergenti e non, una guida al sesso femminista, un libro che ci porterà nel mondo di una ragazza diversamente abile, canadese, e per la collana delle Radici vorremo proporre una maestra dell’horror italiana purtroppo dimenticata dalla critica. Vorremmo pubblicare almeno 8 libri il prossimo anno e abbiamo tanta carne al fuoco! Tutti i nostri libri escono sia in formato cartaceo sia in formato ebook: vogliamo andare incontro alle esigenze e le preferenze di tutt* per poter agevolare la circolazione delle idee che proponiamo. Non pensiamo che l’ebook sia un’alternativa “vincente” ma solamente un’alternativa pratica e necessaria per chi, per vari motivi, non vuole comprare cartaceo e si trova meglio ad avere le sue letture in un comodo dispositivo digitale per il quale abbiamo anche creato le portali: dei porta dispositivi in stoffa riciclata unici e plurali!

Che importanza ritenete abbiano i festival letterari, le letture pubbliche, gli incontri con gli autori nell’incoraggiare la sensibilità femminista, nel far crescere una coscienza civile responsabile e democratica, nel favorire l’interesse per l’“oggetto libro”?

I festival, gli incontri e le letture pubbliche sono fondamentali: cerchiamo di bilanciare la presenza online, pressoché costante, e incontri in presenza con le autrici e le prefatrici dei libri che pubblichiamo. Valentina, ad esempio, avrà un bel po’ di impegni nel presentare Lady Cinema e già si parla di incontri mensili e di un cineforum nel quale la nostra Vale metterà in pratica ciò che propone nella sua bussola sul cinema femminista. Metterci la faccia, discutere, fare gruppo ci unisce e alimenta la pluralità che ricerchiamo per un femminismo inclusivo, pluricromatico, con le ovaie o senza! Portare fisicamente l’attenzione al libro, anche come oggetto, che curiamo nei minimi dettagli, punta l’accento sulla bellezza della carta stampata, qualcosa che rimane per sempre e non si perde nell’onda informatica.

Come pensate di poter raggiungere un pubblico più vasto, in futuro, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione?

Con la scelta di contenuti intelligenti, accattivanti e con libri che, oltre ad una bella copertina, portino anche dei temi sostanziosi, impegnativi ma in modo ironico e leggero. Nel mare magnum vogliamo distinguerci stimolando la curiosità, proponendo autrici talentuose e anche testi e saggi accademici. Tutto ciò ci riporta all’importanza di ascoltare chi ha qualcosa da dire, anche se diverso dal nostro modo di pensare.

 

(Per la redazione ha risposto Clara Stella)   info@lepluralieditrice.net

«Gli Stati Generali», 10 settembre 2021

INTERVISTE

LEARDINI

Promuovere la poesia nel 2015: intervista a Isabella Leardini

ISABELLA LEARDINI, POETESSA E OPERATRICE CULTURALE

Isabella Leardini, nata a Rimini nel 1978, ha vinto nel 2002 per la sezione inediti il Premio Montale. Inclusa in diverse e importanti antologie, ha pubblicato nel 2004 «La coinquilina scalza» per le edizioni «La Vita Felice» di Milano. Ha creato il Festival Parco Poesia, di cui è tuttora direttore artistico, con il lodevole intento di promuovere la diffusione della poesia tra i giovani.

  • Qual è stata la tua formazione culturale e secondo quali modalità ti sei avvicinata alla poesia?

Dopo il classico ho studiato lettere all’Università di Bologna. Alla fine degli anni ’90 molti tra i migliori professori dell’ateneo dedicavano proprio alla poesia del ‘900 il loro corso. La mia scelta è stata frequentarli tutti, mi interessavano la critica e la storia della poesia del ‘900 italiano: Alberto Bertoni e Roberto Galaverni in questo sono stati punti di rifermento per me. Nello stesso tempo frequentavo tutte le iniziative e i laboratori del Centro di Poesia Contemporanea, avevo la possibilità di incontrare molti poeti italiani e internazionali. La poesia però era arrivata molto prima, si può dire che sia stata la prima cosa che sono riuscita a leggere e a scrivere.

  • Quali sono i tuoi riferimenti letterari e i percorsi di scrittura che più ti hanno influenzato? Quali tra i poeti italiani, più e meno giovani, senti più vicino alla tua sensibilità?

In fatto di letteratura come nella vita sono una di pochi ossessivi amori. Nella mia strana mania poetica infantile c’era Pascoli, nell’adolescenza Pavese. Sereni è stato l’ autore più amato, e nella scrittura del mio primo libro è entrato in cortocircuito con la Achmatova e con Milo De Angelis, che ne è stato l’interlocutore principale. Edna St. Vincent Millay, Elizabeth Barrett Browning, Cristina Campo, Emily Dickinson sono state determinanti per il mio secondo libro, Marianne Moore e anche Antonio Riccardi per quello appena iniziato che sto scrivendo. Tra i coetanei ho notato che trovo molta più affinità con poeti che lavorano anche con la narrativa.

  • Puoi raccontare brevemente la tua esperienza di organizzatrice di eventi poetici? In quali difficoltà ti sei imbattuta e quante soddisfazioni hai avuto nella progettazione di Parco poesia?

Ho iniziato ad organizzare a 23 anni con un ideale: portare i maestri e i coetanei che avevo incontrato in un festival che fosse anche un po’ una festa, ma che diventasse un servizio per i giovani che come me scrivevano, un luogo in cui iniziare un percorso serio e sfuggire dall’editoria a pagamento. Credevo di fare qualcosa di innocuo, una specie di gita scolastica, invece ho scoperto presto la vasta gamma delle meschinità letterarie. Le conosco quasi tutte, le so interpretare, dimenticare e ricordare al momento giusto. A me però piace perfino l’aspetto marziale del mondo della poesia, sono un po’ artemidea in questo; e mi appassiona la sociologia della letteratura.
Ballare come una salamandra nel fuoco – mi sono sempre vista un po’ così, perché la mia scrittura per me è in un altrove intoccabile, poesia e organizzazione sono due polarità separate.
Se mi chiedi perciò quali sono le difficoltà te ne dico due: la prima è quando ti accorgi che per te non è una festa ma un lavoro e che anche gli amici si dimenticano di dirti dove vanno a bere, mentre tu sistemi ancora le cose. La seconda è quando non avere i fondi ti toglie la libertà di fare una cosa bella in cui credi e ti costringe a fare una qualcosa che non ti convince: questa è la cosa più dolorosa.
Oggi dopo 13 anni ho realizzato il sogno iniziale; le soddisfazioni sono poche ma profonde: il realizzare un luogo che per i ragazzi ha qualcosa di magico e che getta dei semi, fa nascere cose durature. L’amicizia con cui i poeti che stimo di più si sono messi in gioco accanto a me. E poi anche la consapevolezza di aver creato qualcosa che in qualche modo ha influito sulla poesia contemporanea.

  • Perché ritieni che in Italia si legga poco la poesia e come rimediare a questa mancanza?

Perché i poeti credono che il problema non siano i pochi lettori ma i troppi poeti: considerano fastidiosi dilettanti quelli che invece sono i loro potenziali lettori. Tre milioni di potenziali lettori salverebbero il mercato editoriale della poesia se iniziassero a leggerla. Credo che il rimedio sia nel trasformare in lettori di poesia contemporanea coloro che si dilettano a scrivere anche nel modo più amatoriale. Lo si può fare solo incontrandoli, mostrando loro che la poesia contemporanea ha a che fare con quello che scrivono e che leggendola potrebbero perfino scrivere meglio. E farlo con le nuove generazioni è un’esperienza bellissima.

  • Ci parli delle tue pubblicazioni e di quello che hai in cantiere, magari concludendo con qualche tuo verso che ti sta particolarmente a cuore?

Il mio primo libro è uscito nel 2004 per la collana Niebo, che in quegli anni Milo De Angelis curava per La Vita Felice. Racconta la giovinezza attraverso un amore non rivelato che ha le sue radici nell’adolescenza. Cercavo di raccontare l’amore non corrisposto come atto conoscitivo nella quotidianità, e volevo farlo con un libro che non temesse il più lirico dei temi, in cui ogni singolo testo fosse autonomo, ma con una struttura narrativa dell’insieme. La coinquilina scalza è stato un libro fortunatissimo, si è creato quasi subito un pubblico anche al di fuori del circuito di chi legge poesia. Era già alla seconda edizione quando nel 2007 una poesia è stata pubblicata sulla rivista femminile più letta in Italia. Dopo pochi giorni quel testo rimbalzava online su blog e forum e tutt’ora non smette di diffondersi da sé su tutti i social network. Le ragazze che hanno amato quella poesia hanno cercato il libro e lo hanno comprato, dimostrando che quando la poesia esce dai suoi confini, incontra anche nuovi lettori capaci di diventare fedeli. Dopo 12 anni dall’uscita il libro è stato ristampato molte volte e le persone non smettono di scrivermi, mi sono arrivate lettere bellissime, in tanti mi hanno raccontato come la mia poesia abbia attraversato le loro vite. Uno di questi lettori è stato il cantautore Vasco Brondi, che ha citato i miei versi in alcune canzoni dell’ultimo album delle Luci della centrale elettrica. Nella prima settimana il disco era già primo in classifica, e così la fortuna della coinquilina sembra continuare a incontrare lettori. Nel frattempo sono uscite diverse poesie in due antologie molto importanti, Les Poètes de la Méditerranée per Gallimard, in cui sono la più giovane dell’intero libro accanto a grandi nomi della poesia internazionale e Nuovi Poeti Italiani 6 di Einaudi. In questi anni ho lavorato al mio secondo libro  Una stagione d’aria, che considero il mio più importante: è finito già da un po’ e spero di poterlo presto pubblicare. Nel frattempo, dopo un lungo silenzio, ho iniziato a scrivere anche qualcosa di nuovo, sono solo pochi testi ma già di un altro passo.

 

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1 dicembre 2015

 

INTERVISTE

LECOMTE

MIA LECOMTE, FONDATRICE DELLA “COMPAGNIA DELLE POETE”
INTERVISTE

MACCARI

Alida Airaghi intervista Paolo Maccari

 

PAOLO MACCARI, POETA E CRITICO LETTERARIO

Paolo Maccari è nato a Colle Val d’Elsa (Siena) nel 1975. Ha pubblicato Ospiti (Manni 2000, con prefazione di Luigi Baldacci – Premio Bagutta Opera Prima), Fuoco amico (Passigli, 2009) e Contromosse (Con-fine, 2013). Suoi testi poetici sono apparsi in riviste e antologie. Come critico letterario è autore di una monografia su Bartolo Cattafi, Spalle al muro (Sef, 2003) e di un volume su Dino Campana, Il poeta sotto esame (Passigli, 2012). Dirige con Valerio Nardoni la sezione poesia Valigie rosse del Premio Piero Ciampi.

  • Qual è stata l’importanza, per la sua scrittura, dell’ambiente toscano in cui è nato e cresciuto?

È oggettivamente difficile stabilirlo. Intanto bisognerebbe restringere il significato di “ambiente”. Se si intende quello culturale, la Toscana, e segnatamente Firenze, sono stati per me importantissime. La nozione di toscanità – laddove significhi bozzettismo, arguzia bonaria, religione del ricordo addomesticato e ben composto ecc… – mi repelle. Repelleva, d’altronde, anche agli scrittori toscani che più mi piacciono e ammiro: Tozzi e Pea, per esempio, o certo Bilenchi, o Bianciardi. E quella stessa nozione, per arrivare all’oggi, ha indubbi avversari in toscani come Giacomo Trinci, poeta che unisce una sua assolutezza di canto con interferenze umorali della nostra contemporaneità, e in Attilio Lolini, che secondo me è uno dei più grandi poeti viventi.

  • Attraverso lo studio di quali poeti e narratori si è avvicinato alla letteratura?

Non ho un percorso originale. Ho iniziato a leggere seriamente verso i quattordici anni, iniziando, come tanti, dall’Ottocento: Poe, Baudelaire, i Russi ecc…

  • In che modo la sua attività di critico letterario influenza la sua produzione poetica?

Chi lo sa: non è lo stesso leggere liberamente o leggere con la prospettiva di rendere conto pubblicamente della propria lettura. Sono, si sa, due livelli diversi e non è detto che uno sia più profondo dell’altro. Come si depositi una certa modalità di lettura nella nostra memoria e nella nostra sensibilità è difficile stabilirlo. Poi, ho avuto la fortuna di impegnarmi professionalmente quasi soltanto su autori che mi piacevano, in alcuni casi – come Cattafi o Raboni – che amavo molto. A volte mi dispiaceva quasi doverne scrivere perché mi pareva di dover definire emozioni che avrei preferito lasciare in uno stato felicemente informe, come è spesso la sincera ammirazione, che lascia perdere le proprie ragioni e si contenta di se stessa.

  • Di cosa si sta occupando attualmente, sia a livello professionale, sia creativamente?

Sul piano professionale, e dopo molti anni, di niente. Leggo quel che mi pare (se interessa, al momento Chiamalo sonno di Henry Roth: un grande romanzo che non conoscevo), prendo appunti che non mi serviranno. Non so quanto continuerà questa condizione, che in un certo senso mi spaventa perché asseconda uno dei miei peggiori e più disperanti tratti caratteriali, cioè la pigrizia. In astratto, mi attira l’idea di tornare a recensire o a scrivere brevi saggi sulla letteratura contemporanea. Per un periodo l’ho fatto: è stancante, ma restituisce un po’ il senso di un interesse autentico per l’esistenza, nel suo farsi e primo apparire, che è comunque vitale, al di là del panorama su cui il destino ci impone di posare gli occhi.

  • Qual è la sua opinione sul panorama letterario italiano contemporaneo, e quali autori in prosa e in versi predilige tra i più giovani? Ritiene che i vari festival e saloni del libro abbiano una funzione positiva nel promuovere la lettura?

La prosa la conosco pochissimo e non so giudicarla. Vado un po’ meglio con la poesia, ma le poche volte che mi capita di parlare con amici informati davvero mi rendo conto che il mio è uno sguardo parziale e lacunoso. In ogni modo, posso dire che leggo volentieri alcuni miei più o meno coetanei, che tra l’altro sono risultati vincitori del Premio Ciampi poesia: Matteo Marchesini (di cui ammiro anche la produzione critica e narrativa), Andrea Inglese, Italo Testa, Francesco Targhetta, Azzurra D’Agostino. Molti altri poeti, anche qui a Firenze, scrivono cose interessanti (mi viene in mente tra gli altri, anche perché è uscito di recente con un nuovo libro, Marco Simonelli). Tra i più giovani, recentemente ho letto alcune poesie molto belle di Lorenzo Mari. Tra i cinquantenni, Paolo Febbraro, di cui sta per uscire un libro di racconti da Pendragon, lo seguo con partecipazione da molti anni.
In quanto ai festival e ai saloni del libro: non sono mai stato a un salone del libro, e non so valutare la sua efficacia nel promuovere la lettura, mentre quella dei festival mi pare limitata e soprattutto impegnata a evangelizzare chi è già un fedele devoto.
Siccome insegno a scuola, dovrei ora dire che decisiva è la scuola. Ma non sono sicuro nemmeno di questo. Vedo ragazzini che non leggono anche a fronte di grandi sforzi del professore e altri che leggono nonostante gli sforzi involontariamente contrari di un altro professore. Inoltre, guardo con sospetto al pregiudizio per cui l’importante è leggere, avvicinare alla lettura, abituare alla lettura, perché il lettore abitudinario dopo aver accumulato una libreria di paccottiglia finirà per avventurarsi nella lettura di Joyce o di Pound. Come non è vero che i consumatori di droghe leggere prima o poi passeranno a quelle pesanti, non è vero nemmeno che, in questo caso, debba avvenire il salto di qualità. Anzi, il più delle volte chi inizia male – se non è stornato da motivi di studio o da incontri fortunati – continua beatamente male.

  • Crede esista un pubblico della poesia, oggi, o i poeti sono letti solo dai poeti?

Ogni tanto mi capita di incontrare qualche lettore di poesia innocente, che non la scrive e non ne scrive. Sono creature quasi leggendarie, che quando vengono avvistate sono cinte da uno stupore ammirato e incredulo. Si pensa che, sotto sotto, la loro immacolata scrivania abbia un cassetto con il doppiofondo, e lì riposino le prove peccaminose del vizio: fogli scritti andando a capo. Invece no: esistono, sono pochissimi ma esistono. E probabilmente ne esisterebbero molti di più se fosse incrementata la forma meno elitaria e autoreferenziale di diffusione della poesia, vale a dire la pubblicazione seria di opere poetiche, in collane accreditare, con un buon ritmo di uscita, con un’adeguata distribuzione e un investimento promozionale abbastanza convinto. Certo, detta così sembra un’utopia, ma ricordo un articolo di Raboni – uno che le regole del gioco editoriale le conosceva benissimo e dall’interno – in cui si diceva all’incirca questo: gli editori non credono nella poesia e per lei non si prendono nessun rischio, ne deriva che la poesia non si vende, pertanto gli editori ci credono ancora meno ecc… Sicuramente a invertire la rotta non bastano gli editori piccoli o medi che rappresentano le proverbiali eccezioni, né le operazioni strombazzate dei grandi che ciclicamente scaraventano in edicola i soliti classici. Ci vorrebbe un’operazione in forze, che contempli tempi medio-lunghi. Tempi completamente sfasati rispetto al nostro, ed ecco che si torna a una prospettiva utopica che non promette avveramenti. Ma non saremmo uomini di oggi se non lamentassimo la decadenza della poesia, il suo poco seguito, la sordità dei nostri contemporanei.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/PaoloMaccariintervista.html     21 marzo 2016

INTERVISTE

MADERA

ROMANO MÁDERA, FILOSOFO E PSICANALISTA

Romano Màdera è stato professore ordinario di Filosofia morale e di Pratiche filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fa parte delle associazioni di Psicologia Analitica italiana e internazionale, del Lai (Laboratorio analitico delle immagini, associazione per lo studio del Gioco della sabbia nella pratica analitica) e della redazione della Rivista di psicologia analitica. Ha chiamato la sua proposta nel campo della ricerca e della cura del senso analisi biografica a orientamento filosofico e ha fondato la Società degli Analisti Filosofi (Sabof).
Tra le sue pubblicazioni: “L’animale visionario” (Il Saggiatore, 1999); “Il nudo piacere di vivere” (Mondadori, 2006); “La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica” (Raffaello Cortina, 2012); “Carl Gustav Jung”, (Feltrinelli, 2016); “Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche” (Mimesis, 2018).

  • I suoi interessi culturali erano rivolti alla filosofia già ai tempi del liceo, nutriti da quali letture, e indirizzati verso quali obiettivi?

Al liceo ho incontrato Cesare Revelli, il mio professore di filosofia e storia. È lui all’origine della mia vocazione alla filosofia, ad una filosofia capace di farci capire il mondo cercando di cambiarne le strutture materiali e culturali che contrastano le possibilità di espressione e di sviluppo delle qualità umane di solidarietà e di ricerca di senso.

  • Quali sono stati gli incontri a livello personale e intellettuale che più hanno segnato il suo carattere e le sue scelte esistenziali e professionali?

Cesare Revelli, come ho già detto, Giovanni Arrighi, amico e studioso di macrosociologia storica, Paolo Aite, il mio primo analista, Carlo Enzo, un grande e misconosciuto esegeta delle Scritture ebraiche e cristiane. Sul piano delle letture, anche se con Pierre Hadot ci siamo scambiati qualche lettera, direi Karl Marx, Nietzsche, Jung, Hadot appunto, Lucrezio, Epicuro, Leopardi, Dostoevskij, Tolstoj… Ovviamente per me la “Bibbia”, Merton, Thich Nhat Hahn…. Potrei continuare per molto, il mio motto è: “imparare da tutto, imparare da tutti”.

  • Quando e in che modo le strade della filosofia e della psicanalisi si sono incrociate nella sua formazione?

Da molto giovane. Ero l’ultimo figlio di quattro. Ho imparato molto dai miei fratelli e da mia sorella. Già a sedici-diciassette anni avevo scelto filosofia perché volevo fare psicoanalisi, poi la militanza politica ha interrotto per un po’ la sequenza, infine la crisi esistenziale e politica intorno al 1973-75 mi ha dato la spinta decisiva a incominciare l’analisi e, cinque anni dopo, il training analitico.

  • La sua è una ricerca non solo filosofica, ma anche spirituale. In che maniera l’ha nutrita e continua ad approfondirla?

La mia è una filosofia come modo di vivere, implica esercizi spirituali quotidiani, quelli antichi e quelli nuovi. La mia sensibilità è sempre stata fortemente religioso-spirituale, a un certo punto sono entrato nella Chiesa Valdese, però frequento i monaci camaldolesi e altri amici cattolici. Ho visitato monasteri buddisti come quello in Francia di Thich Nath Hahn e ho imparato e seguo tuttora alcune delle meditazioni che ho imparato, per due anni ho seguito le pratiche dello Dzogchen insegnate da N. C. Norbu. Ma in definitiva ho piano piano dato forma a una disciplina tagliata su misura – come teorizzo per altri che vogliano inserirsi in questo modo di realizzare una spiritualità laica, cioè aperta a variazioni sulla base di scelte di fondo individuali – e fatta da diversi esercizi filosofici, da pratiche meditative, dalla preghiera e dalla lettura, da momenti di riflessione e di pratica autoanalitica.

  • Tra il suo lavoro di psicanalista e quello di studioso e docente universitario quali sono i maggiori punti di incontro e di attrito?

Considero l’insegnamento solo una parte di un esercizio, la lezione e parzialmente qualcosa del dialogo, ai quali manca il contesto della filosofia come pratica di vita. Comunque studiare accademicamente può essere un buon esercizio se lo si fa cercando di servire la ricerca della verità e non la propria ambizione di riuscire e di apparire. Può essere anche una scuola di umiltà e di pazienza. Poi ho sempre provato a far entrare in università un diverso modo di concepire e di praticare lo studio e il confronto, per esempio con la formazione dei seminari aperti di pratiche filosofiche che non hanno alcuna funzione curriculare. Ho sempre avuto difficoltà nel momento degli esami, ho cercato di sperimentare forme diverse, ma ci sono riuscito solo all’Università della Calabria dal 1978 al 1982, quando era un vero campus. Anche nel lavoro di tesi avevo sperimentato nuove forme, poi le ho raffinate e trasportate nella prova finale della scuola in analisi biografica a orientamento filosofico che dal 2006 vive a Philo a Milano. E adesso qualcosa del genere proviamo anche nella scuola Mitobiografica, un tentativo di cercare il senso della vita e del sapere in un gruppo di sodali, senza altro scopo che l’espressione e la comunicazione di questa esperienza di ricerca.

  • Di quale tra i suoi libri si sente più soddisfatto e orgoglioso, e a cosa sta dedicando attualmente la sua ricerca?

Il mio preferito è “Dio il Mondo” uscito per Coliseum nel 1989 allora diretta da Nanni Cagnone, del quale sono poi diventato amico, uno dei più intensi poeti italiani contemporanei. L’ho scritto dal 1980 al 1985, l’ho dovuto accorciare di molto per renderlo pubblicabile, ma è un primo tentativo di mia Mitobiografia. Poi “La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica” che è ad oggi la sintesi più riuscita del mio tentativo di pensiero e di pratica.
Da trenta anni cerco di trovare il varco e il tempo per scrivere un testo che parli della mia analisi, delle immagini delle sabbie di allora soprattutto, dentro il contesto storico biografico e con una rilettura del mito cristiano… e poi anche qualche nota teorica su psicoanalisi e analisi biografica a orientamento filosofico dopo “La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica”. Come si vede è troppo e per questo chissà se riuscirò mai a scriverlo.

 

 

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INTERVISTE

MANGANARO

PATRIZIA MANGANARO, PENSIERO ED EMPATIA
Patrizia Manganaro è Docente Ordinario di Storia della Filosofia contemporanea e di Filosofia del linguaggio alla Pontificia Università Lateranense di Roma. Ha all’attivo numerose pubblicazioni tra saggi, monografie e volumi collettanei: Empatia (EMP, Padova 2014); Persona-logos. La sintesi filosofico-teologica in Edith Stein (Lup 2015); Narcisismo (EMP, Padova 2016) sono tra i suoi libri più recenti.

 

In quale maniera l’ambiente in cui è nata, cresciuta e in cui si è formata culturalmente ha influenzato le sue scelte intellettuali e professionali?

Ho deciso che “da grande” avrei fatto l’insegnante all’età di otto-nove anni, stimolata dall’ambiente scolastico di Bergamo e poi di Roma, la mia città di adozione. Un giorno, tra i libri di mio padre, ho trovato La nausea di J.-P. Sartre. Avevo dodici anni e, da allora, non mi sono più separata dalla filosofia. Non me ne sono mai pentita, anche quando si diceva che non mi avrebbe dato un futuro. All’Università “La Sapienza” di Roma ho ascoltato maestri autorevoli: Francesco Valentini, ordinario di Filosofia teoretica, che mi ha insegnato a leggere Hegel e con il quale ho discusso una tesi sul razionalismo critico di Antonio Banfi; e poi docenti del calibro di Marco M. Olivetti, Gennaro Sasso, Tullio De Mauro, Gabriele Giannantoni, Tullio Gregory, Manlio Simonetti. Ricordo il primo giorno di lezione universitaria a Villa Mirafiori, sede della Facoltà di Filosofia: rimasi incantata dalle riflessioni del docente sul tema della temporalità in Anassimandro, Platone, Agostino, Tommaso, Kant, Heidegger. Laico, raccomandava a noi studenti la lettura del Prologo del Vangelo di Giovanni. È stato un consiglio intelligente e lungimirante, di cui ancora lo ringrazio. Io ero già credente: credente e interrogante. Dopo la Laurea, ho conseguito il Dottorato in Filosofia all’Università Lateranense, con una ricerca sulla fenomenologia dell’alterità e dell’intersoggettività, poi pubblicata da Città Nuova con il titolo Verso l’Altro. L’esperienza mistica tra interiorità e trascendenza nel 2002. In questa Università ho approfondito la lettura filosofica dell’esperienza mistica e, sotto la guida di Angela Ales Bello, la fenomenologia della religione.

Quali sono i filosofi, classici e contemporanei, che più hanno contribuito alla costruzione del suo pensiero critico?

D’istinto, direi Ludwig Wittgenstein e Edith Stein. L’uno mi ha insegnato l’importanza del logos come linguaggio, come “gioco” condiviso, mentre dall’altra ho appreso la grammatica fenomenologica del “sentire” e l’epistemologia analitica dei vissuti coscienziali di matrice husserliana. Ma in realtà sono molti e, per evitare un arido elenco, direi piuttosto qualcosa su alcuni testi che hanno contribuito alla progressiva stratificazione del mio pensiero, attraverso l’esperienza della lettura, dell’ascolto e della riflessione. In gioventù, i dialoghi di Platone Parmenide e Sofista sono stati formativi da un punto di vista teoretico: il primo concerne la questione dell’uno e dei molti, del tutto e delle parti, con formidabili incursioni sul tema del tempo, del divenire, dell’istante: mi ha insegnato il valore dell’aporia, la capacità di elaborare un tema filosofico, le sue molteplici possibilità di articolazione e di scandaglio, il gusto per il gioco intellettuale e l’esercizio del pensiero; il Sofista, che discute il tema del non-essere come differenza, mi ha aperto nuove strategie di comprensione di quel “non”, che a volte fa paura. I libri X e XI delle Confessioni di Agostino sulla memoria e sul tempo sono uno straordinario documento del quaerere della ragione, del cercare domandando piuttosto che del superbo affirmare. Qui ho imparato l’umiltà del pensiero e, insieme, la sua forza. Insegnando Storia della filosofia contemporanea, segnalerei almeno il criticismo di Kant e gli Scritti teologici giovanili di Hegel, insieme alla Scienza della logica. Tutto Nietzsche, assolutamente geniale, unico, lucido nella sua esaltazione: le sue parole feriscono, tagliano come lame, costringono a pensare, quasi ti inchiodano. E ancora, le Idee di Husserl per l’esplorazione dell’intenzionalità della coscienza e l’elaborazione di un criterio metodologico innovativo, con una serie di potenzialità che ritengo, almeno in parte, inesplorate; e il pensiero di Wittgenstein, dal Tractatus alle Ricerche filosofiche, sino ai suoi diari, così traboccanti di umanità. Edith Stein per lo studio filosofico della persona umana, della coscienza religiosa e mistica; Hannah Arendt, Martin Buber, Hans Jonas, Jacques Maritain, e molti, molti altri. Tra i contemporanei italiani, il Diario fenomenologico di Enzo Paci mi è particolarmente caro, per la squisita sensibilità filosofica.

La filosofia rimane un ambito di riflessione per pochi, o può ambire a raggiungere e a motivare intellettualmente un pubblico più vasto?

La filosofia è una disciplina tecnica, non c’è dubbio. Ma sarebbe uno sbaglio lasciarla agli “addetti ai lavori”, come se fosse soltanto mera erudizione. Con la filosofia, è possibile costruire la pace. Come? In primo luogo, incarnandola, testimoniandola, perché studiare rende liberi: è un diritto, prima ancora che un dovere. In secondo luogo, imparando ad ascoltare: anche chi è più distante, anche il pensiero che non condividi ti arricchisce e diventa un bagaglio prezioso. Credo nel valore dell’educazione e sono convinta sostenitrice dell’insegnamento della filosofia sin dalle scuole elementari, se non prima, per formare le coscienze dei futuri cittadini al bene comune e affinare la sensibilità di tutti e di ciascuno. Sì, perché logos e pathos non sono contrari, ma complementari. La filosofia, diceva Wittgenstein, è un lavoro su di sé, è una terapia (non nel senso di Freud, per il quale la civiltà genera patologia, ma nel senso squisitamente ellenico della therapeia, che significa “servizio”, “cura”). A scuola, abbinerei l’avviamento alla filosofia alla pratica dello yoga, che estende la coscienza della complessità che siamo, a partire dal corpo. Quando entro in classe, prima di iniziare la lezione invito gli studenti a un momento di riflessione e, per chi lo desidera, di preghiera, in silenzio: in quel momento, ciascuno è con se stesso e tutti sono solidali con tutti, e questa è già comunità, condivisione, documento della propria e dell’altrui umanità. Homo sum: humani nihili a me alienum puto, scriveva Terenzio, e io cerco di combattere l’indifferenza con la filosofia. Inoltre, c’è già uno scopo didattico: gli studenti fanno esperienza concreta del legame tra pensiero e linguaggio, nonostante il silenzio, anzi proprio grazie al silenzio. Che a quel punto non è un limite, ma una potenzialità nuova, e più ampia.

Insegnando all’Università Lateranense di Roma, immagino che lavori in un ambiente vincolato a una precisa ideologia e scelta di campo teorica. Non ritiene ciò un possibile limite alla libera indagine filosofica?

La filosofia è una disciplina autonoma, con un proprio statuto epistemologico, i suoi metodi, i suoi criteri. La Facoltà di Filosofia dell’Università Lateranense è frequentata da studenti e studentesse provenienti da tutti i continenti del mondo, persino dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente; i laici e le donne sono ben rappresentati; discutiamo Tesi di Laurea e di Dottorato in inglese, francese, portoghese, spagnolo, superfluo sottolineare come l’ambiente internazionale favorisca lo scambio interculturale e l’apertura a realtà altre. Qui gli studenti non sono meri numeri di matricola, ma persone, e la nostra docenza riflette l’idea e la pratica del personalismo filosofico, la dignità della persona umana. Non mi sembra un limite, ma un valore aggiunto. Direi inoltre che la fede non è un fatto privato, ma interiore. Pensare che sia un ostacolo per la ragione è un pregiudizio smentito dalla storia, un luogo comune. L’esperienza del limite, della finitudine, della sofferenza, la domanda sulla vita e sulla morte aprono la ragione filosofica alle questioni più brucianti, più radicali: l’infinito, la trascendenza, il bene comune, la bellezza, la pace. L’indagine filosofica del filosofo credente è e rimane libera: prendiamo un Pareyson, che ha messo a tema la questione dilaniante del male e della libertà, persino in relazione a Dio. Prendiamo il pensiero ebraico, la spinosa questione del pensare Dio dopo Auschwitz. Insegno storia della filosofia contemporanea e dedico molto tempo allo studio dei “maestri del sospetto” Marx, Nietzsche e Freud, che hanno saputo capovolgere molti luoghi comuni, invitandoci a riflettere, ad approfondire, a ricercare sempre e di nuovo. Il pensiero è sempre arricchente, la filosofia è un invito a pensare lo spazio pubblico, mentre non manca di rivolgersi ad intus.

Nella società attuale, così individualistica e attratta da valori effimeri – quali il successo economico e l’esibizione personale -, un forte richiamo etico e teologico suscita ancora interesse, ha una reale presa sul pubblico, soprattutto tra le giovani generazioni? Non le pare che tutto stia scivolando verso derive di disinteresse e apatia, in qualche modo veicolate da superficiali richiami mediatici?

Insegno da molti anni e non è questa la “fotografia” dei giovani che l’esperienza didattica mi ha offerto. Nella maggioranza dei casi, i giovani hanno chiesto cura, attenzione, impegno, passione, solidarietà, valori, creatività, professionalità. Non hanno perso la capacità di domandare, di interrogare, di porre questioni, di incuriosirsi, di stupirsi, di fare comunità. Hanno anzi mostrato interesse per questioni almeno in parte nuove: le neuroscienze, l’ecologia, gli animali, l’ambiente, la bioetica. Penso siano segnali importanti, da cogliere e ac-cogliere. Non ignoro alcune preoccupanti derive, come lo scollamento tra insegnanti e genitori, o la crisi che logora un sapere ormai frammentato, ma non identificherei le giovani generazioni con “il pubblico”, perché il sapere non è uno “spettacolo”; e i filosofi non sono gli opinionisti o i frequentatori dei salotti mediatici, ma si pongono al servizio del pensiero, cioè dell’umano. Ho affrontato questi temi da due punti di vista diversi, nei volumetti Empatia (2014) e Narcisismo. Tre riflessioni liquide (2016), cercando un linguaggio duttile, fluido, plastico, per dire che l’indifferenza, l’apatia, la visibilità a tutti i costi, l’anestesia del sentire sono i mali del nostro tempo, uniti alla solitudine di massa, ancor più inquietante perché virtuale. La figura di Narciso, in questo senso, è emblematica, perché ama un’ombra, e la prende per corpo. Ma Narciso muore nel momento in cui si rende conto di essere uno, di essere solo. Sta a noi adulti dare per primi l’esempio, prendendoci la responsabilità dei nostri gesti, azioni, comportamenti, parole, relazioni. Sta ai cosiddetti intellettuali suscitare un pensiero critico, maturo, svincolato dai luoghi comuni e dalle tendenze omologanti: questo significa, semplicemente, lavorare sulla qualità. Avere cura. Mettersi al servizio dell’altro e testimoniare, così, la libertà del pensiero.

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Cinque-domande-alla-filosofa-Patrizia-Manganaro. html      21 settembre 2018

INTERVISTE

MARCHAND

INTERVISTA AL PROFESSOR JEAN-JACQUES MARCHAND

di Alida Airaghi

 

Il professor Jean-Jacques Marchand, Accademico della Crusca e ideatore del Progetto internazionale Baslie, risponde ad alcune domande sull’importante opera di catalogazione dei testi letterari prodotti dagli italiani all’estero

I Gennaio 2025 – Gli Stati Generali

Logo_ACCADEMIA DELLA CRUSCA | Storie di Storia

Nato nel 1944, da padre svizzero e da madre fiorentina, Jean-Jacques Marchand ha studiato a Losanna e a Firenze. È stato ordinario di letteratura italiana all’Università di Losanna fino al 2006 ed è adesso Professore emerito. Docente invitato in varie università svizzere e straniere, i suoi ambiti di specializzazione sono il Rinascimento (Machiavelli, la poesia di corte del Quattrocento) e il periodo contemporaneo (la letteratura degli emigrati di lingua italiana nel mondo, gli autori della Svizzera italiana). Ha pubblicato una ventina di volumi e circa 150 articoli. Ha organizzato vari convegni internazionali, in particolare sul Rinascimento fiorentino come Machiavelli storico politico e letterato (1995), Storiografia fiorentina tra Quattro e Cinquecento (2002) e Machiavelli senza i Medici, Scrittura del potere / potere della scrittura (2004). Una ricerca da lui diretta è sfociata nella pubblicazione: Dalla storia alla politica nella Toscana del Rinascimento (Roma, 2005). Ha fatto parte del comitato dell’Accademia svizzera di scienze morali e del Consiglio di Fondazione del Dizionario Storico della Svizzera. È membro del comitato scientifico per l’Edizione Nazionale delle Opere di Machiavelli e del Consiglio direttivo dell’Enciclopedia Machiavelli (Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani), per la quale ha scritto una dozzina di voci. Ha pubblicato nel 2018 due volumi di Studi machiavelliani (Firenze) e la voce “Machiavelli” nella decima Appendice dell’Enciclopedia Treccani. È membro di vari comitati di redazione, tra cui “Storici e cronisti di Firenze”, “Centro Camporesi” e “Medioevo e Umanesimo”; è presidente della commissione “Testi per la storia della cultura della Svizzera italiana”. È Accademico della Crusca e Corrispondente della Classe di Lettere e arti dell’Accademia Olimpica di Vicenza.

 

Jean-Jacques Marchand | University of Lausanne - Academia.edu

 

Professor Marchand, a quando risale la sua affiliazione all’Accademia della Crusca Italiana? Immagino che questa nomina l’abbia colmata di gioia e legittimo orgoglio: non penso siano molti gli stranieri che ne fanno parte…

Sono stato eletto accademico corrispondente estero dell’Accademia della Crusca nel 2017. È stata una vera sorpresa: sono certo un filologo che ha lavorato all’edizione di testi in prosa e in poesia, prevalentemente del Rinascimento, ed ho avuto perciò a che fare con la lingua italiana, ma non sono un linguista puro. La gioia è stata quella di pensare che l’amore per la lingua italiana che i miei genitori, e mia madre fiorentina in particolare, mi avevano inculcato, mi aveva portato a questo riconoscimento, riservato a pochi, dato che gli accademici corrispondenti esteri per tutto il mondo sono un po’ più di una trentina.

 

Il suo amore per la letteratura italiana, in particolare per il Rinascimento fiorentino, è nato negli anni universitari, o le era già stato inculcato nell’infanzia dall’educazione materna?

Il mio amore per la letteratura italiana risale certamente all’educazione materna. Visto che ero nato e frequentavo una scuola di lingua francese, mia madre si è premurata fin dai primi anni di trasmettermi l’amore non solo per la lingua, ma anche per la cultura italiana in senso ampio. Quando ero ancora piccolo, la mamma passò spericolatamente dalla lettura di Cuore di De Amicis ai Promessi Sposi manzoniani, che ascoltavo come un romanzo d’avventure! Contemporaneamente avveniva la scoperta delle città d’Italia, grazie ai meravigliosi album di foto del Touring Club Italiano, seguita dall’iniziazione all’opera, di cui, in mancanza di dischi, la mamma mi raccontava l’intreccio, illustrandomelo con arie che aveva imparato frequentando il Maggio musicale fiorentino. Poi ci fu l’incontro, all’inizio dei miei studi universitari, con Fredi Chiappelli, un brillante professore di letteratura italiana, che mi prese subito come assistente, facendomi presto trascrivere centinaia e centinaia di lettere amministrative e diplomatiche di Machiavelli. Negli anni seguenti, mi cimentai con una sfida filologica: l’edizione critica in cinque volumi dell’opera poetica, allestita con una collega messinese, delle Rime di Antonio Tebaldeo. Nel frattempo, ci furono i concorsi universitari, fino alla nomina a professore straordinario nel 1983: una cattedra ancora parziale che venne completata nel corso degli anni fino all’ordinariato…

All’interno dell’Accademia, quale è stato il suo ruolo nell’ideazione del Progetto Baslie? In cosa consiste tale programma? È stato difficile farlo accettare dagli altri membri della Crusca?

Il progetto BASLIE nasce nel 1990 all’Università di Losanna dove insegnavo, da un altro filone delle mie ricerche: le opere scritte da emigrati o da residenti italiani all’estero. Era un fenomeno letterario praticamente ignoto all’epoca, sebbene fosse costituito da migliaia di testi pubblicati praticamente su tutti i continenti, e prevalentemente in Europa, nelle due Americhe e in Australia. Faceva seguito a un convegno internazionale che avevo organizzato poco prima a Losanna. Allestito e sviluppato con pochi mezzi finanziari e tecnici, venne ampliato negli anni seguenti fino verso il 2010. Ma, se per i paesi europei la copertura raggiungeva un buon livello, per gli altri continenti le lacune erano ancora notevoli. Il mio ingresso alla Crusca, e l’inserimento fra gli “Scaffali digitali” dell’Accademia della BASILI, creata dal prof. Armando Gnisci all’università di Roma, sul modello e come “pendant” della BASLIE, in quanto registra le opere scritte in italiano da immigrati venuti a vivere e lavorare in Italia, mi ha spinto a proporre la migrazione della nostra banca dati alla Crusca. L’operazione ha richiesto un ripensamento totale della struttura per adeguarla alle norme dell’Accademia, un controllo sistematico delle schede e un loro parziale aggiornamento. Attualmente la BASLIE censisce circa 700 opere per 440 autori.

 

Quali prospettive di sviluppo si pone Baslie? Su quanti collaboratori sparsi per il mondo può contare?

 La BASLIE andrà sviluppata in due direzioni: l’ampliamento del censimento, a partire dalle prime manifestazioni del fenomeno alla fine dell’Ottocento, nelle due Americhe e in Australia due continenti di forte emigrazione italiana (e forse anche in Africa durante gli anni della colonizzazione) e, d’altra parte, l’aggiornamento per tutti i paesi, in particolare europei, sulle opere uscite negli ultimi 20-30 anni. Lo sviluppo dovrà anche tenere conto delle nuove forme di spostamento e di lavoro degli italiani all’estero – fra le decine di migliaia d’italiani che partono ogni anno all’estero sono convinto che alcuni scrivono e pubblicano ancora testi di intento letterario – e di nuove forme di pubblicazione dei testi sempre più frequentemente on line su siti o blog, come questo. Occorrerà ricostituire una rete di collaboratori in vari paesi come quella che avevamo ancora alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. La Crusca non disponendo di finanziamenti ad hoc, dovremo contare molto sul volontariato di studiosi, e magari su qualche contributo di ricerca, come quello che ci è stato recentemente concesso dall’università di Losanna.

 

Crede che lo studio della lingua e della letteratura del nostro Paese sia destinato ad avere un      incremento, in questo particolare periodo storico in cui è l’inglese a dominare qualsiasi modalità espressiva a livello internazionale?

 Non mi faccio molte illusioni sull’incremento dello studio della lingua e della letteratura italiana, vista la prevalenza assoluta e sempre più imperante dell’inglese; ma credo che le posizioni della nostra lingua nel mondo non siano vicine all’implosione. Anche se gli italiani che si recano all’estero usano di solito l’inglese, è anche vero che numerosi sono gli studenti americani, australiani, giapponesi ed anche cinesi che imparano e usano la nostra lingua. In molto ambiti come l’arte, la moda, la gastronomia, il turismo, l’italiano ha delle posizioni da difendere. Numerosissime sono le persone nel mondo che hanno una conoscenza almeno passiva della nostra lingua.

 

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», I gennaio 2025

INTERVISTE

MATTEI

SEI DOMANDE A PIERA MATTEI

Piera Mattei è nata e vive a Roma. Dopo gli studi di filosofia ha lavorato nell’ambito del giornalismo culturale e dello spettacolo, pubblicista per diverse testate, tra le quali, del quotidiano romano Paese sera. È stata autrice e realizzatrice di spettacoli teatrali, ha pubblicato volumi di

racconti e di poesie, saggi, recensioni, traduzioni e curatele. Suoi testi, tradotti in diverse lingue, sono presenti in antologie e riviste italiane e straniere. Ha vissuto per lunghi periodi negli Stati Uniti, in Giappone, a Parigi. Nel 2010 ha fondato a Roma le edizioni Gattomerlino, e alcuni anni dopo ha aperto uno Spazio per le presentazioni e anche incontri di arte e musica, nella stessa città, in Borgo Vittorio 95.

 

Quando, e incoraggiata da quali ambienti familiari e culturali, è iniziata la sua passione per i libri,
letti e scritti? 
Per la risposta a questa domanda, che intende riportarmi indietro nel tempo, premetto pochi versi tratti dalla mia poesia “Il volto-le mani”: non amo i ricordi – i racconti sul filo dei ricordi/ ma le immagini che giungono dal passato/ quelle sì- le afferro/in queste brevi mani le tengo strette (in “L’equazione e la nuvola”, Manni 2004).
Vorrei dire con questo che non si può mai essere certi che quanto appare come ricordo non corrisponda invece a immagini, a miti sedimentati nella nostra mente, addirittura creati dalla mente. Per questo motivo parlerò qui degli anni della crescita e della formazione in terza persona. Quella bambina che porta il mio stesso nome, che vedo dentro di me e guardo con meraviglia e rispetto, è legata, fin dai suoi esordi nel mondo, alla poesia. È una bambina che recita, prima ancora d’imparare a leggere, e non ricordo che qualcuno l’abbia spinta a farlo o glielo abbia insegnato. L’amore per la parola, la memoria delle parole che risuonano, la lettura e la scrittura, nascono in lei come fatto spontaneo, per il quale riceve naturale riconoscimento. Questo esordio forse però negli anni potrebbe averla portata a una certa chiusura, a sentirsi già pronta, a rifiutarsi al confronto, a non avvertire il bisogno di dover mostrare, e dimostrare.

Tra i poeti e i narratori, italiani e stranieri, quali ha sentito e sente più vicini? A chi in particolare ritiene di dover esprimere riconoscenza per il ruolo formativo e di stimolo della sua sensibilità
letteraria?
Si chiede del ruolo formativo, quindi non si farà riferimento agli scrittori e ai poeti che pure ha frequentato come conoscenti e amici nella sua piena giovinezza e anche dopo. Scriviamo qui delle letture dell’adolescenza, che sono i grandi romanzi russi, i racconti di Kafka e anche la poesia, Thomas Hardy, le Bronte e Dickinson. Studia appassionatamente i classici (a dieci anni, durante la pausa di un “trasferimento” impara a memoria il primo canto del Paradiso) ma l’attraggono anche i manuali di medicina e gli atlanti, la biografia di Marie Curie che scopre in casa. Una “casa” che è sempre un appartamento diverso, i suoi spazi sempre diversi, ogni volta che torna dal collegio.  Al liceo incontra, e studia poi appassionatamente, Catullo, Ovidio, Lucrezio e i lirici greci. Meno la interessano i contemporanei, preferisce Caproni a Montale.  Ama il latino e la riflessione filosofica. Ma cerca anche nei libri di scienza risposte alle sue domande, senza però arrivare a comprendere, ad afferrare bene, i concetti scientifici.  In tutte le poesie che scriverà, o in quasi tutte, sarà presente la domanda circa l’Esistere fisicamente, lo Spazio, il Movimento. L’ambiente scientifico diventa presto anche il suo ambiente, dopo l’incontro con un fisico che diventa suo marito e il padre, con lei madre, di una figlia che, allevata da lei amorosamente nel
ulto della letteratura e dell’arte, si realizza infine come brillante scienziata. A loro soprattutto, ai “miei” scienziati, per la possibilità che quotidianamente mi concedono di accedere al loro mondo, la mia gratitudine.

Quando ha deciso di fondare la sua casa editrice, e spinta da quali motivazioni? Il suo impegno editoriale ha limitato, influenzato o addirittura spronato la sua scrittura personale? 
Nei miei viaggi e residenze in altri paesi ho sempre cercato nelle librerie, ma anche con incontri diretti, di conoscere autori contemporanei, soprattutto poeti. Tornavo con il mio carico e lo proponevo in particolare alla rivista alla quale ho collaborato per lunghi anni, la “pagine”, rivista di
poesia internazionale di Vincenzo Anania, personalità certamente molto interessante, ma anche molto risentita, un ex-giudice. Mi concedeva una notevole libertà di proposte e avevamo insieme discorsi importanti, anche da punti di vista talvolta divergenti.  Gli sono grata per avermi
comunque fatto molto spazio in un progetto che, nel complesso, restava suo.  Infine è maturato il desiderio di creare una mia casa editrice, che rispettasse la mia personalità dedita alla letteratura e ai libri, ma lontana dai gruppi e dalle giurie dei premi, libera, anche se solitaria, in un contesto culturale per lo più abitato da scienziati.  In quel periodo moriva il mio gatto Merlino, per quasi due decenni fedele compagno delle mie letture. Così decidevo che la casa editrice, che doveva avere la porte aperte su poesia e scienza, si sarebbe chiamata con il suo nome.  Negli anni la fisionomia delle
edizioni è poi in parte mutata facendo molto spazio alla poesia di giovani esordienti italiani o in lingua italiana.
Infatti l’autore con il quale ho aperto la collana “Quaderni di pagine nuove” è stato un originale pittore edile romeno, che ci lasciava in dono i suoi scritti, stesi a mano anche su carta da parati – in un italiano da emigrato che non usa il dizionario, sua sola lingua della scrittura – ogni
volta che terminava la giornata di lavoro in casa nostra. Devo aggiungere che, tornando senza vera premeditazione al progetto originario di coniugare
poesia e scienza, in questi giorni è in lavorazione “La lavagna luminosa” una mia raccolta di poesie scritte a Erice, presso il centro Ettore Majorana, tra il 3 e il 9 dell’agosto appena trascorso, durante una conferenza scientifica internazionale alla quale sono stata, a mio modo, partecipe.  Intendo diffonderla anche nell’ambiente scientifico, che certo non sdegna la poesia.

In cosa Gattomerlino si differenzia da altre attività editoriali delle stesse dimensioni?  A quali forme espressive presta più attenzione, ritenendole meritevoli di incoraggiamento e curiosità?
A questa domanda credo di aver già risposto dichiarando il mio interesse per la poesia anche di altri paesi, e per la scrittura, sia in prosa che in poesia, dei più giovani. Inoltre cerco di creare rapporti d’amicizia tra gli scrittori Gattomerlino, anche invitandoli insieme agli incontri nello Spazio che abbiamo, a Roma, in Borgo Vittorio 95.

In che misura il suo lavoro si avvale di collaborazioni interne ed esterne, e a quali aspetti crede di
aver dato un’attenzione più originale e innovativa nella creazione del prodotto librario? Editing,
grafica, traduzione, diffusione? 
Curo molto le copertine dei libri. Con il nostro grafico Paolo Alberti scelgo e controllo fino all’ultima bozza. Faccio per i miei autori quello che avrei voluto dagli editori ai quali mi sono rivolta.  Quanto alla distribuzione, le nostre tirature sono necessariamente di modesta entità e il sito credo offra una visibilità adeguata. Del resto capita anche di ritrovarsi in contesti importanti come è stato per il libro “Sacro e urbano” di Isabella Capurso, del quale si è parlato sia in Campidoglio sia a Venezia, nell’ambito del Premio Bookciak, nella giornata degli Autori.

Quali sono i vostri titoli che più hanno riscosso interesse in termini di critica e di vendite, e che obiettivi si propone di raggiungere in questi due ambiti fondamentali riguardanti il successo di un libro?

Vendite mai molte, in verità. Si scrive assai più che non si legga. Infatti ricevo ogni mese  decine di proposte, ma quelle stesse persone non  pensano di acquistare e leggere i nostri libri. Seleziono molto i premi ai quali inviare le pubblicazioni. A volte consegno di persona i libri a chi dovrebbe esserne interessato, e potrebbe scriverne, non sempre con successo.  Tuttavia alcune pubblicazioni hanno suscitato interesse in ambienti particolari: oltre a “Sacro e urbano” appena citato e premiato all’incontro tra letteratura e cinema, metterei ”La mia ombra è un leone danzante“ testi e disegni di Laura Corbu, protagonista in un episodio di malattia mentale; “Caro Omero ti scrivo”, nella collana azzurra dedicata ai ragazzi, testo che raccoglie, per la cura del loro insegnante di epica Giorgio Frontini, le lettere inviate all’autore e ai personaggi dell’Odissea, da parte degli alunni di una seconda media di una scuola romana; infine “Chiralità: la vita è asimmetria?” un libretto composito che comprende la prima traduzione italiana del discorso  di Pasteur, durante una conferenza  sul tema, un articolo scritto dal chimico e scrittore Primo Levi, e il contributo dello scienziato Gianni Jona Lasinio.
A proposito di ambienti particolari, le traduzione in italiano del poeta lettone Juris Kronbergs   sono state lette nella splendida cornice della biblioteca centrale di Riga, sospesa sulla città e il suo fiume Daugava, con grande successo di pubblico e attestazioni d’amore per la sonorità della lingua italiana, mentre le traduzioni italiane dei i poeti estoni Maarja Kangro, Doris Kareva e Kaliju Kruusa, con i quali si è sviluppato un durevole rapporto d’amicizia, sono state lette in più occasioni a Tallinn e a Tartu.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 7 settembre 2023