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RECENSIONI

ROVERSI

ROBERTO ROVERSI, TRENTA MISERIE D’ITALIA – SIGISMUNDUS, ASCOLI PICENO 2011

Ci ritroviamo spesso coinvolti in miti e riti letterari celebranti soprattutto l’effimero, la leggerezza, il gioco linguistico: per questo una personalità di intellettuale militante quale è stato Roberto Roversi (Bologna, 1923-2012) può risultare ai più anacronistica, quando non addirittura pedantescamente didascalica.
Roversi è rimasto fedele, nella sua lunga e coerente esistenza, a un ideale di impegno etico e culturale che lo ha reso pressoché unico nel panorama delle nostre lettere.
Partigiano a vent’anni sulle montagne piemontesi, poi libraio antiquario nella sua città emiliana per più di mezzo secolo, fondatore e animatore di riviste importanti quali Officina e Rendiconti, Roversi fu poeta, critico, politico, giornalista, autore di testi di canzoni per Lucio Dalla e per gli Stadio (sue le notissime Nuvolari e Chiedi chi erano i Beatles). Pubblicò una serie notevole di libri e plaquette, schierandosi coraggiosamente contro i colossi dell’industria editoriale, con la scelta anticonformista di stampare le sue poesie in fotocopie e ciclostilati da distribuire gratuitamente, oppure attraverso i canali dell’editoria alternativa.

Il 2 giugno 2011, in occasione della Festa della Repubblica, presso la piccola casa editrice marchigiana Sigimundus è uscita la quarta parte del suo poema L’Italia sepolta sotto la neve, intitolata Trenta miserie d’Italia.
Si tratta di un poemetto in versi liberi, suddiviso in trenta sezioni, in cui l’autore esprime indignazione e dolore per lo stato attuale in cui versa l’Italia, sia in ambito politico sia in quello civile. Partendo ironicamente dallo stereotipo che decanta il nostro paese come sede di bellezze naturali e artistiche inestimabili, subito arriva alla constatazione malinconica di un presente miserevole e stigmatizzabile: «Oggi Italia è al fioco bagliore di disperse candele / piagnucolosa statua di marmo scapotizzato. /… L’Italia non esiste più l’Italia si è perduta / mucchio di carbone appena spento fra due pietre / verza strappata dal becco dei passeri vaganti / mare con ossa di delfini disseccati / certosa di vecchi scheletri cappuccini / frana scrollata dalle cime acuite di monti vicini / dentro al mare Tirreno solcato da velieri fantasmi».

A questa visione umiliante di un paese corrotto e incapace di risorgere, Roberto Roversi oppone il ricordo nostalgico della lotta partigiana e dell’impegno postbellico che lo vide protagonista entusiasta e ribelle: «Italia numero uno Italia numero trenta io c’ero. / Su montagne ferite dalla violenza del mondo / su piazze inzeppate di pietre / urlanti vendetta e canzoni / io c’ero».

Quale può essere, allora, il dovere di un intellettuale, davanti agli scandali quotidiani, alle ruberie e ai trasformismi, agli attentati, alla mafia che nemmeno eroi come Falcone e Borsellino riuscirono a vincere, al colpevole disinteresse di chi favorisce l’incuria, la cementificazione, l’inquinamento che ammorba le nostre terre? Quale il dovere del cittadino comune, oscillante tra indignazione e attesa? «Parlare continuare a parlare senza sapere come parlare / scrivere continuare a scrivere senza sapere come scrivere / pensare continuare a pensare non sapendo cosa pensare e / continuare a voler sapere senza sapere che cosa sapere».

Paralizzati dentro muri di paura e indifferenza, di incertezza e viltà, l’unica strada percorribile sembra essere il rifluire nel privato, o il rituffarsi nel «mare del ricordo» che «non ha confine mai». Nello stile quasi declamatorio tipico della poesia civile, punteggiando il tono epico e risentito dei suoi versi con inserzioni prosastiche tratte dalla stampa giornalistica o con affermazioni proverbiali e luoghi comuni, utilizzando metafore rapinose, Roberto Roversi a quasi novant’anni («ho / Italia ottantotto vipere fra i capelli») incitava ancora alla ribellione, alla non rassegnazione: «Fuoco di parole / e guerra sia». Pur consapevole che il nostro è un «Giardino dei ciliegi / diventato foresta frequentata da nani», senza più il conforto di lucidi e coraggiosi intermediari (quali Sciascia, Calvino, Pasolini, Fortini, Volponi, Vittorini), Roversi si è addormentato cinque anni fa con una flebile speranza, e una domanda rivolta all’Italia ormai orfana di illusioni: «Chi vincerà le tue battaglie? / Ancora una volta per te? / Il futuro ti aspetta…».

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Trenta-miserie-Italia-Roversi.html        21 giugno 2016

RECENSIONI

RUCHAT

ANNA RUCHAT, IL MALINTESO – IBIS, COMO 2012

Anna Ruchat, traduttrice dal tedesco e scrittrice, in questo libriccino di intensa partecipazione civile, scritto tuttavia con uno stile secco e lontano da qualsiasi sbavatura emotiva, narra le vicende di un gruppo di persone rom e rumene ammassate nella fabbrica dismessa della Snia Viscosa a Pavia. Accostatasi a questa realtà di degrado e umiliazione all’inizio del 2007, insieme a qualche volontario della Caritas per portare cibo e vestiti a donne e uomini dimenticati da Dio e dal mondo, si ritrova da subito coinvolta nelle loro esistenze, partecipe con indignazione alle loro sofferenze, e testimone impotente dell’indifferenza «della classe politica affarista e provinciale che governa la città». Frequenta le famiglie disperate e abbrutite dei rom, parla soprattutto con le donne, umiliate da aborti, gravidanze precoci, violenze e prostituzione; con i bambini e i giovani, costretti a rubare o a elemosinare, a difendersi dalle persecuzioni razziste esterne e dalle rivalità familiari nel campo, e a lottare per cercare vanamente un’integrazione scolastica o lavorativa sempre rifiutata. Testimonia sgomenta la condizione di assoluto degrado in cui queste persone trascorrono le loro giornate, tormentate da freddo, assalite da torme di topi voraci, continuamente in balia di sporcizia, alcol, infezioni e malattie. Alla fine la sconfitta arriva per tutti, quando la Snia viene sgomberata e abbattuta, e il popolo dei rom disperso: «Li portano in giro di notte, sugli autobus, come scorie radioattive…». Ad Anna Ruchat resta il rimpianto di non essere riuscita a opporsi alla cecità egoista dello stesso suo mondo borghese e intellettuale: «La verità è però che non reggo più a tutto quel mare di sofferenza, la mia impotenza mi mortifica…». Riesce tuttavia a fare qualcosa di fondamentale, traducendo e facendo pubblicare le poesie della regina degli zingari Mariella Mehr, organizzando per lei una serata di successo nel teatro di Pavia, e riproducendone alcuni versi sofferti anche in questo libro: «Ride male la donna degli incubi. / E io sono ancora selvaggina di un’ipocrisia qualunque / e di una qualunque rabbia. // Allora sperate con me / tutti voi soccombenti. / Spera anche tu / mio cuore / un’ultima volta».

 

«Leggendaria» n. 104, marzo 2014

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RUFFILLI

PAOLO RUFFILLI, AFFARI DI CUORE – EINAUDI, TORINO 2011

Un canzoniere d’amore, che nell’amore (nei suoi molteplici aspetti e personificazioni, nei sogni e nei desideri, negli atti concreti e nelle finzioni, nelle blandizie e negli inganni) si esaurisce del tutto, affondandovi, immergendosi forma e contenuti. Senza mai fare un nome di donna, raramente tratteggiando un carattere o raccontando un viso, una voce, un passato rimpianto o un futuro accarezzato. E si presume che le donne siano più di una: la giovane incuriosita dall’uomo maturo, la maritata stanca e delusa, la donna in carriera, la trasgressiva e l’indifferente,«un’arrivista / un po’ borghese». O forse è la stessa, ma abbozzata, mai scolpita nella sua interezza, mai offerta al lettore in un gesto che la individui per sempre. E il poeta-amante è a volte possessivo e ossessionato («Tenuta alla catena / ti voglio mia, / fedele a me / in assoluta dipendenza»), a volte traditore («E ti tradisco / per amarti, /vengo a cercarti / dentro un altro corpo / non per farti torto / e non è cosa vana»), spesso scontento, sperso, deluso («Sono stato per te / il cuscino e una coperta / la sedia e la poltrona / il freno da tirare»). In un rapporto che racconta il sesso quasi con distacco e analitica attenzione («insaziati e in preda / a una furia pura / nell’ardore / di incroci e posizioni, / tutto di tutto / tra di noi addosso / il più proibito / come il più ortodosso», «siamo squartati / l’uno nell’altra / e, nello squartamento, / più beati»), in un’approssimazione all’erotismo che parla del corpo quasi vivendolo scorporato. L’impressione che se ne ricava è quindi quella di una musicalità leggera, «da canzonetta o di aria dapontiana», come suggerisce la quarta di copertina: con un gusto spesso eccessivo del ritmo sincopato e della rima ossessiva. E nuocciono alla consistenza vera di alcune poesie (“Ardente”,”Rosaspina”) le conclusioni un po’ troppo facili e banali di altre («Ti voglio e /non mi stanco /di volerti, /e non mi /basta mai /di averti», «Non avevo mai provato/in vita mia/così tanta tenerezza/dentro la passione»).

IBS, 24 settembre 2011

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RUGGIERI

ADELELMO RUGGIERI, SEMPREVIVI – PEQUOD, ANCONA 2010

Le due sezioni in cui si suddivide questo librino di versi di Adelelmo Ruggieri (1954), sembrano trascorrere l’una nell’altra senza soluzione di continuità, all’insegna di una quasi diafana lievità, che pare voler sfuggire qualsiasi materiale pesantezza: non solo gli oggetti scompaiono, in queste poesie, ma anche le persone concrete, sfumate in uno sfondo occupato quasi interamente dal paesaggio naturale. I corpi umani esistono, in realtà, ma mai caratterizzati nella loro individualità: sono gli spazzini che bevono il caffè nel bar del paese, il fornaio che pesa il pane, un “fratello che cammina incorporeo / lungo la linea passeggera delle conchiglie”. Lentissimi i movimenti della gente, come ripresi da una stanca moviola; rassegnati i gesti di chi sa di non poter incidere nella storia (e forse neppure nella cronaca); affetti familiari appena tiepidi e timorosi di eccedere (“Ti osservo di passaggio, la porta aperta / le coperte a posto, l’imposta socchiusa”; “La madre all’angolo che lava le stoviglie / Lui seduto alla finestra che guarda fuori / le rondini”; “Osservo i tuoi capelli fatti da poco / Ti dico sempre di tenerli così / Ti stanno bene in volto così / Hai fatto bene a tagliarli così”). Vietandosi anche la concisa stabilità dei punti fermi, Ruggieri offre al lettore un’immagine di sé e della sua realtà animata da sentimenti intimiditi: gentilezza e mitezza, rifiuto di qualsiasi sopraffazione (anche il trasporto amoroso soffre di un’ incertezza adolescenziale), e ricerca di una rispondenza emotiva nelle cose e nei luoghi circostanti (foglie che cadono, rubinetti che perdono, ospedali e cimiteri, camminate e nevicate). Ma in modo che qualsiasi suono arrivi attutito, ogni luce non si presenti con troppa violenza. Le soluzioni stilistiche adottate rispondono quindi a questa precisa disposizione caratteriale, di delicata cantabilità, di a volte esibita facilità: “Sei solo quando sei solo? / ora mi chiederai / Bella domanda questa / Resto immobile / Penso”.

IBS, 23 giugno 2014

RECENSIONI

RUMI

JALÂL al-DIN RUMI, SETTECENTO SIPARI DEL CUORE – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2020

I trenta ghazal di Rumi che Ponte alle Grazie ha pubblicato con commento e traduzione di Stefano Pellò hanno il merito di correggere il radicato cliché con cui la cultura occidentale, soprattutto anglofona, continua a leggere il mistico sufi di lingua persiana, facendo di lui un edulcorato cantore dei buoni sentimenti, animato da una spiritualità annacquata e da ingenua mansuetudine, e trasformandolo così in un campione di incassi ai vertici delle classifiche letterarie mondiali.

Jalâl al-Din Mohammad nacque nel 1207 in Asia Centrale e morì nel 1273 in Asia Minore, a Konya o Iconio, dove aveva trascorso gran parte dell’esistenza. Proprio al nome della regione storica di Rum, ossia la Roma bizantina dei musulmani, si deve il toponimico Rumi con il quale è internazionalmente noto. Vissuto in un ambiente multireligioso e poliglotta, dove coesistevano e interagivano fra loro greco, turco, persiano e arabo, Rumi compose nel nativo persiano due opere principali: la grande raccolta di odi nota come Divân-e kabir (Grande canzoniere), che contiene più di cinquemila componimenti, e il lungo Poema interiore in distici rimati, di circa ventiseimila versi. Soprattutto il Divân fu ispirato dall’incontro con il derviscio itinerante e pensatore iconoclasta Shams-e Tabriz, il “Sole di Tabriz”, suo mentore spirituale e oggetto mistico d’amore e meditazione.

Al suo Maestro Rumi ha dedicato versi di grata e fervente dedizione, poiché proprio seguendo il suo insegnamento ha potuto attingere alle fondamenta della verità: “Tu sei sempre con me / tu sei i miei occhi e tu sei la mia luce: / se lo vuoi, tu conducimi all’ebbrezza, / se lo vuoi, trasfigurami nel nulla”, “Sei la vita del giorno / e della notte l’anima / e io sono l’attesa, giorno e notte”, “O splendido sole, tu squarcia un istante le nubi: / io voglio quel viso raggiante, quel chiaro bagliore”.

Il tema fondante intorno cui ruota la poesia di Rumi è l’unità dell’Essere inteso come amore, ‘eshq, forza cosmica che attira tutte le creature verso la luce, origine di ogni cosa esistente. La teologia estatica di cui è interprete e messaggero travalica qualsiasi studio, riflessione, preghiera: pura energia che inebria e innalza verso l’infinito, redime da ogni egoismo nella contemplazione della bellezza aldilà di ogni limite temporale e spaziale: “L’amore non è nel sapere e nei libri / non è nelle scienze e nei rotoli scritti / e la via degli amanti non è nei discorsi / del mondo”.

L’amore trasforma la gazzella in leone, l’aspro agrume in dolce susina, l’orzo in grano, l’agnello in lupo: lo si scopre attraverso il valore rigenerante del silenzio, che libera dalla parola vana, dalla calunnia, dalla facile distrazione, dalle scorie inutili che inquinano la coscienza: “Abbandona i discorsi, entra in casa, diventa silenzio”. Per sollevarsi dalla materialità, bisogna diradare il fumo che oscura ogni visione, aiutati dall’ammaestramento di una guida spirituale che sappia esortare con discorsi ed esempi incoraggianti: “Il tuo fango non lo devi rimestare: / soltanto così si schiarisce / quell’acqua e si monda il deposito / scuro e guarisce il tuo male”.

I versi del Divân rimarcano continuamente il desiderio di fusione con l’Assoluto, incarnato dalla perfezione del Maestro, in un ritmo ossessivo e incalzante, con la ripetizione del sintagma “Io voglio”: voglio il leone di Dio, la candida luce, l’oceano infinito, un giardino di rose, dolcezze infinite, quel viso raggiante, quell’oro, una mano capace, la luna di Canaan, montagne e deserti. E ancora ribadiscono con martellanti ritornelli la medesima dichiarazione amorosa, a metà tra la supplica e il ricatto affettivo. “Io senza te non so stare”: “Ero morto, ora vivo, / ero pianto, ora rido”. “Se sei testa, io sono i tuoi piedi, / se sei mano, io sono quel drappo / che stringi nel palmo, / se svanisci, non sono più niente: / no, io senza te non so stare. / M’hai portato via il sonno, / hai lasciato sbiadire i miei tratti, / hai voluto staccarmi da tutto: / no, io senza te non so stare”, “non so cos’è avvenuto, non so come: / nel senzacome ogni come è annegato”.

L’amato è una belva feroce, è tempesta che “strappa i settecento sipari del cuore”, incatena e travolge l’esistenza. Di fronte a tale impetuoso trasporto, tornano in mente i grandi mistici renani, Eckhart, Silesius, e san Juan de la Cruz, tutti i pazzi di Dio, gli eretici farneticanti di ebrezza. Persino i sermoni inferociti e le poesie violente di Ferdinando Tartaglia, di Padre Turoldo. Ma anche il tremore di Saffo davanti all’amata (“Sono immobile eppure / in me tutto quanto si muove”), i lirici greci che brindano alla luna, eccitati dal sapore inebriante del vino: “Vieni dunque a gioire alla taverna”.

Giustamente nella postfazione Stefano Pellò, traduttore e docente di lingua persiana all’ Università Ca’ Foscari di Venezia, definisce Rumi “autore eurasiatico e cosmopolita”. In lui troviamo echi delle Sacre Scritture, dei frammenti presocratici e dei classici latini e greci, le vibrazioni culturali dell’Oriente mediterraneo, dei dervisci islamici, dei brahmani persianizzati. In una sorta di panteismo mistico, Rumi vede nell’essere umano lo stesso respiro che anima la materia e l’infinito: “Una volta sei stato una pietra / una volta sei stato animale / e un umano vivente: tu adesso / diventa una vita”.

 

© Riproduzione riservata                   «La Poesia e lo Spirito», 15 maggio 2023

 

RECENSIONI

RUMIZ

PAOLO RUMIZ, ANNIBALE – FELTRINELLI, MILANO 2013

Paolo Rumiz non è solo un ottimo giornalista, indagatore di luoghi e di storie, e di storie che si intrecciano a luoghi: ma è anche un bravo, intrigante scrittore, e un abilissimo affabulatore. Con queste qualità ha saputo comporre un affresco descrittivo sul condottiero cartaginese Annibale, sfruttando fonti classiche (Polibio in primis) e profonde conoscenze geografiche, mitologiche, sociologiche, animato da un’indomabile passione per la ricerca e la ricostruzione di avvenimenti e personaggi pubblici e privati. Così è riuscito a seguire tutto il tragitto che nel 218 a.C. Annibale percorse, con novantamila uomini, dodicimila cavalli e decine di elefanti, per arrivare in Italia. “Cerco di immaginare questa massa in movimento, il polverone che solleva, l’odore che lascia, il rumore che fa. I bagagli, le scarpe, i vestiti, il foraggio”.

E noi lettori immaginiamo con l’autore, riflettendo sulle sue considerazioni, sui paralleli che suggerisce tra l’attualità e il passato remoto, reso infine più vicino e familiare. Nel maggio del 2007 Paolo Rumiz rimane folgorato da questo temerario e avventuroso progetto: cimentarsi con il mito di Annibale, ripercorrendo le stesse strade tortuose, attraverso montagne, corsi d’acqua e paludi; cercando di recuperare tracce ormai inesistenti, interrogando chiunque incontri (archeologi, contadini, osti, ricercatori dilettanti, professori universitari…).

Parte quindi da Cartagena, in Spagna, munito di uno zaino e qualche mappa. Attraversa la Francia meridionale, varca le Alpi, visita i luoghi delle battaglie più cruente e vittoriose del generale cartaginese, scopre che in duemila anni città e fiumi si sono spostati o sono stati cancellati, che la carneficina di Canne forse non è stata combattuta a Canne, che Annibale non è stato solo storia, ma mito, leggenda, epos, meteora incendiaria polverizzata dal suo stesso odio contro il potere imperialista e corrotto di Roma. Ci coinvolge e appassiona, insegnandoci molto.

 

© Riproduzione riservata           «sololibri», 22 settembre 2016

RECENSIONI

RUMIZ

PAOLO RUMIZ, ANNIBALE – FELTRINELLI, MILANO 2013

Paolo Rumiz non è solo un ottimo giornalista, indagatore di luoghi e di storie, e di storie che si intrecciano a luoghi: ma è anche un bravo, intrigante scrittore, e un abilissimo affabulatore. Con queste qualità ha saputo comporre un affresco descrittivo sul condottiero cartaginese Annibale, sfruttando fonti classiche (Polibio in primis) e profonde conoscenze geografiche, mitologiche, sociologiche, animato da un’indomabile passione per la ricerca e la ricostruzione di avvenimenti e personaggi pubblici e privati. Così è riuscito a seguire tutto il tragitto che nel 218 a.C. Annibale percorse, con novantamila uomini, dodicimila cavalli e decine di elefanti, per arrivare in Italia. “Cerco di immaginare questa massa in movimento, il polverone che solleva, l’odore che lascia, il rumore che fa. I bagagli, le scarpe, i vestiti, il foraggio”. E noi lettori immaginiamo con l’autore, riflettendo sulle sue considerazioni, sui paralleli che suggerisce tra l’attualità e il passato remoto, reso infine più vicino e familiare. Nel maggio del 2007 Rumiz rimane folgorato da questo temerario e avventuroso progetto: cimentarsi con il mito di Annibale, ripercorrendo le stesse strade tortuose, attraverso montagne, corsi d’acqua e paludi; cercando di recuperare tracce ormai inesistenti, interrogando chiunque incontri (archeologi, contadini, osti, ricercatori dilettanti, professori universitari…). Parte quindi da Cartagena, in Spagna, munito di uno zaino e qualche mappa. Attraversa la Francia meridionale, varca le Alpi, visita i luoghi delle battaglie più cruente e vittoriose del generale cartaginese, scopre che in duemila anni città e fiumi si sono spostati o sono stati cancellati, che la carneficina di Canne forse non è stata combattuta a Canne, che Annibale non è stato solo storia, ma mito, leggenda, epos, meteora incendiaria polverizzata dal suo stesso odio contro il potere imperialista e corrotto di Roma. Ci coinvolge e appassiona, insegnandoci tante cose.

IBS, 7 settembre 2014

RECENSIONI

RUMIZ

PAOLO RUMIZ, VERRANNO DI NOTTE – FELTRINELLI, MILANO 2024, p. 196

 

Con Verranno di notte, il più recente volume di una quadrilogia dedicata all’Europa, Paolo Rumiz (Trieste 1947), firma un pamphlet amaro e allarmante sulla situazione di stallo politico e morale in cui versa il nostro continente.

Nella sua casa di campagna sul confine giuliano, seduto accanto alla stufa in compagnia della sua gatta, Rumiz trascorre un’intera notte insonne a registrare le sue riflessioni su un’altra buia notte che minaccia di avvolgere il mondo. Ripassa mentalmente le memorie di una vita impegnata a raccogliere testimonianze, a mappare luoghi disagiati e dimenticati, paesaggi incantevoli deturpati dall’incuria e dall’abusivismo edilizio, esplorando vette e sottosuolo, descrivendo spiagge e vulcani, periferie e metropoli, incontrando segretari di stato, cardinali, magnati dell’industria e profughi accampati in scandalosi centri di raccolta.

Il suo rabbioso grido di rivolta è un richiamo forte alla mobilitazione democratica, in un’Europa che considera ormai eversivo difendere i principi fondanti della propria Costituzione, e si trova messa alle corde da indebitamento economico, spese militari, corruzione, disinformazione, privatizzazioni nel settore pubblico, muri reticolati e trincee a difesa degli egoismi nazionali: “Un’Europa gestita da antieuropei. Un’accozzaglia di sovranismi destinata a implodere e affondare l’Unione… una serra riscaldata”.

Le previsioni di Rumiz sul futuro del nostro continente sono fosche: “Temo che un’Europa disunita, e per di più senza figli, si ridurrà a casa di riposo, infernale gerontocomio, vascello fantasma alla deriva, di cui i poteri forti faranno un sol boccone”. Altrettanto feroce è il suo giudizio sul passato dei singoli Stati europei, con il colonialismo e le stragi perpetrate nei confronti dell’Africa.

Il parallelo che l’autore suggerisce con il 1914 e lo scoppio della prima guerra mondiale viene ribadito in maniera inquietante, già partendo dall’orgogliosa rivendicazione del ruolo rivestito dalla sua Trieste all’inizio del XX secolo, linea di demarcazione a ridosso dei Balcani, crocevia di culture, popoli e religioni diverse, fulcro dell’Impero Austro-Ungarico deputato a fare da cuscinetto a due mondi contrapposti, ambita testa di ponte per la penetrazione di potenze straniere nel Mediterraneo. Cittadino di frontiera, ripercorre la traumatica esperienza dello scoppio della guerra nei Balcani, vissuto in prima persona nell’aprile del ’92 a Sarajevo. Anche allora “ingenuità e candore” avevano impedito ai bosniaci di avvertire il subdolo avanzare del male, che sempre “trova il suo miglior nascondiglio proprio tra gli uomini di buona volontà”. Ugualmente oggi gli europei camminano sull’orlo di un abisso, sottovalutando colpevolmente l’inevitabile catastrofe futura.

Rumiz vede crescere una destra portatrice di un fascismo nuovo, che rumina “complottismo, negazionismo, vittimismo”, privo di ideologia ma affamato di supremazia, ben inserito nei meccanismi del potere pur parlando col linguaggio di chi è fuori dal potere. Una destra in grado di utilizzare la rete per amplificare e veicolare il malcontento popolare, indirizzandolo verso obiettivi antidemocratici e demonizzando il dissenso. L’autore considera la rete un “uragano mediatico eversivo… una macchina che rimbecillisce, divide la società, cavalca il peggio di noi e uccide il ragionamento col virus di un pensiero bipolare manicheo, partorito da algoritmi cinesi o americani”. Sarcastico è il ritratto che Rumiz fa di tre donne ai vertici della politica conservatrice europea: una Marine Le Pen moderatamente acrobatica, un’algida Ursula von der Leyen legata alle corporazioni agroindustriali e una Meloni-Lupa romana, che voracemente divora ministeri, musei, televisioni, parchi naturali.

Alla destra che avanza pericolosamente ovunque, si contrappone vanamente una sinistra curiale dalle idee confuse, bloccata nell’inerzia, incapace di proporre alternative credibili e di agire di conseguenza: soprattutto riguardo al problema urgente dell’immigrazione, completamente demandato ai metodi repressivi dei conservatori e dei reazionari, i quali soffiano sul fuoco del più facile razzismo. Così osserviamo impotenti, senza riuscire a regolamentare i sistemi di accoglienza, a un odio etnico diffuso, all’approvazione di leggi liberticide, alla costruzione di disumani campi di prigionia e all’occultamento di fosse comuni, mentre migliaia di migranti annegano nei nostri mari, e i richiedenti asilo vengono arrestati e deportati su voli charter verso destinazioni sconosciute.

Gran parte dei cittadini europei esprime ormai un evidente malessere nei confronti degli immigrati che vivono di sussidi statali, o non lavorano e delinquono, diventando terreno di conquista per le mafie in cerca di spacciatori o di manodopera a basso costo.

Esiste oggi un pericolo concreto di guerre combattute con armi atomiche, di nuovi tracolli finanziari, di persecuzioni contro gli oppositori politici, di perquisizioni e indagini lesive delle libertà individuali.

Eppure, in questo panorama sconfortante, in cui non si delinea nessuna univoca proposta nemmeno riguardo ai conflitti in corso, tra Russia e Ucraina, tra Israele e Palestina, appaiono qua e là i riflessi di incoraggianti punti luce, innestati da pacifisti, obiettori di coscienza, giovani che manifestano per la pace e l’ambiente: “segnali deboli” che anticipano un cambio di tendenza, da appoggiare con convinzione e passione in difesa delle democrazie europee.

Paolo Rumiz lo fa instancabilmente con l’impegno e gli strumenti che gli sono propri: “Quelli come me non hanno che parole da offrire. Ma le parole non sono poco, in questo sconfortante silenzio… Se la barbarie dilaga, quanto più importante è coltivare piccoli orti in cui le parole si salvano dalla distruzione”.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 26 maggio 2024

RECENSIONI

SACERDOTI

GILBERTO SACERDOTI, PELTRO E ARGENTO – MOLESINI, VENEZIA 2023

L’intensa postfazione di Bianca Tarozzi a Gilberto Sacerdoti (come lei anglista di fama, traduttore di Shakespeare, Thomas Hardy e Seamus Heaney) e al suo libro Peltro e argento, antologia poetica pubblicata quest’anno dall’editore veneziano Molesini, fornisce al lettore alcune chiavi di lettura importanti per penetrare i vari e stratificati caratteri della raccolta. Un’attenzione meditata alla natura (acqua e cielo, in primis), ai fenomeni meteorologici (pioggia), ai colori in tutte le loro sfumature, segna la “complessità espressiva e di pensiero” di questo autore dalla “vocazione metafisica” e dall’ “anima musicale”.

Gilberto Sacerdoti (Padova 1952), già docente di letteratura inglese a Roma Tre, ha pubblicato tra il 1978 e il 2001 tre importanti libri di versi, da cui sono tratte alcune poesie inserite nel volume di cui ci occupiamo, insieme ad altre composizioni inedite. La poesia che apre il libro (tratta da Fabbrica minima e minore) è assolutamente esemplificativa della tecnica compositrice del poeta, non solo per l’accuratezza descrittiva, ma proprio per l’accorta sensibilità al suono. Musicalità raggiunta metricamente sia con l’alternarsi armonioso di endecasillabi e decasillabi, sia con le insistite rime in -are (mare, pescare, respirare, tornare), sia attraverso la ripetizione avvicinata dello stesso verso (“mezzogiorno tiepido di marzo”) e con il reiterarsi di sostantivi (“acqua” quattro volte, “mare” cinque volte). L’immagine della laguna veneta colta nella sua placidità primaverile viene ribadita poi dalla scelta meditata degli aggettivi (lenta, chiusa, tiepido, calmo, liquido, fermo), con l’intenzione di suggerire al lettore il respiro rasserenante di una tarda mattinata veneziana, sebbene in contrasto con l’affermazione malinconica degli ultimi due versi: “ed io rimango fermo nei miei occhi / e sono senza mare a cui tornare”.

Mi sono soffermata sul commento di questa poesia di apertura perché mi sembra caratterizzante dell’atmosfera di molte altre composizioni contenute nella prima sezione. Come giustamente sottolinea Bianca Tarozzi nel suo intervento, l’io del poeta più che definirsi nell’esplorazione introspettiva, è un io che osserva e ascolta gli elementi ambientali, e nel rendere con gentilezza visioni e suoni rivela dichiaratamente l’eredità di due “numi tutelari”: Saba e Penna. Troviamo molta luce e molta Venezia in questa prima parte del libro, colori luminosi (azzurro, arancione, verde, bianco, oro) e fiori, gabbiani, cani addormentati, lucertole, insetti. Si mostra “dolce e docile la vita”, da celebrare con un’eccedenza di cantabilità volta a esprimere gratitudine per l’esistente: “Sono come fumo bianco le parole / che m’escono asciugandomi qui al sole”. I “momenti estatici” di cui scrive Tarozzi si susseguono nella contemplazione silenziosa del paesaggio, favoriti dal tepore delle giornate, dalla consolante bellezza del panorama.

Ma già nelle ultime composizioni la città amata mostra il suo aspetto negativo, addirittura nauseante: improvvisamente bizantina, corrotta e corruttrice, invasa da “popoli bastardi”, da “giovani lascivi ed indolenti”, bagnata da acqua resa rancida da “alghe voraci”. Sacerdoti cambia decisamente registro nei versi assunti da Il fuoco, la paglia (1988), che risultano severi e risentiti, quando l’esaurirsi dell’idillio incoraggia uno sguardo più critico sulla società, sulla storia e sulla natura. Si affacciano figure umane, non solo comparse sullo sfondo, ma veri e propri interlocutori ideali del poeta: Sant’Antonio, Amundsen, i pittori Claesz, Bellini e Guercino. Cancellata la tiepida brezza primaverile delle prime poesie, regna ora un luglio torrido e fradicio di sudore. Ai nuovi contenuti risponde uno stile franto e talvolta colloquiale, e accanto agli endecasillabi appaiono novenari e settenari, le rime si attenuano, la musicalità è meno distesa.

In tal modo ci si avvicina alla produzione del nuovo millennio, con le poesie di Vendo Vento (2001) e gli inediti, in un acuirsi di consapevolezza interpretativa che scava sotto la superficie per arrivare alle falde del vero, della realtà. Farfalle, api, mosconi sprofondano “nel cuore marcio del crisantemo”, il miele da biondo si tinge di nero, rondoni e gabbiani stridono, spuntano “fioracci” tra i detriti, la notte è infetta e la penna si trasforma in un bisturi a cui è demandato il compito di sezionare “l’ameba irrancidita” che divora corpo e mente. Non più marzo, e nemmeno luglio: sono adesso i mesi autunnali quelli più indagati, pioggia vento e nuvole sostituiscono il sole gentile delle poesie giovanili.

Una negatività prima sconosciuta adesso viene accettata perché rivelatrice del male da non tacere. Gilberto Sacerdoti prega quindi un san Giorgio vendicatore: “parti lancia in resta, / spurga, prosciuga, sana, cauterizza, / spalanca i vetri, lascia entrare il vento”. Nella maturità si affrontano dilemmi esistenziali, si cercano risposte negli altri poeti (Whitman, Hopkins), si interrogano le divinità rimaste a lungo sorde e mute: “tocca vivere, morire e non capire?”. E nei versi inediti si affaccia per la prima volta l’ironia, l’unghiata sarcastica, evidente anche nei disinvolti inserti linguistici (glu, glu e glu; c!; ha-ha-ha-ha). Con gli anni, “Gela, ispessisce il sangue”, e “l’argento si spegne nel peltro”, razionalmente, laicamente.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net           14 agosto 2023

 

RECENSIONI

SACHS

NELLY SACHS, POESIE – EINAUDI, TORINO 2006

L’editore Einaudi pubblicò nel 1971, riproponendole poi nel 2006, le Poesie di Nelly Sachs (1891-1970), nata a Berlino da una famiglia ebrea colta e benestante, che la crebbe con austera severità, educandola all’arte e alla musica, e proteggendola amorevolmente dalle intemperie storiche e da ogni frequentazione sociale che potesse turbarne la sensibilità e la salute cagionevole. Legatissima ai genitori, ebbe un unico grande amore, sostanzialmente platonico, per un giovane ucciso dai nazisti nel 1933 in quanto oppositore del regime. Nel 1940 riuscì ad evitare l’internamento in un campo di lavoro rifugiandosi con la madre a Stoccolma, dove rimase esiliata per tutta la vita, soffrendo sia per le crescenti difficoltà economiche sia per le gravi crisi psicotiche che la portarono a frequenti internamenti in clinica.

La sua produzione poetica, iniziata con pubblicazioni stampate in privato già negli anni ’20, si intensificarono soprattutto dopo la guerra, procurandole un crescente successo di pubblico e la stima della critica, culminanti nell’assegnazione del premio Nobel nel 1966. Nutritasi culturalmente del romanticismo tedesco (Hölderlin, Novalis) e della mistica medievale e chassidica, fu considerata appartenente all’alveo dell’espressionismo tedesco, ma lontana da esplicite influenze contemporanee. Da una riflessione iniziale legata alle sue vicende biografiche di scampata allo sterminio, e da una seconda fase di scrittura intessuta di riferimenti biblici, più astrattamente spirituale, passò infine a una poesia indirizzata verso l’ermetismo e la condensazione linguistica sulle orme dell’amico Paul Celan, con cui ebbe un ricco e tormentato rapporto epistolare. Entrambi fortemente segnati dalla stessa origine ebraica, dalla tragica persecuzione nazista, dall’uso comune della lingua tedesca e da uguali angosce psichiche, i due poeti influenzarono e alimentarono reciprocamente la loro opera, similmente drammatica e sofferta.

Il volume, introdotto e curato con puntuale intelligenza da Ida Porena, antologizza versi ricavati da otto raccolte, pubblicate nel trentennio 1940-1970. I temi fondamentali e ricorrenti sono inizialmente quelli dell’innocenza calpestata, in cui le vittime della storia e della crudeltà dei carnefici (bambini, vecchi, sopravvissuti, nascituri, «voci solitarie», «creature di nebbia») non hanno nessuna possibilità di ribellarsi o difendersi: «Oh, i camini / sulle ingegnose dimore della morte, / quando il corpo di Israele si disperse in fumo / per l’aria», «Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe, / quando doveste alzarvi per morire? / La sabbia che Israele ha riportato, / la sabbia del suo esilio?», «Noi superstiti, / ancora divorati dai vermi dell’angoscia – / la nostra stella è sepolta nella polvere. / Noi superstiti / vi preghiamo: / mostrateci lentamente il vostro sole. / Guidateci piano di stella in stella. / Fateci di nuovo imparare la vita». In un secondo momento prevale la riscoperta delle voci antiche e sapienziali dei profeti dell’Antico Testamento, della cabbala e dello Žohar, con un’adesione viscerale all’alchimia segreta che si situa alla base della parola poetica: «Se la voce dei profeti / soffiasse / nei flauti-ossa dei bambini uccisi, / espirasse / l’aria bruciata da grida di martirio – / se costruisse un ponte / con gli spenti sospiri dei vecchi – // Orecchio degli uomini / attento alle piccolezze, / sapresti ascoltare?», «E allora scrisse l’autore del Žohar / e aprì le vene del linguaggio / e attinse sangue dalle stelle / che invisibili ruotavano, accese / solo dalla nostalgia».

Ovviamente il tema della morte e della dissoluzione fisica aleggia incombente e desolato in ogni pagina («Il dolore abita queste liriche», commenta Ida Porena), ma quasi addolcito da una sorta di rassegnazione, di fatalismo che accomuna ogni fibra vivente: «Ci esercitiamo già alla morte di domani / quando ancora appassisce in noi l’antica morte – / Oh, angoscia insostenibile dell’uomo», «Morti adorati / un capello fatto di tenebra / significa già lontananza / cresce lieve per il tempo dischiuso». Questa cappa plumbea di angoscia viene alla fine riassorbita nella consapevolezza dello scorrere inarrestabile del tempo, è inglobata nel sentimento cosmogonico di uno spazio stellare infinito, attraverso una visionarietà che travalica e supera i mali e le ingiustizie della storia umana.: «Mari e crateri / colmi di pianto / in viaggio per stazioni stellari / oltre la polvere», «Notte / notte / la veste corporea / tende il suo vuoto / mentre cresce lo spazio / via dalla polvere senza canto», »Terra, vecchio pianeta, ventosa al piede / che vuol volare», «l’aria racconta di una luce! / La terra ruota e ruotano le stelle». Stelle e galassie, cieli e spazi cosmici riflettono dall’alto gli elementi terrestri che Nelly Sachs cita con più frequenza: polvere e sabbia, quasi a voler confrontare la caducità dell’elemento umano, con tutta la sua inconsolabile sofferenza, all’eternità luminosa di ciò che lo trascende, e a cui pure deve saper prestare voce la poesia.

 

«Il Pickwick», 2 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

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