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RACCONTI

OTTAVO PIANO, EMATOLOGIA

Parcheggio la Polo cercando di intuire alla meglio dove si trovino le strisce bianche per terra. È scuro, ormai, da più di un’ora, e l’aria brumosa della bassa confonde le poche luci dei lampioni coi fanali delle auto. Scendo dalla macchina per controllare se le ruote siano entro i limiti prescritti.

«Ciao» mi fa la voce del tunisino che ogni volta sbuca dal niente a offrirmi i suoi accendini. «Buon Natale» sorride con tutti i suoi candidissimi denti, scuote il berretto di lana rosso. «Anche a te» rispondo, e mi cerco nella tasca del cappotto le solite mille lire. «Non torni a casa per Natale?» gli chiedo, e mi sento subito cretina; chissà se festeggia il Natale in Tunisia e lui, cosa mai dovrebbe festeggiare, poi… «Dove casa? Dove casa?» ripete sorridendo. Gli faccio un cenno, che vorrebbe essere di scusa, non solo per la mia stupidità, ma per tutto. Capisce, sembra voglia suggerirmi che anch’io, forse, non sto tanto meglio di lui. Passo davanti alla cabina telefonica dove di notte va a dormire: a fianco, per terra, c’è la sua borsa e una coperta.

Attraverso il piazzale deserto, poche sono le automobili in sosta; è una sera particolare, molti malati, quelli meno gravi, sono stati dimessi. L’atrio dell’ospedale è un po’ più animato: una zingara s’è seduta proprio davanti al presepe e alla cassetta delle offerte, quasi a raddoppiare l’imbarazzo di chi volesse rendere omaggio alla Natività. Ha anche lei il suo Gesù Bambino in braccio, biondo come nei quadri delle chiese, sporco e addormentato. Una coppia giovanissima sta ritirando i soldi dal bancomat, forse per il cenone della vigilia, forse per la settimana bianca. Ridono, prendono in giro la loro ribadita ed eccessiva dimestichezza con la tastiera automatica. Vicino ai gabinetti c’è un paziente col pigiama azzurro sotto il loden, trascina la flebo appesa a un treppiede con le rotelle, e fuma la sua noia, la sua rabbia di recluso. Nel giardino che separa l’atrio dal corpo vero e proprio dell’edificio (un palazzone enorme di otto piani, cemento e vetro incombente sul selciato e sulle aiuole) hanno addobbato un pino altissimo, con bocce di vetro che si illuminano a intermittenza, e nastri colorati. Una famiglia si è raccolta lì sotto a commentarne la meraviglia: la bambina più piccola vorrebbe arrivare a sfiorare una fronda dell’albero, ma non ce la fa.

Spingo la porta a vetri e giro subito a sinistra, verso il corridoio degli ascensori. Minaccia un cartello: “Questo è un luogo di cura: è vietato fumare!”, ma i primi a non curarsene sono proprio i dottori. Uno di loro, barbuto e pallido, svolazza nel suo camice bianco davanti a me, preme il bottone della chiamata con insistenza. Ed ecco che l’ascensore arriva, si spalancano le porte di metallo sulla faccia di una malata dal sorriso ottuso. «Sempre qui, lei, eh?» l’apostrofa il dottore, burbero ma non ostile, quasi paterno. «Sempre su e giù, come alle giostre!» Mi lancia un’occhiata di intesa, e preme il bottone del settimo piano. «Al settimo, vero?» fa alla donna, che ride e accenna di sì, batte le mani e si sfrega la fronte: è ricoverata in neurologia. Lentissimo l’ascensore parte, il dottore mi chiede dove scendo. Rispondo all’ottavo, lui annuisce e tace. Se ne escono insieme, la donna si appende al braccio che lui le offre, mi fanno gli auguri e lei ride sempre, sulla faccia le rughe di una novantenne, e avrà gli anni miei.

All’ottavo piano mi sento ormai come a casa mia, conosco infermiere e pazienti, gli arredi e i cappotti dei parenti appesi all’attaccapanni. Non so chi sia di turno stasera, sono tutti gentili e competenti, sicuri della propria professionalità. Mi saluta Luisa, tocca a lei fare la notte vicino al fratello, scambieremo due chiacchiere e un cincin al tocco. Percorro il corridoio dell’isolamento, mi tolgo le scarpe e calzo gli zoccoli riposti nell’armadietto di metallo: “scarpe parenti”. Mi avvicino alla porta della camera ventuno, mi spoglio, indosso il grembiulone verde sterilizzato, la mascherina di garza che ripari naso e bocca, i guanti di lattice.

Busso, il solito segnale a mio padre. Lui esce, e compie il rituale inverso, si toglie il camicione verde, i guanti, butta via la mascherina. «Com’è andata?» gli chiedo. «Ha trentotto e sei. Dorme sempre» risponde. «Ricordati le gocce» aggiunge dopo un poco, e prima di andarsene: «Be’, auguri se non ci vediamo prima di domani». Nient’altro perché ha paura di commuoversi. Strofino le scarpe sul tappetino magnetico, entro in camera. Da quasi un mese lei non ci riconosce, ogni tanto parla, ma dice cose senza senso. È molto sudata, ha le labbra secche. Hanno detto i dottori che dovrebbe bere in continuazione, ma ha la bocca tutta ulcerata, dobbiamo infilarle la cannuccia tra i denti, sforzarla. Sul comodino, in fila, le creme da spalmarle sulle piaghe delle mani, sui piedi, l’occorrente per la toilette. Il quaderno degli appunti, con cui noi che l’assistiamo ci comunichiamo le notizie più importanti della giornata, rispecchia i nostri diversi stili e caratteri. Mio padre scrive l’essenziale, è sempre ordinato e inappuntabile. Una sorella gli assomiglia, ma ogni tanto aggiunge esortazioni e indicazioni utili a chi legge, l’altra è minuziosa e sovrabbondante, quasi che nello scrivere ogni dettaglio riuscisse a scaricare un po’ della tensione accumulata. Io scrivo caotica e discontinua, con un’emotività che traspare nel tremolio delle lettere.

Leggo, dunque, l’andamento della giornata, poi mi sdraio sul divano a fianco del suo letto, e sto lì a occhi chiusi, ad aspettare che un suo mugolio, un lamento, un movimento più o meno volontario mi ricordi che nella stanza all’ottavo piano siamo in due, a soffrire in maniera diversa. Appena sarà finita la seconda flebo, dovrò chiamare l’infermiera per il plasma. La grande busta degli alimenti, invece, dura ventiquattr’ore, e non ha bisogno di un controllo così serrato. Bussano alla porta. Si affaccia il viso rotondo dell’inserviente della cucina. «La signora non cena neanche stasera?» «No, purtroppo». «Lascio qualcosa per lei?» «Un’arancia, magari. Ho già cenato a casa, ma senza frutta». Me la porge, poi mi chiede come va. «Così…» rispondo. «Vedrà, vedrà. Giorni brutti ne hanno tutti. Poi passano. Domani è Natale, faremo i ravioli al burro». La ringrazio. Sono tutti buoni, in questo reparto. Si fa fatica a credere agli episodi che si leggono sui giornali, di malati maltrattati o addirittura seviziati, altrove.

Torno a sedermi. Per un attimo mi sollevo la mascherina dalla bocca, e mangio uno spicchio d’arancia dopo l’altro. Lei respira pesante, ha una sbavatura di sangue all’angolo del labbro destro. Vorrei che domani si svegliasse da questo lungo letargo, ritrovasse la sua voce di sempre. Vorrei rivederla bella com’era, con i suoi capelli di prima, un miracolo per Natale. Recito mentalmente tutte le preghiere che ricordo, neanche fossero una ninnananna senza fede, per tranquillizzarmi. A guardarla da dove mi trovo, sembra completamente calva, invece i capelli stanno rispuntando, appena appena, però al tatto si sentono. Le faccio una carezza sulla testa. «Chi sei? – domanda improvvisa – Sei la mamma? Sei la mia mamma?» «No – le dico – sono tua figlia». Ma subito mi attanaglia una stretta alla gola; ho paura, non voglio che veda la nonna morta tanto tempo fa. Comincio a parlarle di tante cose, di chi ha scritto, di chi ha telefonato, delle mie bambine. Non mi sente, rimane immobile e inespressiva. Controllo la sacca dell’orina, quella del sangue, quella – gialla brillante – del cibo ridotto a minerali e vitamine varie.

Fra tre ore è mezzanotte. Ieri le ragazze di turno mi avevano detto che sarebbero passate in tutte le camere con lo spumante e il panettone. In reparto hanno preparato un alberello con tutti i regali dei pazienti per il personale. E questi sono gli unici segni che è una sera diversa dalle altre. Decido di scendere nel sotterraneo a prendermi un caffè dall’automatico. Le dico: «Esco un attimo» nel caso mi sentisse. Non risponde.

Mi devo di nuovo togliere grembiule, guanti e mascherina, infilarmi le scarpe e il giaccone, poi scendo. «Chissà se ritrovo la donna di prima, in ascensore», penso. Invece mi imbatto nel medico che ha in cura mia madre. È biondo, pallido, con un ciuffo di capelli sottili che gli ricadono sulla fronte: molto timido e discreto. «Va meglio, sa? – mi dice – Gli esami del sangue sono discreti». «Non me lo dice per rincuorarmi, perché è Natale?» Sorride. «Lo dico perché è vero. Natale c’entra solo perché mi permette di tornare a casa un po’ prima, stasera». Penso che ha scelto il lavoro più brutto e più bello del mondo; glielo dico, ma lui se ne è reso conto già da tanto.

Nel sotterraneo stanno pulendo i pavimenti, alcuni infermieri si avviano al garage. Ne saluto due che a braccetto camminano veloci verso l’esterno, felici di lasciarsi alle spalle tanta malinconia. Il caffè è fortissimo, forse cattivo, ma mi scotta felicemente lingua e palato, mi dà una sensazione intensa. Salgo di nuovo all’ottavo piano, ormai l’ospedale è deserto, sono quasi le dieci.

Dalla vetrata grande del corridoio guardo in basso, le luci delle altre stanze accese. Quanta vita e quanta morte, quanto spreco di tutto. “Com’è alto il dolore”, scrive un poeta che amo. E continua: “L’amore, com’è bestia!” Dolore, amore. In ospedale non si soffre soltanto, non si muore soltanto. Nascono bambini, iniziano nuove amicizie, si torna a vivere. Mi riavvicino all’armadietto di metallo, ripeto la vestizione di sempre. Grembiule verde, guanti, mascherina, scarpe.

Fra meno di due ore farò gli auguri a mia madre. Lei forse riuscirà ad aprire gli occhi, a dirmi «Buon Natale anche a te».

(1993)

 

In Fine dicembre, Le Onde, Chianciano Terme 2010, e in Inverni e primavere, (e-book) 2016

Su La poesia e lo Spirito, 24 dicembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

QUANDO SI FA SERA

Mi sono innamorato. Mi sono innamorato per la prima volta, adesso. A cinquantadue anni. Ero lontanissimo dal pensare che potesse accadermi una cosa del genere, così violenta, così improvvisa. Mi ha squassato dentro, stravolto le giornate, ottenebrato la mente, cancellato ogni desiderio. Perché, ovvio, il mio amore non è stato ricambiato. Mai, nemmeno per un attimo.

Allora (mi chiedo), perché esistono situazioni tanto assurde, perché si deve soffrire come ho sofferto e soffro io: per niente? Lo so, c’è gente che si uccide, per amore. Che non sopporta più di vivere sapendo di non poter sperare in un sorriso, in una carezza, nemmeno nel pensiero dell’altro (dell’altra). Non arriverei mai a questo. Non ci arriverò. E non perché mi illuda di una possibile sospensione dell’angoscia, addirittura di una guarigione; solo perché sono vigliacco, ho paura del male, del momento in cui potrei sentire molto male. Precipitando dall’alto, annegando, tagliandomi le vene, impiccandomi. Credo sia doloroso. Oddio, forse con i barbiturici mi addormenterei e basta, senza penare troppo. Ma chi me lo assicura, che il mio corpo non reagirebbe con spasimi atroci, col cuore scoppiato, il cervello incenerito?

No. Aspetterò. Aspetterò di morire come fanno tutti, insieme al mio bene non corrisposto. Che mi logorerà piano piano, mi invecchierà precocemente, facendomi cadere denti e capelli, appesantire il fiato, raggrinzire la pelle. In fondo, potrò continuare a sognarla, lei; mi basterà rivederla ogni tanto, lieve e bellissima, chiara come il suo nome.

Così era, il 21 marzo dell’anno scorso, inizio di primavera, quando mi è apparsa. Accompagnata dal direttore, era entrata nel mio ufficio con la stessa freschezza di un refolo di vento leggero e pulito in una giornata stagnante. Sorrideva.

“Questa è Chiara, la nostra nuova traduttrice dal tedesco”: con tali parole ci venne presentata. La mia segretaria, a cui stavo dettando un appunto, nel guardarla aprì leggermente le labbra in un’appena percettibile esclamazione di sorpresa. Io balzai in piedi, abbassai la testa in un ridicolo e compassato inchino di presentazione, pronunciando timorosamente il mio nome grottesco, “Romolo Del Balso”. Il direttore chiosò lusinghiero, “Il nostro valido e insostituibile responsabile dell’Ufficio stampa”. Lei mi porse la mano. Era giovane, e con voce giovane, con voce allegra disse: “Molto piacere. Avremo modo di conoscerci meglio”.

Questo fu l’inizio del mio amore, e del mio tormento. La metà dei miei anni, pensai subito. Meno della metà dei miei anni. Ma l’immagine accesa del suo viso cancellò all’istante tutto il tempo lunghissimo passato prima di incontrarla.

Infatti, cosa avevo vissuto prima di quel momento? Di cosa si era riempita la mia vita, prima di quel giorno? Di niente. Di noia, di tedio ordinato, di rassegnata accettazione degli eventi.   Tutti cancellati, dopo la sua tenera stretta di mano. Tornato alla mia scrivania, mi rimaneva tra le dita l’impressione tangibile di aver toccato la gracile delicatezza di altre dita, testimonianza concreta di una verità diversa da quella che quotidianamente verificava la mia ingombrante struttura corporea.

Adesso, passato più di un anno da quel giorno, mi chiedo: “Perché non mi hai voluto, Chiara? Perché non ti sei accorta del miracolo che hai operato entrando nella stanza? O te ne sei accorta, e ti ha spaventato scoprirmi improvvisamente graziato dalla tua grazia, guarito dal nulla?”

“Che bella ragazza”, commentò imperturbabile la mia segretaria, constatando seraficamente l’incontestabile. Rimasi annuvolato per tutta la mattina, sospeso in una bolla trasparente di stupore e insolita felicità. Rimasi annuvolato anche l’intera settimana, e quella seguente, e tutto il mese, e il mese successivo.

Mi comportavo come un ginnasiale. Gironzolavo nei corridoi dell’azienda fingendo irrimandabili faccende da sbrigare, per avere il pretesto di affacciarmi in vari uffici, nella speranza di imbattermi in lei. Prendevo l’ascensore su e giù in continuazione, immaginando un guasto improvviso che ci costringesse a una prolungata intimità, chiusi insieme nella cabina. Oppure fantasticavo che scivolasse sulle scale, e io potessi soccorrerla per primo, amorevole. Qualche occasione, insomma, con cui mettermi in luce ai suoi occhi, costringendola a provare gratitudine e ammirazione per la mia coraggiosa virilità, o per il mio lodevole acume. Sapevo di partire svantaggiato, con la pinguedine, gli occhiali spessi, l’impaccio che mi frenava in ogni contatto umano. Speravo tuttavia che la fama di cui godeva la mia vasta cultura potesse in qualche modo impressionarla, o perlomeno renderla curiosa del mio esistere.

Invece, aldilà di qualche rara frase di circostanza, non mi riuscì di parlarle fino all’estate. Fino al 14 luglio, per la precisione, presa della Bastiglia. Pausa pranzo, seduto a un tavolino esterno di un caffè poco lontano dall’azienda, avevo di fronte a me un piatto di carpaccio e un’insalata. Quando vidi proiettata sulla tovaglia un’ombra improvvisa, la voce di lei mi raggiunse prima che potessi ideare una reazione decente al suo cortese chiedere “Posso?”.

Mi alzai di scatto, e il suo nome mi rimase incastrato tra lingua e gola. “Sempre solo, sempre serio…”, continuò sorridente lei, sedendosi alla mia sinistra. “Non sono sposato”, mi ascoltai rispondere, nella maniera più insensata possibile. “Non ti ho chiesto questo”, puntualizzò senza nessuna ironia. “Già, sì, vero, giusto”, mi ingarbugliai confuso. “Nemmeno io volevo dire questo. Cioè, non so perché l’ho detto”.

Da questo imbarazzato incipit prese avvio la nostra strana, e per me esaltante, abitudine di trascorre insieme l’ora del lunch quotidiano. Parlava lei, giovane bella spiritosa. Chiara. Io mi innamoravo sempre di più.

Una volta osai chiederle in che modo si parlasse di me tra i colleghi. Rispose “Dicono che sei puntuale”. “Puntuale?”, chiesi. “Puntuale. Un modo educato per dire pignolo, pesante, noioso”. Volli approfondire. “E tu, come mi vedi?”. “Beh, come loro. Puntuale, pignolo, pesante, noioso”.

Rideva, la mia radiosa ragazza del sogno: vivace, simpatica, disinvolta, decisa. Poi, con un gesto improvviso e adolescenziale, mi arruffò i capelli sempre composti. “Falli crescere un po’. E via la cravatta, ogni tanto. Ti sei accorto che è estate?”. Illudendomi fosse il mio aspetto fisico, la mia compita eleganza a tenerla lontana dall’evidente interesse che nutrivo per lei (improbabile non se ne fosse accorta…), in pochi giorni cambiai decisamente look: abbigliamento casual, occhiali con montatura azzurra, frangetta sulla fronte. Mettendomi persino a dieta. Mi interrogava su varie questioni. Politiche, culturali, anche personali. Voleva sapere perché abitassi da solo, quante relazioni avessi avuto, come vivessi la mia sessualità. Non era indiscreta, solo molto estroversa, curiosa, sincera. Io arrancavo, sotto il peso dei miei complessi e delle mie paure, senza riuscire a porle nessuna delle domande che mi premevano in testa.

Un pomeriggio, sentendomi legittimato dalla sua affettuosa complicità, provai a stringerla con un braccio attorno alla vita, mentre attraversavamo la strada. “Che fai? Se lui ci vede dalla finestra, diventa geloso”. Lui? Lui chi? Da che finestra di quale ufficio della nostra casa editrice ci poteva spiare? Prima di entrare in portineria, mi guardò ammiccante. “Ci sposiamo in settembre, non te l’ho detto?”.

No, non me l’aveva detto, che era fidanzata con il direttore, più anziano di me, più puntuale pignolo pesante noioso di me. Sembrava che la cosa fosse di dominio pubblico da mesi. “Non lo sapevo”, confessai, mentre una montagna di disperazione mi crollava addosso.

Dopo il matrimonio, dopo il viaggio di nozze, in ottobre tornò al lavoro. Luminosa e felice. La incontrai in ascensore, sola, come nella più tormentante delle mie fantasie. “Posso continuare a pensarti?”, le chiesi a voce bassa, restituito ai miei occhiali di corno, alle cravatte eleganti, alla pettinatura inamidata.

“Perché no, Rodolfo? Sei una cara persona”, sfiorandomi la guancia con un bacio filiale, e sbagliando il mio nome.

 

«Elapsus», 22 settembre 2020

RACCONTI

SCRIVO DA UNA CASA CHE STO PER LASCIARE

Seduta al tavolo del salotto – legno scuro, disegno a scacchiera appena accennato sulla superficie – osservo la dracena dal tronco scorticato che è di nuovo arrivata, dopo l’ultima, recente potatura, a toccare il soffitto con le foglie. Altre piante, le mie piante, verdi e folte, traspirano ossigeno domestico nell’angolo della stanza, una loggetta fatta a veranda (“Erker”, la chiamano qui), luminosissima.

Scrivo da una casa che sto per lasciare.

Zypressenstrasse era stata scelta perché sfocia, da un lato, nei pressi della scuola italiana frequentata dalla nostra bambina più grande; dall’altra parte finisce, come fa supporre il suo nome, di fronte al cimitero di cui, dalle nostre finestre, si intravedono muri e cancelli: Friedhof Sihlfeld. Dire prato della pace è cosa diversa che dire camposanto. Dà l’impressione di approdo riposante, di meritata ricompensa dopo tanto faticoso arrancare. Tutto quel verde da parco privato di residenza reale, lo stagno con le anatre, i vialetti ghiaiosi, gli scoiattoli, ci avevano convinto dell’innocenza pacifica del luogo, del suo benefico offrirsi a tranquille passeggiate domenicali. Ci capitò più volte di camminare tra le cappelle di famiglia, in compagnia di qualche raro amico venuto dall’Italia; avevamo scoperto da poco, con commozione ma anche con impaurito imbarazzo, l’esistenza di una piccola figura femminile in roccia grigia, recante sul piedistallo una profetica parola in italiano: vengo… In tanti hanno scelto di riposare in questa città. Joyce, Jung, Mann i più famosi, quasi da organizzare un giro turistico per andare a trovarli.

Zypressenstrasse. Non avevamo sentito il nome della nostra strada come un’oscura minaccia. Semmai ci infastidiva che iniziasse con l’ultima lettera dell’alfabeto, la Z, così lontana dall’ariosità lucente dei nostri nomi in A. Ma per Z iniziava anche il nome della città in cui ci era capitato di vivere: Zurigo. Nome omen. Zypressen-Zurigo-Z; la fine di qualcosa, anche se per noi era stato l’inizio di tutto.

È inverno, sta per chiudersi un anno difficile. La neve ha coperto le strade quel tanto che basta a confondere le tracce, a rendere insicuri i passi, offrendo atmosfera natalizia a buon mercato. Il parco sotto casa assume contorni fiabeschi, galleggia inconsistente e irreale. Silenzioso come sempre, privo anche dei pochi bambini che durante la bella stagione lo tempestano di urla roche: ma oggi è la neve che mette la sordina a qualsiasi rumore, anche al fiato che può succedere esca dalle labbra con la consistenza di un sospiro. I passi sono come assorbiti, i gesti bloccati. Bullingerhof, si chiama questo parco. Corte severa come il signor Bullinger cui è dedicata, pastore e teologo riformista, successore di Zwingli. È molto esteso, con un prato centrale vastissimo e gli alberi centenari tutt’intorno, e montagnette artificiali, e fontane secche, e altalene immobili.

Di mattina presto (da tanto non riesco a dormire oltre le quattro), il dolore si fa sentire meno, anche il rancore sparisce. Non c’è più né bene né male, non esiste passione, di mattina presto. Mi sembra possa esserci spazio solo per lo stupore: che il tempo continui a scorrere, indifferente a noi, che abbia il coraggio di riproporsi uguale a chi non c’è più, a chi tra poco non ci sarà.

Ecco una nuova giornata, un nuovo Natale, un nuovo Capodanno. Due anni fa, ricordo, avevamo aspettato la mezzanotte del 31 mangiando pandoro (la piccola era davvero piccola, voleva ballare una danza brasiliana allora di moda), accendendo e giostrando innocui bengala. Nell’infantile desiderio di comunicare e sfogare la propria felicità, la bambina più grande aveva spalancato le finestre della sala, e si era messa a urlare: «Viele Wünsche an Alles! Schönes neues Jahr!», nel suo tedesco da italiana, a battere le mani verso le altre finestre buie, vocetta squillante nel silenzio più assoluto di una festa ignorata. Ci aveva preso, a noi genitori, un’eccitazione puerile e quasi spaventata, all’audacia di lei, e ci eravamo messi a ballare, spumeggianti, irrecuperabili al sonno altrui. Due anni fa, un secolo: ero felice senza saperlo, come accade quasi a tutti.

L’anno che verrà sarà l’anno dell’addio. Sto per lasciare Zurigo, città che ho amato più di ogni altra. Si amano i posti che ci assomigliano. E Zurigo è una città che si sorveglia, come me, ha paura di abbandonarsi: che qualcuno le dica che le vuole bene, magari che è bella. È capace solo di una malinconia accorata, senza ribellione. Sembra rassegnata a convivere col suo lago grigio, calmo e profondo, sepolcro di chissà quali segreti. Ha due fiumi, strade in salita, campanili in coppia e tram bianchi e azzurri, rumorosi, sferraglianti. Numerati dal 2 al 15: manca il numero 1, quasi ad evitare la responsabilità di un avvio.

Abbandonare una città significa abituare i propri pensieri a orientarsi con una nuova bussola, cambiare punti di riferimento. Ci vediamo alla stazione… Ti raccomando, puntuale di fronte alla Posta! Quale stazione, ora, quale posta? Vuole dire muoversi circondati da un’aria diversa, cercare altri sfondi, scenari sconosciuti per i propri gesti. Che forse rimarranno uguali, ma cambieranno proprio perché situati altrove. Zypressenstrasse certo non patirà la mia assenza, non mi ricorderà. Ma quali altri occhi la vedranno esattamente come l’ho vista io, chi le rivolgerà i miei omaggi di pensiero? Forse le mancherò senza che lei lo sappia. Da questa stanza, un’altra donna, un altro uomo, guarderanno appena fatto giorno i primi tram fermarsi sotto le finestre, raccogliere i pochi passeggeri, ripartire indifferenti. Ma non saranno me.

Sto per lasciare questo appartamento. Regalerò le mie piante, la mia dracena. Darò via quasi tutti i mobili, la camera da letto dove abbiamo concepito Silvia, il divanetto rosso complice di chilometriche telefonate, le librerie che ho montato da sola. Porterò via questo tavolo, il pianoforte, tre quadri. Come quando se ne va una persona a cui si è voluto molto bene, allora bisogna decidersi a buttare le sue cose, a eliminare i suoi vestiti. Aprire il comò delle scarpe, infilare in un sacco per la Croce Rossa gli zoccoli, i mocassini, gli stivaletti comodi per l’inverno. Poi è il turno del cassetto della biancheria, e quindi via tutto nel bidone dell’immondizia, calzini celesti e bordò, camicie a righe, canottiere vecchiotte. Poi le giacche, i maglioni, meno due o tre che si piegano e conservano in una valigia, insieme con l’ultimo pigiama indossato, con le cravatte più amate.

Le assenze cambiano le case, cambiano la vita. È giusto decidere di andarsene, anche se così si allontanano persino le ombre, che qui continuavano a muoversi, a girare, a esistere. Quanto silenzio, dopo. Quanto far finta di niente, telefono che non squilla più, amici spariti. E cattiveria improvvisa, chissà da quanto covata, che scoppia come un bubbone: sorrisi pronti a ferire, parole pronte a marchiare.

Meglio la neve, il gelo, non esserci. Mi vesto veloce, guanti, sciarpa. Il confine tra notte e giorno rimane incerto, non è più buio fitto, ma il chiarore stenta ancora a imporsi. Scendo perché la strada sia mia, la neve conservi memoria del mio passaggio.

Vorrei lasciare tracce, segnali di me che sparirò. Come sul foglio le rime: una qua, una là, a intrecciare ricami, echi incerti del già detto.

(1992)

 

In Fine Dicembre, Le Onde, Chianciano Terme 2010, in Inverni e primavere (e-book) 2016 e in Odissea, 8-12-2021

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

SE DOMANI TI ARRIVANO DEI FIORI

Se domani ti arrivano dei fiori, sappi che non li ho mandati io. Perché avrei dovuto? Per chiederti o concederti perdono, suppongo che tu pretenda. No, cara. Carezza, ti chiamavo quando ti vedevo carina. Fiori cosa e come, di quale banalpresumibile colore.  Bianco innocenza, rosso passione, giallo gelosia. Ti piacevano i tulipani screziati, memoria di un antico viaggio a Istanbul con chissà che faceto fidanzato. Tulipani turchi, non gli ovvi olandesi. Sempre stata originale, tu, anche nei flashback rievocati, più fantasiosi che reali. I primi fiori regalati al nostro secondo appuntamento (imbarazzo! non sapevo con quali gesti e parole accompagnarli, mentre ti avvicinavo spiandoti aggrottata per i miei minimi minuti di ritardo) erano invece pallidi, dolentemente mesti. Non proprio crisantemi, ma quasi. Forse già intuivo quale piega avrebbe preso il nostro rapporto. Mi hai detto, ironica, signorilmente divertita addirittura: “Che gioia!” Te li offrivo esitante, accorgendomi tardivo del loro aspetto cinereo; le corolle incurvate, grondanti acqua. Pioveva.

 

NON LI ASPETTAVO

 Non li aspettavo, non li volevo. Oppure: sì, ci speravo. Avevo preparato sul tavolo della sala un vaso vuoto. Quello cilindrico, di vetro. Allora dicevi che ti sembrava un alambicco ospedaliero.  È ancora lì, inutile, deluso, convalescente. Non sono arrivati fiori, e nemmeno un biglietto di scuse.  Neanche una telefonata: il giusto che mi dovevi. Piove. Tuttavia, anche se ci fosse il sole, non credo che me ne accorgerei, buia dentro quale sono. Rabbiosa rancorosa rognosa. Non è il fuori che si rispecchia in noi, illuminandoci-scurandoci, come si sente dire svagatamente. Siamo noi che rovesciamo brutto e bello nostro su cielo e terra altrui. Noi, minuscole deità della nostra minimezza, e presuntuose.  Per questo piove, stamattina. Per colpa mia, delle mie nuvole. Quindi, anche se improvvisamente squillasse il campanello gioioso similmente a fanfare di festa, se al citofono la voce giovane di un fattorino mi annunciasse “Fiori per lei, signora,” non mi verrebbe da sorridere ponpon. Nemmeno da tremare, primuletta. 

 

POI DOPO

Poi dopo mi hai preso sottobraccio, a riscaldarmi, quasi fossi un tuo alunno umiliato dall’ insufficienza, odiosamente meritata. “Magistra,” ti ho suggerito, “dietro la lavagna, nota sul registro. Punisci.” “Ma no,” hai risposto indulgente docente, e altera. “Una cioccolata calda nel bar lì di fronte.” In questa placida maniera iniziò. Non eri più inquieta o stizzita, non ti importavano ritardo e fiorellini mosci: avevi voglia improvvisa di ridere, parlare, stupire spalmandomi addosso una qualsiasi felicità bambina. Mi chiedevo il motivo di tanta stramba eccitazione. Fosse solo perché avevo rispettato l’impegno di rivederti, o invece già pensavi a un possibile sviluppo della storia, colla tra noi? Incredibile che da subito ti fossi piaciuto, a te bella troppo, io insipido. Sorridono così radiosi solo i contenti; tu lo eri. Fuori pioveva, attraverso le vetrine del bar striate d’acqua si vedevano persone camminare scontrose al riparo degli ombrelli, il cielo oscurarsi e abbassarsi sotto il peso di nuvole grandi. Anche quello avrei dovuto leggerlo come un presagio. Nubi. Grigio.

 

NON DEVO

 Non devo fissarmi col pensiero in, su, per: te.  Ho tanto domani vuoto da saturare, dettagli da rifinire.  Luoghi, tempi. Modi, sensi. Sei passato, il mio passato. Convincermi inflessibile che comunque svanirai, se ancora tergiversi tentatore, impietosendomi. O sono io? Chissà se sono io a temere carità benevolente. Boa da circumnavigare, per non darla vinta alle onde. Mi immagino; naufraga avvilita e adirata. Nuoto, sbatto furenti piedi e braccia, vischiosa acqua a mulinello avvolgente mi blocca, giro a vite, non procedo. Galleggio. Vorrei tornare a riva, invece ninno appena, mi cullo amnio tiepido, faccio il morto. Fingo immobile resistenza, ottima strategia per chi teme l’abisso. Tragico infatti se annegassi, se imprevedibile una tempesta procellosa mi investisse crudele, gonfiandomi salmastra polmoni e viscere, annodandomi i capelli, pelle lisa e squamosa (oh agonia, e io da sola!) Passerà forse una zattera, lontana, all’orizzonte; scialuppa generosa di soccorso; almeno un faro a indicarmi l’approdo. Luce guida, luce duce, luce. So aspettare.   

 

 

SE DOMANI TI ARRIVANO DEI FIORI, GIOVANE HOLDEN EDIZIONI, VIAREGGIO 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

SETTE ANNI

Sette anni! E nel mese in cui ha inizio l’estate. Il sette le era sempre piaciuto, da quando aveva cominciato a scrivere i numeri. Così diverso dagli altri, con una breve testa orizzontale, una gamba obliqua, e quel taglietto a metà che lo rendeva unico. Sette come i giorni dal lunedì alla domenica, sette come le note. E ancora non sapeva nulla della magia filosofica che l’avrebbe affascinata da grande: la perfezione secondo i Pitagorici, il simbolismo dell’Apocalisse, i misteri dell’ebraismo. Era solo molto contenta di compiere, quel giorno, sette anni. E già svegliandosi, la mattina (alle sette!) aveva intuito che la giornata sarebbe stata speciale, diversa anche dai pochi compleanni passati. Qualcosa, insomma, rimaneva sospesa nei suoi pensieri, nelle attese, nell’aria luccicante di fuori. Come una sorpresa inaspettata, rivelatrice, misteriosa. Tutto questo non le era chiaro come sarebbe invece diventato nel ricordo futuro: quando, cresciuta, avesse ripensato a quel giorno. Ma ogni cosa, comunque, assumeva una dimensione inconsueta, un significato particolare. L’abbraccio beneaugurante e affettuoso della mamma, la carezza frettolosa e impacciata del papà severo sui suoi capelli, le tirate ai lobi delle orecchie delle due sorelle: un po’ troppo incisive, a dire la verità, e divertite, nel gesto della minore.

Da subito, comunque, proprio da subito, tutto intorno a lei cominciò ad animarsi di una strana diversità. Perché, ad esempio, lavandosi le mani e la faccia, la saponetta bianca e profumata, scartata dall’involucro il giorno prima, continuava a scivolarle dalle dita, guizzando nel lavandino e sotto il getto d’acqua del rubinetto, e finendo addirittura sul pavimento, in uno slancio imprevedibile di oggetto che decisamente non volesse lasciarsi afferrare, tenere fermo? Perché, durante la colazione, i biscotti preferiti non si scioglievano immediatamente nel latte, come le altre mattine, e rimanevano a galleggiare, pacifici e troneggianti, sulla bianca superficie appena scalfita dalla loro presenza? O ancora perché il grembiulino azzurro che la mamma le porgeva da indossare affinché non si sporcasse nei giochi non voleva assolutamente sbrogliarsi nelle maniche, che si opponevano con testardaggine a lasciarsi penetrare dalle sue braccia? La bambina osservava con meraviglia, e rifletteva. Era lei insolita, quella mattina insolita del suo compleanno, o era inspiegabile il mondo minimo che le si muoveva intorno?

«E i regali?» chiese alla mamma, prima di correre sulla terrazza, a giocare con la sorella più piccola, mentre la grande rimaneva in casa, a leggere, ad ascoltare i suoi dischi: troppo grande per i loro divertimenti infantili. «Quelli a pranzo, con la torta!», e subito indaffarata a mettere ordine, a rifare i letti, a sparecchiare la tavola della colazione. Le sapeva tranquille, le sue bambine, sicura che mai potessero correre pericoli o patire qualche sofferenza pungente. Semmai, le dava qualche apprensione proprio lei, la bambina di mezzo, perché le sembrava sorridesse poco, stesse troppo sola a pensare, con un’immaginazione eccessivamente fervida. Immersa in chissà quali fantasticherie di chissà quali universi lontani. Ne aveva parlato anche con il medico di famiglia, che l’aveva rassicurata: «Crescerà, crescerà… Ne ha di tempo per svegliarsi, per rincorrere la vita di tutti!». Eppure la mamma temeva un po’ che alla sua età la secondogenita stesse per tanto tempo sulla stessa pagina dello stesso libro: a pensare che? a immaginare cosa? E perché turbarsi così per qualsiasi osservazione, velato rimprovero, improvviso alzarsi della voce, anche quando non era diretto a lei? Troppo sensibile, troppo emotiva! Le avevano dovuto addirittura cambiare scuola, mandarla in città, nell’ambiente ovattato di un istituto di suore, e raccomandarla, alla maestra, alla superiora… È che a volte inventava delle storie, vedeva cose che non esistevano, e ne parlava con eccitazione, provocando sorrisini di compatimento o divertiti in chi l’ascoltava, irritazione nel papà, timore nell’animo materno. Ma quella giornata sarebbe trascorsa serena, si augurava la mamma, tra candeline, battimani, visite di zii e cugini. Le due sorelline si spingevano a vicenda sull’imponente altalena di metallo, verniciata di verde smeraldo, che il papà aveva fatto costruire solida in fabbrica: lo stabilimento che si allargava a fianco del loro appartamento, offerto in dotazione al dirigente. Appartamento grande, con una stanza tutta per i giochi, e due terrazze contigue, da percorrere in monopattino o con gli schettini, separate da un cancelletto cigolante: una adornata di enormi vasi colorati di ortensie (ma potevano esistere fiori blu, quasi viola, così diversi nel colore dai fiori dei prati?), e l’altra pressoché proibita perché lì si stendevano le lenzuola, bianche, svolazzanti come le nuvole, gonfie come le vele nel mare. Ma magari, di nascosto, ci si poteva giocare se nessuno vedeva, se nessuno sgridava, e camuffarcisi come fantasmi.

La bambina che compiva quel giorno sette anni non vedeva l’ora che arrivasse il mezzogiorno, che suonasse intrepida la sirena che segnava la pausa agli operai. E allora il papà tornava, saliva le scale saltando i gradini a due a due, con la sua cartella nera sotto il braccio: perché anche a casa e nel tempo libero doveva controllare carte e conti. Eccoli dunque tutti e sei intorno alla tavola apparecchiata, in sei perché della famiglia faceva parte anche una fedele donna di servizio, che rimaneva con loro persino a dormire, e aiutava la mamma sempre, a pulire il pulito, a controllare l’ordine ordinato. «Auguri auguri!», e baci e carezze, la canzone intonata insieme, le pietanze preferite preparate proprio in onore alla festeggiata. Risotto giallo, cotoletta alla milanese, fragole con una spruzzata di panna, e la tanto desiderata torta di mele. Addirittura, per finire, un goccio di vino bianco frizzante. La bambina aveva le guance rosate, e tremava un po’ nello spegnere le candeline. Troppa attenzione a lei, troppi occhi e pensieri per lei. E all’improvviso le passò un’idea, un’ombra nella mente, come un’intuizione malinconica da persona adulta. «Finirà tutto: questo momento, la torta, il compleanno, i sette anni…».  Un attimo, e il sorriso che si spegne, e la mamma che si preoccupa e indaga: «Cos’hai? È successo qualcosa? Non ti senti bene?». «No, no», con la voce turbata, ma desiderosa di non preoccupare. «Mi è venuto da pensare che dopo i sette anni verranno gli otto, i dieci, e poi i venti. Io diventerò vecchia, e anche voi». Intuizione improvvisa e dolorosa di una sovrumana ingiustizia, di un beffardo destino comune a cose e persone, e quindi persino a lei. Perché, perché?

Intorno sorrisi consolatori, frasi canzonatorie: «Che sciocchezze, che discorsi! Apri i regali!», e quindi una nuova emozione e la prima grande sorpresa: un tubetto di maionese Kraft, tutto per lei sola, da succhiare senza essere sgridata, assolutamente suo da far durare nei giorni… Poi il regalo delle sorelle: occhiali da sole con lenti marrone scuro e una montatura di plastica rossa, in un astuccio di finta pelle rossa, con un bottone rosso nel mezzo. La gioia di provarli subito e di metterli sul naso, intuendo all’istante ogni cosa in un’ombra fresca che annullava i contorni: sentirsi grande come i grandi, come i genitori che i loro occhiali da sole li portavano sempre, d’estate, in vacanza, o camminando in città. E il regalo della Maria, un libro illustrato sulla vita in fattoria. Ormai aveva imparato che non tutti i libri iniziavano con la fatidica frase “C’era una volta”, dopo che con stupore e rabbia aveva scoperto in un volume intitolato Il piccolo lord che l’avvio poteva prendere spunto da qualsiasi altra affermazione; avendo cercato inutilmente se le pagine fossero state incollate male, se ne era lamentata seria e stizzita con la mamma, con la maestra. Adesso era grande, aveva sette anni, forse in futuro avrebbe studiato per diventare pittrice, o scrittrice di storie, o insegnante, o missionaria in Africa. Infine, due regali di mamma e papà, da scartare con emozione particolare: perché li sapeva meditati a lungo, pensati proprio per darle gioia. E infatti nel primo trovò una scatola di matite Caran D’Ache, quelle famose e costose, che se le imbevi in un po’ di saliva dipingono come gli acquerelli. Nell’altro un librone da colorare, con disegni iniziati da completare, altri da inventare del tutto, altri ancora già finiti, da ammirare e imitare. «Grazie grazie!». La bambina era confusa, non sapeva cosa dire e fare, se baciare tutti o se nascondersi da qualche parte.

«E non è finita qui! Oggi pomeriggio verranno le zie, i cugini, con altri regali. E mangeremo altre paste!». «Oggi pomeriggio?» ripose la bambina trasognata. «Non posso. Ho un impegno». Loro sorridevano: «Un impegno? Cos’hai da fare? Sei in vacanza! È il tuo compleanno!». La bambina sentiva di essere sul punto di fare una rivelazione, di dire qualcosa di cui era certa e ignara allo stesso tempo, qualcosa che lei sapeva che sarebbe successo, ma senza che nessuno gliel’ avesse predetto: «Viene a trovarmi una mia amica. Una mia compagna di scuola».  La mamma pensierosa e sorpresa la interrogava: «Come mai? L’hai invitata tu? E chi è?»  La bambina tentennava, incerta se spiegare a se stessa e a tutti, o lasciare perdere. «Non so chi è. Abita lontano da qui. Non so bene perché viene, non me lo ha detto. Però so che verrà». «Altre storie! Fantasie! Come fai a sapere una cosa che non esiste se non nella tua testa?» Papà sorrideva, più divertito che impressionato. La bambina rispose piano «Lo so», alzandosi dalla sedia e ripiegando il tovagliolo, e dentro di sé ripeteva «Vedrete, vedrete».

«Lei ha un’amica immaginaria!», la canzonava la sorella più piccola. «Parla sempre con la sua amica immaginaria!». Era vero, succede a molti piccoli, di inventare presenze ombra, sostegni rinfrancanti. Pochi anni prima, si era creata addirittura una nuova identità, un nuovo nome, e pretendeva di essere chiamata così, di non essere ciò che era. Ma adesso no, non era una stramberia, un’idea balzana, quella che le occupava la mente: era una certezza. Sarebbe venuta una sua amica, portata lì da un caso sconosciuto, da una misteriosa necessità, non per farle gli auguri, ma solo per esserci, e per suggerirle che nella mente di ognuno c’ è spazio per passato e futuro, speranze e sogni, invenzioni e previsioni. Per cui la bambina festeggiata si apprestò a un pomeriggio di attesa, seduta sul muretto davanti all’entrata della fabbrica, appoggiata con la schiena alla rete arrugginita che separava il lungo stradone asfaltato dal deposito delle biciclette e delle moto degli operai. Si era portata giù il libro da dipingere e la scatola dei colori, e tranquillamente colorava le case e gli alberi, i cieli e le sagome umane che riempivano quelle pagine. Ogni tanto lanciava uno sguardo allo stradone deserto, ma senza nessuna apprensione, certa che a un dato momento qualcosa sarebbe apparso, in lontananza, a rassicurarla, a salvare la sua attesa. «È arrivata?» si affacciava la mamma a guardarla dalla finestra in alto, e le faceva ciao con la mano. «Non ancora, non ancora», rispondeva la sorellina. «Ma lei aspetta. Aspetta e spera!».

Il sole si faceva più caldo, erano ormai le quattro. Quasi l’ora della merenda con i cugini. La sorella maggiore venne a sedersi vicino a lei. «Come si chiama questa tua amica che dovrebbe venire?» «Non lo so bene, ma credo sia l’Annalisa. Ma così, è una mia idea». «Un presentimento?» «Sì, un presentimento». «Te l’ha promesso? Di venire per il tuo compleanno?» «No, non lo sa nemmeno. Però io penso che verrà». Nessun altro intorno a lei ci credeva, e lei guardava la strada in fondo, senza nessuna curiosità, senza impazienza, senza esitazioni. Ed ecco che improvviso sbucò da sinistra un camioncino ballonzolante, grigio, grande come quello del fruttivendolo, ma senza nessuna merce a carico. Avanzava piano, come se chi guidava cercasse un indirizzo. Si accostò alla siepe, di fronte al palazzo più vicino alla fabbrica.

La bambina, alzandosi dal muretto, prese a camminare in direzione del veicolo. Con tranquillità, sicura di sé. Si aprì la portiera del conducente, e ne uscì un uomo corpulento, con i baffi neri e un cappello in testa. Si aprì anche la portiera del passeggero, e ne saltò fuori una ragazzina con un vestitino giallo a fiori. Alzò il braccio in un saluto allegro: «Ciao, ciao!». Era Annalisa. La bambina che compiva sette anni le si avvicinò piano. «Lo sapevo», le disse.

 

In Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

SUL PONTILE, NELL’ACQUA

Il ragazzo si sistema la camicia che, sulla schiena, gli esce dalle braghe a quadroni, lunghe al ginocchio, ampie che passi bene l’aria tra tela e pelle. «Mattiniero, eh?» gli urla uno dalla porta di un bar, facendogli un cenno con la mano, e lui non capisce bene se solidale o di quasi rimprovero. «Se voglio prendere qualcosa…» sorride il ragazzo, ma stretto, a disagio per il solo fatto di essere stato interpellato, e continua a camminare, strisciandosi dietro nelle ciabatte di gomma i piedi magri e scuri che chissà quando finiranno di crescere. La sua canna preziosa gli sta a fianco lucida, lunga, elastica. Lui la sa fedele e ubbidiente come un cane lupo, pronta a lanciarsi e a tornare indietro a comando, prolungamento del suo braccio destro; oscilla al suo minimo muoversi, sta immobile al suo bloccarsi.

«Ehi, Mario!», lo saluta un giovane che fa l’animatore in parrocchia: ha gli occhiali, i foruncoli, i capelli già radi e un po’ unti. «Non c’eri, ieri sera? Non ti ho visto…». Non risponde, alza solo una spalla. Le parole lo disturbano. Meglio il silenzio, lo sciacquio discreto del suo lago, che non dà fastidio e si limita a esserci, senza imporsi. «Ciao, Mario!» insiste quello, missionario convinto di dover convertire anche chi sta bene così com’è.

Mario si irrita del suo nome in bocca a chi non gli piace, suo nome tanto comune e fuori moda, ma insieme così suo, di lui, proprio: «Mario sono io», pensa, e in questo modo può chiamarlo solo chi lo conosce bene davvero. Sua madre, per esempio, la sua sorellina. Nemmeno suo padre, che infatti non lo chiama mai.

La banchina del porticciolo è ancora in ombra, e Mario la attraversa senza fretta, gli occhi puntati lontano, alla linea marcata che separa il cielo dal lago, alla sponda opposta, nitidamente visibile nei suoi contorni. Nessuna foschia, quella mattina, si frappone tra lo sguardo e i colori tersi, puliti come al momento della loro creazione, di ciò che lo circonda. L’azzurro che in diverse sfumature riempie di sé l’aria; il verde argentato degli ulivi; il verde più chiaro e allegro dell’erba dei giardini qua e là interrotto dai rossi e rosa e bianchi improvvisi di fiori nelle aiuole; il verde scuro degli abeti sul promontorio che incombe dall’alto. Nel porto, tante barche dondolano una accanto all’altra, urtandosi di quando in quando, appoggiandosi ai loro nomi che rivelano le diverse indoli e ideologie dei loro padroni: a Mario viene da sorridere leggendo “La gazza ladra”, “Marietta monta in gondola”, “Primo maggio” e addirittura “Pensa per te”, proprio in un paese come quello, dove nessuno si fa i fatti suoi.

Di faccia al porto si apre la piazzetta, occupata quasi del tutto dai tavolini e dalle sedie dei bar più eleganti. C’è anche la pedana per l’orchestrina che si esibisce tutte le sere, sottofondo ai pettegolezzi del dopocena e alle sbornie rumorose dei turisti. Una donna svuota i portacenere, scopa per terra trascinandosi sulle gambe gonfie; è bassa, grassa, stufa di vivere. Mario certe volte crede di non essere del tutto normale, perché non gli piacciono le donne: quelle brutte e volgari, per essere più precisi, e quelle svampite. Ce n’è una che gli blocca il respiro, al liceo, perché è diversa da tutte. Ride poco, si morde le dita, e forse nasconde un segreto. Ma non lo guarda mai, e poi fra un anno lascerà la scuola. Però Mario la pensa; di notte la pensa troppo, e anche quando pesca. Infastidito dalla visione della ciabattona, il ragazzo accelera il passo, e supera la piazzetta, dirigendosi deciso al secondo pontile, ormai quasi fuori dal paese.

Non vede nessuno, per fortuna, nel posto che da sempre considera suo, e che a volte pescatori non del luogo gli occupano abusivamente. Percorre il pontile con lentezza: sa quale asse di legno scricchiola, sa dove può inciampare in un chiodo che sporge arrugginito. Si pianta a gambe larghe in cima al ponte, appoggia vicino a sé la cassetta con gli ami e le esche, allunga la canna sbrogliando il filo che si è ingarbugliato. La canna è nuovissima, gliel’hanno regalata per la promozione inattesa i suoi genitori: e Mario la soppesa, la valuta nel prezzo e nelle doti incomparabili che senz’altro possiede. Fa due tre lanci lontani, così, solo per prova o esercizio, poi infilza l’esca nell’amo e lo getta nell’acqua, bocconcino invitante per qualche lavarello ancora assonnato. Mario è capace di starsene immobile per molto tempo, quasi sempre in piedi e assorto in pensieri vaghi, in fantasie allucinate.

È uno sport da uomini questo, gente capace di stare zitta, indifferente a tutto ciò che non sia acqua, e movimenti lenti, e guizzi di pesci improvvisi. Mario è contento di essere maschio e di non avere bisogno di parole. A volte le labbra gli si atteggiano da sole a fischio, o a cantilena modulata su poche note in fila: però lui blocca subito ogni emissione di fiato che possa parergli superflua, irrispettosa del silenzio che ha intorno. Se non fosse tanto insensibile alla dimensione religiosa, gli piacerebbe da grande entrare in un convento, in un eremo: proprio perché lì si tace, e si sta più vicini a colui che Mario immagina il Taciturno per eccellenza. Tra i pochi ricordi che gli sono rimasti del catechismo infantile, due versetti di Matteo gli tornano spesso alla mente: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”, e ancora: “Vi dico che di ogni parola vana gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio”. Giusto. Rendere conto di ogni parola inutile. Giusto.

Anche Gesù amava il lago, e aveva scelto i suoi apostoli soprattutto tra i pescatori. E se gli fosse capitato, a Mario, di nascere in un’altra epoca: duemila anni fa, discepolo di Cristo; o nel medioevo, oppure nel secolo scorso? Tutto gli sarebbe andato bene, purché sulla riva di un lago. Il ragazzo sente di appartenere al panorama, come alcuni particolari appartengono alle cartoline e guai se non ci fossero: quelle cartoline non sarebbero più le stesse. Così Mario è indispensabile al suo lago, che senza di lui sarebbe diverso, guardato pensato amato diversamente.

Ecco che il galleggiante oscilla piano, poi viene strattonato verso il basso. Mario agguanta con più forza la canna, alzandola a strappi brevi e decisi verso di sé; poi afferra il mulinello, arrotola il filo con sicurezza. E il pesce balza fuori dall’acqua, sventola nell’aria come una bandiera, si agita. Venti centimetri di paura e disperazione. Il ragazzo non riesca ad abituarsi all’agonia delle sue prede. Vede che soffrono, e un po’ selvaggiamente ne gode, anche. Sa di essere padrone della loro vita e della loro morte, e sempre decide di lasciarli finire così, per asfissia, che si dibattano pure sulle assi di legno, torcendosi tutti, boccheggiando come fa questo, adesso. Mario lo guarda, si siede vicino a lui per osservarlo meglio.

«Sei finito, amico» gli sussurra, poi beve dalla bottiglia di acqua minerale che si è portato dietro, a sorsate lunghe, calme. E infatti la tinca finisce, dopo qualche altro sussulto rassegnato. Il ragazzo la butta nel suo cestino, primo trofeo di una giornata che si annuncia felice. Rimane seduto ancora un po’, a fare compagnia al morto, e si pone tante domande stupide, per esempio chissà se i pesci si chiamano mentalmente con dei nomi, come noi; o se hanno delle regole sociali da rispettare – orari, doveri, tabù -, e in questo caso come reagirà la madre del pesce in questione, non vedendolo tornare, e quanto andrà in giro a chiamarlo, con quale nomignolo ittico. A Mario piacerebbe possedere un’enciclopedia del pesce, o qualcosa del genere: ne leggerebbe tre pagine ogni sera, e diventerebbe così un esperto, tanto da poter laurearsi in ittiologia senza troppa fatica.

Il sole è già sbucato fuori dalle acque, violento di una luce arancione, ma perfettamente nitido nei suoi contorni, e tranquillamente osservabile senza occhiali scuri, senza farsi schermo agli occhi con le mani. E’ tempo di rimettersi al lavoro. Il ragazzo si alza in piedi, di nuovo sceglie un’esca e la infilza sull’amo, di nuovo lancia il galleggiante il più lontano possibile. Poi si dispone ad aspettare, con pazienza infinita. Questa volta, però, l’attesa è meno lunga, e la sorpresa più gradita. È stato un persico, ad abboccare, e Mario se lo cova con lo sguardo, lo tramortisce sbatacchiandolo sul pontile, dopo avergli quasi strappato l’amo ben conficcato nella bocca. Un fischio d’ammirazione lo coglie alle spalle, e lo fa voltare sorridente. Sa già chi può essere che ammira così la sua pesca: il vecchio Adolfo, che come ogni mattina l’ha raggiunto e gli farà compagnia fino a mezzogiorno. In dialetto, con la sua voce catarrosa da gran fumatore, gli chiede notizie su com’è andata, e Mario lo informa, scarno e preciso. Il vecchio scuote la testa, implora su di sé la stessa fortuna del suo giovane amico, e poi si allontana di una decina di metri, voltandogli le spalle e armeggiando con la sua canna.

Adolfo in settant’anni di vita non è quasi mai uscito dal paese: per il militare, e poi per un viaggio a Roma e uno a Venezia; qualche rara volta è stato in città, ma non gli piace. Invece il paese lo conosce a memoria, storia usi e tradizioni. Segue tutti i funerali, commenta ogni matrimonio: sa degli amori e delle corna di tutti. A cenni brevi, misteriosi, ne rende erudito anche Mario, che ride e alza le spalle, ma poi gli chiede il seguito. E il vecchio racconta; solo nelle pause della merenda, altrimenti sta zitto. È stato lui a insegnare a Mario la bellezza del silenzio. Così adesso tacciono tutti e due, offrendosi la schiena, ma consapevoli della loro reciproca presenza.

«È importante avere un amico», pensa Mario, che vuole bene ad Adolfo e si fida di lui ciecamente, gli domanda degli ami e delle esche, del tempo che farà il giorno dopo. Il vecchio ha una strana faccia, fronte bassa, capelli bianchi e radi, sopracciglia bianche e folte. Ha le gambe storte, e cammina un po’ come una scimmia, riconoscibilissimo già da lontano. Adolfo e Mario pescano, insieme ascoltano lo sciacquio del lago: a volte i loro pensieri si rincorrono. «Guarda che il lago è mio – scherza uno dei due; e l’altro gli ribatte – È mio, invece, è mio».

Improvvisamente poi il sussulto esaltato del vecchio, e il suo grido gioioso: «E questo pesce è mio!», mentre tira su dall’acqua una tinca brunita, lunga e asciutta. Mario sorride, non è invidioso: sono due a uno, e adesso comincia il bello della gara. Di solito vince Adolfo, è una vita che pesca; però è capitato che il ragazzo sia riuscito a surclassarlo. Raramente, ma è successo. Passano due ore così, il vecchio e Mario, e intanto il sole si fa più caldo, il paese si anima, molti curiosi si fermano dietro di loro a commentare la pesca, a tormentarli di battute sempre uguali. I due amici sono scocciati, ce l’hanno col mondo che si permette di esistere e di infastidire loro, i pesci, il lago. Anche quest’ultimo reagisce, si agita, schiumeggia a ogni tuffo, a ogni virata di gommone o motoscafo; non è più lo stesso di prima.

Ecco che arriva una coppia giovane di tedeschi, biondissimi, sbrindellati, e si mette in mezzo a loro. Dieci metri ci sono tra Mario e Adolfo, e questi due si piazzano proprio tra di loro: stendono per terra gli asciugamani, appoggiano un borsone a righe bianche e blu, e due bottiglie di birra già iniziate. All’interno dei dieci metri che dividono Adolfo da Mario. Poi inizia il rito della svestizione: lei sbottona la camicia di lui, lui sfila gli shorts a lei. Si sbaciucchiano. Mario li guarda con la coda dell’occhio, irrigidito. Si volta verso il vecchio, che ricambia lo sguardo sornione. «Proprio qui dovevano venire…», pensa il ragazzo, e stringe con tanta forza la canna che i tendini del polso gli si evidenziano in rilievo.

I due turisti cominciano a spalmarsi di crema abbronzante, e un odore dolciastro rimane sospeso tra aria e acqua, fastidioso. La ragazza squittisce a ogni carezza eccessiva di lui, finge di arrabbiarsi, gli dà schiaffetti leggeri sulle mani. Poi si volta a pancia in giù, e il suo amore le increma la schiena,con movimenti tranquilli e regolari, suggerendole parole dolci, che la fanno sorridere. Le si stende vicino, ogni tanto le accarezza i capelli, e restano a prendere il sole uno accanto all’altra, buoni come due bambini. «Se rimanessero così fino a mezzogiorno», pensa Mario che ha già preso una decina di pesci, e vorrebbe almeno raddoppiare entro sera. Ma lei dopo un po’ si gira supina, e lui la imita; parlottano e ridono fitti, poi lui beve mezza birra, lei sfila dal borsone una radiolina e la sintonizza su un programma di musica da discoteca, a volume non eccessivo, ma sufficientemente alto da disturbare i pensieri dei pescatori, il guizzare in superficie dei pesci. Adolfo bestemmia, a voce bassa, ma Mario intuisce benissimo la sua irritazione: vede che armeggia intorno alla canna, e lo sente avvicinarsi.

«Tientelo, il lago. È tutto tuo, oggi». Ha i lineamenti irritati, il vecchio, la voce stizzita. «Io resto. Si stancheranno prima loro» risponde Mario. «No, caro mio. Si stancheranno prima i pesci…». Adolfo gli allunga una manata sulla spalla e si allontana dondolando sulle sue gambe storte.Mario resiste, radio e abbronzante non sembrandogli un motivo sufficiente per fargli rinunciare al suo impegno, verso se stesso e verso il lago.

La musica però lo distrae, e anche i movimenti ritmici che la ragazza accenna col busto, muovendo le mani nell’aria, schioccando le dita. È carina, questo Mario deve riconoscerlo. Ha lineamenti fini, occhi e capelli così chiari da sembrare dipinti. Gli pare di aver capito che si chiami Sophie; non che gli interessi, a Mario, ma è un nome che le sta bene. Lui invece, il tedesco, è alquanto volgare, con le sue spalle da bodybuilding, la catena d’oro al collo, il costume attillato. Sicuramente guiderà una moto d’alta cilindrata. Del nome di lui, a Mario non importa proprio niente. Gli sembra che lo stiano guardando, e sorridano. Si irrigidisce ancora di più, appeso alla sua canna come a una scialuppa di salvataggio. Fissa gli occhi sull’orizzonte, all’acqua che manda riflessi dorati, e il cielo sembra il lago, e viceversa: confusi uno nell’altro, fusi.

Alle sue spalle, i due sghignazzano nella loro gutturale lingua, incomprensibili ma chiarissimi nel desiderio di sfottere, e ferire. Poi, come un lampo, Mario li vede alzarsi in piedi, prendere una breve rincorsa e tuffarsi, allegri e rumorosi, proprio vicino al suo galleggiante. Quando riemerge dall’acqua, Sophie gli rivolge un sorriso di sfida, che tuttavia non lo offende perché, mio Dio, è così bella, così bella!

Mario è muto, immobile, incantato, con la sua inutile canna da pesca, monumento di inerzia di fronte alla vivacità. Si sente vecchio, incapace di vivere: e lei, invece, come sembra a suo agio in ogni elemento, come domina l’aria, l’acqua. Ecco che si mette a nuotare, a bracciate eleganti, sicure; poi si volta sul dorso, sbatacchia un po’ i piedi, chiama «Klaus! Klaus!», e il tedesco la raggiunge veloce, le sputa addosso l’acqua di cui si è riempito la bocca, e lei protesta, fa versacci. Tra una nuotata e l’altra si abbracciano, si spruzzano, lei sale sulle spalle di lui e poi si tuffa di lì, e a ogni esibizione controlla se Mario per caso la stia guardando, e Mario allora gira subito gli occhi da un’altra parte.

Ma il lago, il lago non protesta di fronte a tanto spreco di energia, alla goduria esibita di quei due che vengono da lontano, e la fanno da padroni? Certo si sentirà offeso nella sua silenziosa sacralità, violato nella sua nobile serenità, e il ragazzo che pesca gli dà ragione. I due si avvicinano al pontile, si vede che sono stanchi, salgono la scaletta rabbrividendo e si precipitano poi ad asciugarsi con movimenti frenetici.

Mario pensa che ormai sarebbe opportuno per lui rinunciare, mettere via gli attrezzi, perché i pesci, spaventati e resi più cauti da tutto quel  movimento e rumore, certo non abboccheranno più. Tuttavia qualcosa lo trattiene lì, e lui non sa bene cosa. Forse la voce allegra di Sophie, la sue risatine stupide; forse la speranza che lei di nuovo lo guardi. È chiaro che fa l’oca, lo vuole provocare; ma Mario non ci sta a questo gioco, non gli è mai piaciuto. Solo, vorrebbe tanto riuscire a pescare un lavarello, di quelli grossi, e mostrarglielo come un trofeo, a lei e al suo uomo, magari regalarglielo come ricordo del lago.

Fa molto caldo, ormai; decide di togliersi la camicia, anche se si vergogna un po’ della gracilità delle sue spalle. Spogliandosi, osserva i due tedeschi a pochi passi da lui, di nuovo sdraiati bocconi, di nuovo intenti in tenerezze reciproche. Sophie si è tolta il reggiseno e la pelle arrossata rivela i segni delle spalline, il suo compagno è peloso anche sulla schiena. Mario non ama, a differenza dei suoi coetanei, la nudità esibita dei corpi. Neanche quella delle anime, a dire il vero. Preferisce la discrezione nella figura e nei discorsi, e tenersi lontano da ogni volgarità. Per questo guarda il dorso indifeso e scottato della ragazza con una curiosità infastidita di se stessa, ben deciso a non lasciarsene turbare. Però se lei si solleva improvvisa sui gomiti, e lo fissa, così, bionda e sirena, Eva e Beatrice, ecco che Mario non è più lui, e la canna gli scivola via dalle mani, e si volta deciso a cercare salvezza nell’azzurro purissimo del lago: il suo tuffo di testa è perfetto, le sue bracciate vigorose e impazienti.

Battere l’acqua, colpirla, punirla; cancellare dai pensieri Sophie impudica e bellissima; non concedersi tregua, vincersi. Mario nuota, si allontana dalla riva, al largo, via da tutto.

«È mio, il lago. È mio», pensa.

 

Lietocolle, Faloppio 1998 e in Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018

 

RACCONTI

TANGO DELLA GELOSIA

Ricordo tutto di quella mattina. Già che l’ho dovuto ripetere tante volte, e poi me lo sono rivisto nella mente come fosse stato un film al rallentatore. Mi ricordo anche i miei pensieri, quello che era accaduto prima; tutto, insomma, fino a quando Gelmo è caduto e la musica suonava suonava, e mi sono messa a urlare.

Noi apriamo alle sei e mezzo, perché molti prendono la metro prima delle sette, impiegate, infermieri, chissà che turni fanno.
E allora devono bersi il caffè, gustarsi la brioche fresca. Io ero lì come sempre, più addormentata del solito perché non avevo riposato abbastanza. La notte c’era stato tutto quel fracasso per la partita, i tedeschi avevano spaccato le vetrine in centro e i nostri coi caroselli di macchine, i clacson, le bandiere, proprio una provocazione. Con quel caldo e tutte le birre in corpo. Bestie, sono bestie, i tifosi. Mi ero portata dietro Gelmo perché non stesse in strada, magari scendeva con la metro fino al Duomo; lui non si rende conto dei pericoli, mi dicevo, può capitargli qualcosa di brutto; meglio portarlo con me al bar. Ed ero lì con lo straccio in mano che lucidavo il bancone, ancora non si era visto nessun cliente. Avevo acceso la macchina del caffè, svuotati i portacenere della sera prima.

A Gelmo gli avevo dato la scopa, non che mi aiutasse molto, poverino. Puliva sempre lo stesso punto, ripeteva: “Qui c’è sporco, mamma, qui c’è sporco”. Era ossessionato dalla polvere. E pensare che mio marito gli aveva voluto dare quel nome importante, da re, da generale, perché diceva che nostro figlio sarebbe diventato qualcuno. Guglielmo. Poi, quando l’abbiamo visto che cresceva così, abbiamo cominciato a chiamarlo Gelmo. A volte anche Gelmetto: i clienti, per sfotterlo, perché lui era un omone alto uno e novanta; non ha preso da me, se non la bocca e quei riccioloni castani. Un armadio, pareva, con la scopa in mano e il suo grembiule bianco candido allacciato in cintura. Me lo rivedo davanti così; che faceva “mmm” dietro alle canzoni della radio. Aveva orecchio per la musica, ma non ricordava mai le parole: allora mugolava, tutto contento come un bambino.

Io me lo guardavo mentre lucidavo il banco; è incredibile come sia difficile far sparire il cerchio lasciato dal fondo dei bicchieri sull’alluminio, ci vuole a volte un acido e tanto olio di gomito perché non rimanga l’alone. “Gelmo”, gli faccio, “ce lo beviamo un caffettino?” Lui sorrideva e scuoteva il suo testone, e io lo sapevo già da prima, glielo avevo chiesto tanto per ridere, ma lui il caffè non l’ha mai amato. Diceva che gli amareggiava la lingua. Certe volte era spiritoso senza volerlo, aveva delle trovate, non se l’era mai cavata bene con l’italiano. Le elementari sì, le aveva finite giuste, in cinque anni con l’insegnante di sostegno, una maestra così brava… Ma poi alle medie era stato un disastro, non si capiva coi professori, ha ripetuto ogni classe due volte. E si è andato chiudendo, sentiva l’umiliazione di stare sui banchi coi ragazzini, lui che era già un uomo fatto. Stava zitto per ore, sorrideva al vuoto.

Non è mai stato violento, Gelmo, mai, mai. Chissà, però, cosa aveva dentro quando cercava la polvere nei raggi di sole, e diceva di volere “tutto pulito, tutto pulito”. È successo dopo il giornale radio. Sono sicura perché mi avevano preoccupata le notizie dei disastri a Cordusio, vetrine in pezzi, feriti, cinquanta persone in questura. “Hai sentito, eh, Gelmo? Disgraziati! Era meglio se se ne stavano a casa loro, questi tedeschi…”  E lui aveva ripetuto “Questi tedeschi”. Mi imitava, in quello che dicevo e anche nei gesti.

E’ stato allora che è entrata lei. Io ho capito subito che era straniera, e non solo per quei capelli biondi, lunghi, quegli occhi così chiari… Soprattutto perché era a piedi nudi, e con un prendisole tutto scollato, bianco, che le arrivava a metà polpaccio. Sono calorosi, gli stranieri, appena vengono in Italia pensano al mare, al sole, si mettono quasi in costume.

“Signora un bicchiere d’acqua per favore”, mi dice con un accento molto forte, come parlano loro. Sig-nora, con la g dura. Per fafore. Bella? Non so dire, io, se era bella. Certo era una che faceva colpo, gli occhi grandi, azzurri come l’acqua minerale nelle bottiglie di plastica. Era freschino per andare in giro così mezza nuda, alle sei e mezzo di mattina, a fine giugno di un giugno un po’ freddo. A Gelmo le bionde erano sempre piaciute, il tipo esile e pallido. Non se ne vedono molte, dalle nostre parti. Lei non lo aveva neanche notato. Ma lui si era bloccato con la scopa in mano: come folgorato la fissava mentre beveva a sorsate lunghe, e si spostava la frangia dalla fronte. Secondo me non aveva dormito, dopo la partita era andata in giro coi suoi amici e chissà come era arrivata al nostro bar, tanto lontano dal centro. A Gorla, che è quasi verso Sesto S. Giovanni. Fosse drogata? Forse aveva solo sonno, gli occhi annebbiati; le unghie delle dita orlate di nero, questo me lo ricordo bene. Stava cercando nel borsellino, e io le dicevo: “Lasci perdere, lasci”, che volevo regalarglielo, il bicchiere d’acqua. Avrà avuto diciotto anni.

Anche queste madri tedesche, lasciar andare così lontano ragazze tanto giovani; io non so. Mentre cercava i soldi è cominciata quella canzone, strano, una canzone di tanto tempo fa. Il tango della gelosia”, però lo cantava Celentano, con un arrangiamento moderno e la fisarmonica, e un po’ di atmosfera nostalgica. Si sa come sono i tedeschi, no? Che amano molto la musica. La ragazza butta il borsellino sul banco e fa qualche passo indietro. E poi, leggera sui suoi piedi nudi, si mette a girare tra i tavolini del bar, allarga le braccia, si dondola. Non ballava il tango, no, anche perché il ritmo non era proprio quello.
Maledetta, quella canzone. “Amore vuol dir gelosia… Per chi è innamorato di te…”. Non la voglio più sentire.

E la biondina girava, la gonna le si gonfiava sulle gambe. A me veniva da ridere; guardo Gelmo per fargli segno che quella era ubriaca. Ma lo vedo con una faccia che mi spaventa, gli occhi fissi, il viso teso e arrossato, le mani aggrappate alla scopa. Io e suo padre ci siamo chiesti tante volte chissà se aveva mai avuto una donna, secondo me a ventidue anni suonati non l’aveva mai fatto, era ancora innocente come un bambino. E comunque in quel momento io ho avuto paura di mio figlio, mentre lei gli ballava davanti agli occhi, rovesciava la testa, gli mostrava la pelle tenera e bianca sotto le ascelle.

L’altro è entrato urlando, al collo una sciarpa con i colori della Germania, in mano una bottiglia. L’ha fracassata per terra, vetri dappertutto, schiuma di birra sul pavimento. Chissà Gelmo cos’ha pensato di tutto quello sporco. Poi si è diretto verso la ragazza, urlava in tedesco, non capivo niente ma era una bestia. L’ha afferrata per i capelli, ripeteva sbavando la stessa parola, e lei strillava. La prende per un braccio, fa per tirarsela dietro, le storce una mano, quella grida. Io non so se il cuore mi si era fermato o mi batteva da uscirmi dal petto.

Vedo Gelmo andargli addosso, a lui, con la scopa tesa sulla sua testa. Vedo che quello si scansa e poi gli si butta contro di peso, la ragazza in un angolo, e Gelmo che vacilla, gli cade per terra la scopa. Quello lo picchia; un pugno, una sberla, non so, e mio figlio col dietro della testa che batte proprio sull’orlo del banco, davanti a me, e crolla a terra. Un tonfo, ho sentito, mio Dio, che mi sveglio ogni notte con questo tonfo nelle orecchie.

Loro due scappano, la canzone suona, Gelmo è per terra, non lo vedo. Solo un po’ di sangue sull’orlo del banco, non tanto. Mi sembra che non sia mai venuto via del tutto, è rimasta come una macchia. Provo ancora con l’acido a grattare, “tutto pulito”, mi ripeto, ma l’alone si allarga.

 

In Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

TU SÌ CHE VALI

Adesso voglio raccontare esattamente come tutto è successo. Non a voi, eventuali morbosi lettori, di cui non mi importa niente. Nemmeno a lei, o a lui, o a me stesso (io, conosco già anche troppo bene quello che è accaduto, in me e fuori di me). Diciamo ai posteri, o a un qualsiasi inquisitore che volesse indagare su colpe e responsabilità, mantenendosi fedele a una glaciale e imperturbabile valutazione dei fatti.

Dunque mi chiamo: Guido. Dunque ho: 29 anni. Lei, la mia lei, si chiama Valeria. Ha 31 anni. Lui (il mio lui, il suo lui) si chiama Giorgio. Ha 36 anni. Questi gli imprescindibili presupposti.

Conosco Valeria da quindici anni. Sì, ero piccolo: di statura e di età. Poi, ovviamente sono cresciuto: in statura e in età. Non so se in sapienza e grazia, come pare sia capitato a Gesù; forse no. Adesso, comunque, sono alto 1,83. E ho, appunto, 29 anni. Lei, Valeria, è alta circa 1,70. E ha sempre due anni più di me. Continua anche a essere bella come quando l’ho incontrata. Dolce e caparbia, futile e geniale. Vale, come il suo nome: una per cui vale la pena. Soffrire, tacere.

Ho sofferto, ho taciuto. Per tutto questo tempo. Quando l’ho vista per la prima volta, stava appoggiata di schiena a un termosifone del corridoio della nostra scuola: ero salito al piano superiore delle classi liceali, io che frequentavo la sezione C della quarta ginnasio, per portare un registro al nostro professore di latino impegnato in una supplenza. Lei era lì, asciutta e seria e sola, i capelli sciolti sulle spalle, una gonnellina corta a mostrare le gambe magre. Mordicchiava una penna, sembrava immersa in lontane riflessioni. Bellissima. Mi rivolse sguardo e parola: “Dove stai andando, così di corsa?” Mi bloccai, due metri di fronte al suo corpo, come fossero tre centimetri o un chilometro, il fiato sospeso. Feci cenno al registro, “Prima B”, risposi a voce bassa. “È la mia classe odiosa”, fece lei. Ripresi a camminare come un automa. Bussai alla porta indicata, consegnai il registro, mentre tanti occhi di ragazzi e ragazze più grandi mi osservavano annoiati.

Allora ero timido; anche adesso, un po’. Ma da piccolo timido, complessato, emotivo, ansioso. Richiusi la porta della I B, tornai sui miei passi, sbirciandola sempre ferma appoggiata al termosifone. “Come ti chiami?”, mi domandò: chissà da che mancanza di curiosità spinta. “Guido”, risposi. Confuso, abbassando la testa. “Ah. Mai conosciuto un Guido prima. Io Valeria, in pratica Vale”. “Ciao”, e mi misi a correre verso la mia salvezza di ginnasio.

“In pratica Vale” mi rimase in testa per mesi, e non solo in testa. La cercavo nel cortile grande durante la ricreazione, la spiavo tra i compagni all’entrata e all’uscita delle lezioni, arrivavo a seguirla nel vialone trafficato che portava in centro città: cauto e sospettoso come un detective di provincia, muto e felpato. Non se ne accorgeva, credo. La pensavo tanto prima di dormire, troppo appena sveglio, felice come un pettirosso che saluta il mattino in primavera. Perché l’avrei rivista, in lontananza dapprima, spingendomi poi il più possibile accanto a lei nella calca degli studenti davanti al cancello della scuola. Speravo di annusare il suo profumo. Ma non mi sembra ne avesse uno di particolare.

Il mio innamoramento silenzioso durava, tenace. Il mio pedinamento che ritenevo inosservato pure. Un giorno d’improvviso successe qualcosa: un prodigio. Ero passato legittimamente al piano di sopra, frequentando con eccezionale bravura il primo anno di liceo. Avevo anche già baciato, una giovinetta insipida mia vicina di casa, di nome Gloria. Lei, in pratica Vale, era all’ultimo anno (III B), prossima all’esame di maturità. Prossima anche ad essere da me persa, dopo l’estate. Magari si sarebbe iscritta in un’università lontana, o addirittura all’estero. La contemplavo con discreta devozione, sempre vagheggiando si accorgesse del mio sguardo, accompagnato da un sorriso mite, meritevole di un suo avvicinamento. Che ci fu.

Quell’aprile di un giovedì santo (santissimo, davvero, e benedetto!) si voltò brusca appena sfiorata dal mio gomito, riconoscendomi mentre mi profondevo in mille scuse: “Guido, vero? Ricordo bene? Sei cresciuto, sei diventato molto più alto di me!”. Mi sembrò un complimento, forse voleva lo fosse. Poi si era eclissata, nella massa vociante beota dei compagni che si precipitavano giù dalle scale.

Tempo dopo, quasi estate, rivedendola sola che fumava una sigaretta in cortile, mi avvicinai temerariamente spavaldo: “Emozionata per l’esame?”, le chiesi. “No. Preparata”, rispose convinta. “Felicissima di lasciare questo liceo di barbari. Di gente inutile”. Inutili e barbari, dunque. Così ci vedeva. Anche me? (tremai). “Mi iscrivo ad Architettura, al Politecnico”, continuò, non richiesta.   Era un amo, un’esca, una pista da seguire, quella che mi indicava? Pollicino, le briciole. “Interessante”, commentai, io che vagheggiavo di diventare astrofisico.

Fu quella l’ultima volta che le parlai, all’interno dei muri della nostra scuola che avevano visto nascere il mio amore, e l’avevano protetto, tenuto al sicuro. Ovviamente, finite le superiori, mi iscrissi ad Architettura, al Politecnico. Non avevo più visto la faccia bella di lei, se non in sogno, ma non avevo smesso di pensarla. La scelta della facoltà aveva stupito tutti, in famiglia, visto che dall’adolescenza avevo sbandierato ovunque la mia passione per il firmamento. Ma è lecito cambiare idea, no? Soprattutto se vale la pena. “In pratica Vale” valeva la pena: la mia stella luminosa, la mia Betelgeuse privatissima.

La incontrai appena iniziate le lezioni, perché mi iscrissi subito al corso di Scienza delle costruzioni del terzo anno. Fu stupita, riconoscendomi nel banco dietro al suo, in classe. “Tu qui?”, chiese a voce bassa, voltandosi e appoggiando il mento sulla spalla. Dio, il suo profilo! Il naso, la bocca, i capelli castani raccolti in una morbida onda sulla schiena. Glieli sfiorai con le dita. “Sì, e mi chiamo Guido”. “Me lo ricordo, lo so. Bel nome, diverso dai soliti. Sei strano anche tu, pare. Un genio, passato per chiara fama dal terzo anno di liceo classico al terzo anno di università…”. Sorrise, ironica o lusingata. Non risposi. Dovevo invece sussurrare, tenero e deciso, che avrei superato con lode ogni astrusità di esame solo per starle vicino, per ascoltarla dire poche parole tutte per me: ma si era già voltata verso la cattedra per seguire la lezione, e il cuore mi batteva, la voce mi mancava. “Per te, ho scelto architettura”, volevo confessarle, “mia strada, chiesa, ponte e grattacielo, Valeria”. Non osai. Rimasi in silenzio.

Procedeva spedita negli esami, lei, senza infamia e senza lode, ma superandoli con disinvoltura. Io invece mi incagliai subito, a ogni appello mi ripresentavo con accresciuta titubanza. Quando ci incontravamo (molto spesso; a lezione, al bar, in biblioteca: prevedevo e precedevo ogni suo spostamento), ci scambiavamo vicendevoli notizie sui reciproci successi e fallimenti scolastici. Un pomeriggio, dopo aver saputo della mia ennesima bocciatura in Matematica, mi chiese come mai, dagli eccezionali risultati liceali fossi piombato in catalessi architettonica. “Sono troppo innamorato”, osai confessarle. “Della tua ragazza?” domandò sorella confidente. “No, di quella no. Di un’altra”. “Anch’io”, scoppiò a ridere. Seppi poi che aveva lasciato il fidanzato storico per mettersi con uno già laureato in ingegneria, folgorata da un colpo di fulmine. Me ne parlava con trasporto alato, fervidamente gioioso. Cominciò a prendermi in giro, scherzando mi chiamava “l’incompiuto”, alludendo al mio indeciso procedere, nei sentimenti e negli studi. Balbettavo, sprofondando nella mia frustrata incompiutezza.

“Ma lo sai, vero? L’hai sempre saputo che sei tu il mio inciampo, il gradino che non riesco a superare, la rete in cui mi incaglio. E insieme torre, nuvola, aquilone: mi alzi in vetta, e intorno tutto si fa piccolo, inessenziale. Inferno e paradiso, condanna e premio, mio purgatorio perenne: perché non riesco a liberarmi da te, chiodo fisso, termine di confronto assoluto? Davanti a cui qualsiasi altra persona mi appare sbiadita, qualsiasi donna banale, qualsiasi conversazione noiosa. Eppure, non dici niente di speciale, non fai nulla di coinvolgente, non hai vinto nessun concorso di bellezza. Stai lì ferma, mordicchi la penna, parli a scatti: poi magari sorridi, inattesa dolcissima, e mi sciogli; alzi una spalla svogliata e mi scaraventi in un baratro; mi telefoni per raccontarmi idiozie e ti assorbo impregnandomi spugna assetata. Ti respiro nell’aria, maledizione che mi tormenti, e non riesco a concludere il minimo quotidiano impegno. Se ti incontro per caso svoltando un angolo mi paralizzo, e tu alzi gli occhi al cielo (ancora qui, continuamente qui, mi stai seguendo, mi sfibri, lasciami in pace…). Eccomi allora affranto, disutile, incompiuto come mi chiami: amorosa. Lo sarò sempre. Mi mancherai sempre. Ti vorrò bene sempre”.

Questo mi proponevo di dirle, ogni volta che la vedevo, ogni volta che la cercavo sul cellulare. Non ci sono mai riuscito. Ma lei capiva, comunque: aveva capito già dal nostro primo incontro. Ne era un po’ imbarazzata, un po’ addolorata, un po’ compiaciuta.

Nei primi giorni dell’autunno successivo, iscritto vanamente e illusoriamente al secondo anno di corso, mi imbattei in loro due allacciati stretti: un fiero colpo nel distinguere in lontananza lei da dietro, lui al suo fianco che le parlava affettuoso, braccia intrecciate intorno alla cintura, passo placidamente abbandonato. Oh, lui lo conoscevo bene! Era dunque “quel” Giorgio, proprio “quel” Giorgio… Sapevo anche troppo su di lui, io incompleto, lui perfetto. Quindi, l’aveva conquistata, Giorgio. Ci era riuscito, a differenza di me. Esercitando quali arti, mi chiedevo e gli chiedevo mentalmente, Giorgio? Non provavo invidia, né rabbia. Solo rassegnata consapevolezza della mia scarsa abilità seduttiva, della mia irrimediabile piattezza adescatrice. Però ero più alto di lui, più fine nei lineamenti del viso, più vigile nello sguardo, nelle mani nervose. Allora perché non hai scelto me, Valeria adorata: perché?

“In pratica Vale” riuscì a laurearsi nei tempi previsti. Ero presente alla discussione della tesi. C’era anche lui. Appena proclamata Dottore in Architettura con la votazione di 104 su 110, lei si precipitò ad abbracciarlo e lui la fece ruotare sollevandola come fosse una bambina: intorno applausi, risate, urrah. Io zitto, trafitto da una spina nella gola. Zitto, in disparte, abbattuto, per tutti gli anni del loro fidanzamento.

Mi distraevo uscendo con ragazze diverse, sconfortanti nella loro inadeguatezza: pensavo che si adattassero alla mia mediocrità, sapendole mediocri. Come sostituire lei, infatti, anche solo in sogno? Ma nel fondo più profondo di ogni fantasia, continuavo ad accarezzare l’ipotesi di una qualche imprevedibile circostanza capace di allontanare Giorgio da ogni orizzonte. Con franchezza infantile lo ripetevo a me stesso e a lei: “Valeria, io aspetto”. I miracoli accadono, a volte.

Avevo abbandonato l’università, mi ero impiegato in un’agenzia immobiliare. I genitori rimproveranti delusi insistevano perché riprendessi gli studi, non rassegnandosi a un figlio incompiuto. Così decisi di lasciare la casa paterna, trasferendomi in un bilocale arredato, anonimamente moderno e funzionale. Mia mamma veniva a rifornirmi di pietanze surgelate e a mettere un po’ d’ordine ogni settimana, io conducevo una vita da single annoiato poco gaudente, in tormentata attesa delle telefonate confidenziali di Vale, a cui prestavo un orecchio fraterno, comprensivo, solidale. Il miglior amico, almeno, l’amico del cuore, aspiravo a essere. Forse qualcosa cambierà, mi dicevo.

Infatti qualcosa cambiò. Una sera mi annunciò eccitata che con Giorgio stavano programmando le nozze. In municipio e in chiesa. Con tanti invitati. Mi avrebbe voluto come testimone. Non ero il suo amico più caro?

“Ci sarò, amata. Sarò lì, elegante e discreto accanto a voi, a firmare un registro e la mia condanna. Ti guarderò pronunciare tremante una promessa che vuol dire per sempre. Ti vedrò mentre un altro che non sono io ti infila un anello al dito. Ti accompagnerò sul sagrato della chiesa, quando lui ti bacerà e intorno amici e parenti festanti applaudiranno e getteranno manciate di riso sui vostri vestiti nuziali, sul tuo velo bianco. Verrò immortalato anch’io, nelle fotografie che scatteranno: alle vostre spalle, con lo sguardo fisso su di te che mai potrai essere mia. Cercherò di sorridere, da buon amico e partecipe testimone. Non se ci riuscirò”.

Dopo il matrimonio, le sue telefonate si fecero più rade, e sbrigative. Mi aggiornava sull’arredamento della casa, sui progetti di vacanza, su problemi e soddisfazioni professionali. Fui invitato anche a cena, qualche volta, ma mi sentivo rigido e intimidito, soppesato con indulgente superiorità dal marito, con affettuosa benevolenza da lei. Una domenica, molti mesi dopo, mi annunciò al telefono di essere incinta. “Ho aspettato a darti la notizia perché volevo essere sicura che tutto procedesse bene. Conosciamo anche il sesso, ora. È un maschio”.

Il muro si alza ancora di più, pensai. Finsi entusiasmo. Mi congratulai. “Avete già scelto il nome?” chiesi, per nulla incuriosito. “Ho proposto Guido. Mi piace, non si dà quasi più”. Ecco, pensai, un piccolo Guido da crescere in dipendenza. “Tuo marito cos’ha detto?” Valeria, in pratica e divertita, gorgogliò un’allegra risata di gola. “Ha detto, perché come mio fratello? Vuoi proprio un altro incompiuto in famiglia?”

 

«Gli Stati Generali», 13 dicembre 2020

 

 

 

RACCONTI

ZURIGO E UNA DONNA

ZURIGO E UNA DONNA

 

La sera della partenza scrisse una lettera alla sorella, mentre sedeva a un tavolo della sala d’aspetto della stazione, con la testa appoggiata al braccio sinistro, la sigaretta in bocca.

“Questa è l’ultima lettera mia che riceverai da Zurigo. Parto questa sera stessa, lascio questa città che magari non esiste veramente, o esiste solo nei listini di borsa. Ci ho vissuto per un anno, ed è stato un anno incorporeo, di nebbia. Mi hai chiesto spesso di descrivertela, Zurigo. Cosa dirti se non che ha un lago, due fiumi e una collina, tram azzurri e bianchi che la tagliano veloci in tutte le direzioni… Non è una città virile, piuttosto androgina. La si può amare od odiare intensamente e contemporaneamente, come succede con le persone. Non la puoi paragonare a una città delle nostre; immaginati invece una donna alta, ossuta, con occhi larghi e chiari. Con dita lunghe, voce profonda. Una donna non bella, non giovane, che tuttavia ti costringe a guardarla, quando l’incontri. Che ti ossessiona anche se in realtà non la conosci. Però lei conosce te, e ti prevede in ogni mossa. Una che tu vorresti prendere, possedere, ma di cui hai paura. Io scappo da lei, scappo da Zurigo. E non riesco a spiegarti come, e perché, sono così terrorizzato all’idea che lei possa seguirmi”.

Imbucò la lettera prima di salire sull’Intercity per Chiasso. La città era illuminata a bagliori da luci bianche e rosse, e oltre il tetto della stazione insegne al neon reclamizzavano assicurazioni, banche e l’Hotel Continental.

“Addio” pensò Guido, sporgendo la testa dal finestrino, accendendosi una sigaretta. Il treno si mosse, lento e silenzioso. “Addio”, gli ricambiò il saluto una mano pallida da un cartellone pubblicitario, la mano di una donna fotografata di spalle, un grande cappello nero in testa e, sotto, un codino biondo. Guido pensò senza stupore “Eccola ancora, fino all’ultimo. Ma io la lascio. È Zurigo che lascio. Per sempre”. Addio, dunque, e tirò su il finestrino, ci si appoggiò con la schiena, continuando a fumare, calmo come da tempo non gli era più successo.

Poteva essere stata l’immagine di un manifesto, quella che l’aveva tormentato per mesi? O non era invece la Susan in carne e ossa che lui continuava a proiettare in ogni donna, a vedere ovunque?Immagine o realtà, era comunque rimasta lì, sul binario numero uno dell’Hauptbahnhof.

Guido entrò nello scompartimento e si stravaccò sul sedile. Schiacciò il mozzicone nel portacenere, poi gli venne in mente che aveva lasciato il giornale in valigia. Si alzò straccamente, spostò una borsa, tirò giù la valigia. Gli scivolò davanti agli occhi, legato con uno spago al portabagagli, un depliant illustrativo:

Zürich: Ihr werdet sie nicht so leicht vergessen

Zurich: vous ne l’oublierez pas facilement

Zurigo: non la dimenticherete facilmente

Lei era lì, col suo codino biondo, Grossmünster e il fiume Limmat alle spalle. Lo guardava seria, muoveva appena le dita a dirgli ciao, sono con te.

 

 

In Sotto assedio, Gattomerlino edizioni, Roma 2023