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RECENSIONI

LA PORTA

FILIPPO LA PORTA, UN’IDEA DELL’ITALIA – ARAGNO, TORINO 2012

Quasi 150 recensioni su scrittori italiani (di successo, esordienti, semisommersi, scomparsi: narratori puri, pamphlettisti, saggisti) che negli ultimi dieci anni il critico Filippo La Porta ha pubblicato su riviste e quotidiani, limitate coerentemente in una misura rigorosa, di quasi due cartelle. Nei suoi articoli, La Porta si vincola al rispetto fedele di un severo ruolino di marcia: una fulminante frase d’apertura che condensa spettacolarmente il libro di cui si parla, in seguito il riassunto della trama e qualche notizia sull’autore, e infine il giudizio di valore sulle qualità letterarie del prodotto editoriale esaminato. Seguendo con riconoscenza le orme del suo maestro Geno Pampaloni, La Porta si propone come obiettivo di riuscire a risalire dall’opera all’autore, dallo stile al ritratto psicomorale, rischiando di suo anche giudizi azzardati o contestabili: convinto com’è che “un romanzo ci aiuta a capire il mondo, e noi stessi, quanto più riusciamo a descriverlo con precisione”, e che ogni opera vada interrogata “alla luce dei dilemmi morali del nostro tempo”. Quindi questa sua carrellata non esaustiva sulla recente narrativa italiana può aiutare a comporre un ritratto della società italiana attuale, con i suoi pregi e difetti, eroismi e compromessi, scandali e assoluzioni. Il volume si compone di due sezioni, dedicate alla scrittura di fiction e a quella più riflessiva, e i nomi prescelti vanno dai più famosi (La Capria, Saviano, Busi), ai più nuovi e promettenti (Nori, Cerasa, Raparelli), dai classici (D’Annunzio) a una notevole presenza femminile (Murgia, Ravera, Agus, Mazzucco…), dai critici letterari ( Fofi, Berardinelli, Benedetti, Fortini) fino ad outsiders come Sottsass, Battista, Bonami-Volpi, Castaldo. Molti elogi convinti, parecchie condivisioni entusiastiche, qualche distinguo e circospezione, in pratica inesistenti le stroncature: forse uno sguardo troppo generoso sul nostro paese e sulla sua produzione letteraria.

IBS, 2 luglio 2012

RECENSIONI

LAFORGUE

JULES LAFORGUE, ULTIMI VERSI – MARCO SAYA EDITORE, MILANO 2020

Jules Laforgue, nato a Montevideo nel 1860 da una famiglia di origine bretone, morì ventisettenne di tubercolosi a Parigi. In vita fu poco compreso, o comunque sminuito nel suo valore letterario, dai poeti francesi che avevano fatto della trasgressione antiborghese la loro cifra stilistica innovativa. Furono gli americani Ezra Pound e T.S. Eliot, arrivati in Europa ai primi del Novecento, a rivalutare il timido e malinconico cantore dei paesaggi notturni, intuendo la novità insita nel ritmo eterogeneo dei suoi versi e nei timbri inconsueti, ironici o inteneriti, popolareggianti o colti.

L’editore milanese Marco Saya (che azzardo, oggi, pubblicare esclusivamente libri di poesia, curati nella grafica ed eleganti nelle copertine, scommettendo sulla fedeltà di pochi e scelti lettori!) propone ora i suoi Ultimi versi, usciti postumi nel 1890, a cura di Francesca Del Moro con postfazione di Fabio Regattin.

Nelle dieci canzoni che compongono il volume, specialmente ne L’ inverno che viene e in Assolo di Luna, Laforgue si cimentava in uno stile pionieristico, di ampio respiro, musicalmente liberante, ricco di sonorità nitide, richiamandosi in parte al verso lungo di Walt Whitman, che era stato il primo a tradurre in Francia. Attilio Bertolucci, in un articolo del 1986, ne consigliava la lettura agli aspiranti poeti nostrani, indicandola come “un’esperienza tonificante”. Il giovane Jules era consapevolmente orgoglioso di essere un precursore, difficilmente associabile alla produzione coeva dei letterati parigini, secondo quanto scrisse in Simple Agonie alludendo a se stesso: “Venuto troppo presto, ripartì senza scalpore”.

Nella sua appassionata introduzione, Francesca Del Moro – dopo l’accurata ricostruzione biografica – offre al lettore una chiave interpretativa della poesia laforgueiana non solo situandola cronologicamente nel cupo periodo della repressione della Comune, ma anche analizzando la linfa intellettuale di cui si era nutrita, in una cultura allora dominata dal determinismo storico, dall’evoluzionismo darwiniano, dal naturalismo in letteratura e dall’impressionismo in pittura. Un crogiolo di nuove idee e di sperimentazioni formali, in cui Jules Laforgue cercò tenacemente un proprio originale percorso, alimentato da un’angoscia esistenziale acutamente trasformata in elegante e arguto umorismo. Gli interessi scientifici e filosofici lo orientavano verso un pessimismo cosmico che investiva qualsiasi aspetto delle relazioni umane, comprese quelle sessuali. Del proprio ateismo conflittuale, venato da tentazioni misticheggianti e buddistiche, scrisse, appena ventenne: “Credevo. Poi, brusca lacerazione. Due anni di solitudine nelle biblioteche, senza amore, senza amici, la paura della morte. Notti a meditare in un’atmosfera da Sinai”.

Se nelle prime poesie temi prediletti erano la luna, i tramonti, le lacrime, le danze macabre, i simboli religiosi, le maschere imbiancate di vari Pierrot, negli Ultimi versi l’attenzione descrittiva si rivolse alla natura, al mutare delle stagioni, alle feste popolari, ai riti sociali celebrati con polemico sarcasmo, in un eccitato stravolgimento per le illuminazioni offerte dai cinque sensi: suoni e profumi, visioni e parole rincorrentesi in cantilene, sussurri, strepiti: “O gerani diafani, guerreschi sortilegi, / monomani sacrilegi! / Imballaggi, libertinaggi, docce! / O torchi delle vendemmie nelle sere eccezionali! / Corredini spacciati, / Tirsi in fondo alle boscaglie, l’eterna pozione, / trasfusioni, rappresaglie, / pastiglie e purificazioni post-natali, / Angelus! Ci siamo ormai stancati / di disfatte nuziali! di disfatte nuziali!…”, “A braccetto, a braccetto, / invece di rincasare, / che ne dite di andare / a bere un goccetto?”, “No, no! È succhiare la carne di un cuore eletto, / adorare ogni organo infetto, / intravedersi prima che i tessuti vadano in avaria, / come reclusi, affetti da monomania!”, “Sul letto ammucchio biancheria sporca, giornali, / schizzi di moda, foto dozzinali, / tutta la capitale, matrice sociale. / Nessuna intercessione: / non darà alcun frutto, / l’unica soluzione è distruggere tutto”.

Fu soprattutto però nelle scelte formali che si compì la sua volontà anarchica di liberare la poesia dai vincoli che la ancoravano al passato, attraverso la disarticolazione delle strutture metriche tradizionali, l’utilizzo di ipermetri e ipometri, e versi liberi, dilatati fino all’eccessivo alessandrino. Particolarmente meditato fu l’impiego di un ricco ordito sonoro, modulato con rime stravaganti, numerose assonanze e allitterazioni e onomatopee, per evidenziare la sua nuova fede nella musicalità del testo poetico, come esplicitamente dichiarava in Simple Agonie: “Oh! che / della natura divinando l’attimo più solo, / la mia melodia, unica e intera, / salga nella sera / e raddoppi e faccia ciò che può, / e sia sincera, assolo / di singhiozzi, e ricada e riprenda / e muova a compassione, / e riprenda e ricada, / secondo la sua mansione. / Oh! che la mia musica sia / crocifissa come in fotografia, / china sui gomiti, piena di malinconia!” Stilisticamente, le composizioni postume sono caratterizzate da una sintassi paratattica, esclamativa, interrogativa e vocativa, con l’esibizione di un lessico straniante, ricco di neologismi e termini settoriali, in un ritmo franto capace di rompere con le poetiche classiche e le più recenti mode simboliste e parnassiane. “I corni, i corni, i corni – pieni di malinconia!… / pieni di malinconia!… / Se ne vanno mutando tono, / mutando musica e suono, / ton ton, ton ten, ton ton!…”

Laforgue ancora oggi viene considerato come “il maggiore tra i minori” poeti francesi di fine ’800, a motivo della sua scarsa accessibilità, secondo quanto affermava il critico americano Robert Ralph Bolgar: “Le poesie o i racconti di Laforgue […] contengono più novità di quante la mente possa accettare senza uno sforzo consapevole”. Ancora più lodevole, quindi, la decisione di Marco Saya di pubblicare in edizione completa i suoi Ultimi versi nella nuova e originale versione di Francesca Del Moro, la quale in una nota esplicativa (le cui motivazioni vengono ribadite dalla postfazione di Fabio Regattin), si sofferma a illustrare obiettivi e difficoltà del suo lavoro di traduttrice, che ambendo a preservare a ogni costo la struttura del testo originale, ha optato per renderlo attraverso una forma fedelmente mimetica.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 7 dicembre 2020

 

 

 

 

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LAGERKVIST

PAR LAGERKVIST, PELLEGRINO SUL MARE – IPERBOREA, MILANO 2012

Un romanzo strano, questo di Pär Lagerkvist (premio Nobel nel 1951): breve, scritto in una lingua piana, con uno stile facilmente accessibile, attraversato da trame diverse, e diviso in due blocchi poco comunicanti tra loro. Inoltre, con un finale sospeso, in attesa di una conclusione che arriverà due anni dopo la sua pubblicazione, nel racconto lungo del 1964 intitolato La Terra Santa.

Pellegrino sul mare racconta la storia di due personaggi alquanto misteriosi, le cui vicende si intrecciano casualmente su un battello di pirati diretto verso la Palestina: Tobias vi si è imbarcato dopo aver perso il posto prenotato su una nave di fedeli cristiani, ritrovandosi male accolto da un’equivoca ciurma di vecchie canaglie: un capitano violento e avido, quattro o cinque marinai sanguinari, e Giovanni, un oscuro uomo di mare, scontroso e tormentato.

I motivi che hanno spinto Tobias a salire a bordo per raggiungere la culla della cristianità rimangono ignoti al lettore: probabilmente sta fuggendo da una colpa, da un rimorso, in cerca di una risposta alle sue inquietudini. Invece, le ragioni per cui Giovanni ha scelto di passare la vita sul mare sono molto concrete, e l’autore le espone nella seconda parte della narrazione. Alla base della scelta di entrambi c’è tuttavia la consapevolezza che l’elemento equoreo aiuta ad allargare la coscienza, avvicina all’infinito, placa le ansie nella sua vastità sconfinata: “Il mare racchiude più sapere di qualsiasi altra cosa sulla terra, se sei capace di farlo parlare. Conosce tutti i vecchi segreti, perché lui stesso è così antico, più antico di tutto. Anche i tuoi segreti conosce, non illuderti. E se tu ti abbandoni a lui completamente e lasci che si prenda cura di te, se non ti intrometti con le tue insignificanti obiezioni… allora può dare pace alla tua anima… Anche se percorri la terra tutta intera, non imparerai mai tante cose quante ne imparerai dal mare. Non troverai mai pace se non sul mare, che da parte sua non ha mai pace”. La traversata è resa avventurosa da burrasche e tifoni, e dalla brutalità della vita di bordo: assalti ad altre imbarcazioni, zuffe e omicidi. Quando Giovanni salva fortunosamente Tobias da un’aggressione, tra i due nasce una complicità solidale, e un bisogno reciproco di confessione e comprensione. Giovanni racconta così la sua storia di ex-prete, strappato alla fede e alla Chiesa da una passione illecita e clandestina per una nobildonna, sua ambigua ma affascinante penitente. La seconda parte del romanzo è quindi una lunga e appassionata confessione del tormento di un’anima travolta da un’irresistibile smania di sensualità e concupiscenza, a cui non sa opporre che la volontà di abbrutimento, in una fuga perpetua da se stessa e dal proprio passato. Il mare accoglie maternamente l’angoscia dei due naviganti, pellegrini verso una terra di redenzione che appare sempre più lontana e irraggiungibile.

 

© Riproduzione riservata              25 marzo 2022

SoloLibri.net › Pellegrino-sul-mare-Lagerkvist

 

 

 

 

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LAGERKVIST

PÄR LAGERKVIST, IL NANO – IPERBOREA, MILANO 2017

Pär Lagerkvist (1891-1974) è stato uno dei maggiori scrittori svedesi, Premio Nobel nel 1951. Nato in un’umile famiglia contadina, dopo una rigida educazione pietistica, aderì al socialismo e, durante un soggiorno parigino, alle avanguardie letterarie. In tutte le sue opere (poetiche, teatrali e di narrativa) la tensione religiosa è predominante, come ricerca spirituale, sensibilità alla colpa e all’ingiustizia umana, e desiderio di fratellanza universale. All’avvento del nazismo, prese di mira le aberrazioni del potere nei romanzi Il boia (1933) e Il nano (1944). Dopo la guerra la sua ricerca di una risposta ai dubbi religiosi proseguì con Barabba (1950), che ebbe un grande successo internazionale, con La sibilla (1961) e con Marianne (1967). Il nano, pubblicato durante la seconda guerra mondiale, si può leggere come un’acuta metafora della tragedia bellica, determinata da volontà di sopraffazione, brama di potere, sete di vendetta.

Protagonista è un nano al servizio di un Principe in una corte rinascimentale italiana, probabilmente a Firenze, anche se scenari e personaggi storici rimangono indefiniti, e riconoscibili solo attraverso enigmatiche allusioni. Fornito di un’alta considerazione di sé, e di un altrettanto elevato disprezzo per gli esseri umani che lo circondano, vive la propria anomalia come tratto distintivo e indicativo di eccezionalità rispetto a chi gli è vicino. Voce narrante del romanzo, sarcastica e criticamente incisiva, così si descrive dalle prime battute: “Sono alto ventisei pollici, il corpo tutto proporzionato… Il mio volto è imberbe, ma nel resto precisamente identico a quello degli altri uomini… Sono fatto in questa maniera e non ci posso fare niente se gli altri non sono così… Mi sembra che il volto degli altri sia del tutto insignificante”.

Rosso di capelli, grinzoso nel viso, fornito di grande robustezza e di audacia di carattere, si vanta di discendere da una razza antica, nata già vecchia, e per questo mentalmente e fisicamente superiore ai suoi contemporanei, da lui genericamente e sprezzantemente definiti come “gli altri”. La disistima nutrita nei riguardi altrui non risparmia nemmeno i Signori di cui è alle dipendenze, non come buffone, ma come consigliere e confidente: il Principe, impenetrabile nei suoi disegni di dominio, ma ingenuamente sprovveduto; la Principessa Teodora, ordinaria, ignorante e dissoluta; la loro figlia adolescente Angelica, inespressiva e immatura. Il disgusto del nano è rivolto soprattutto alla corte, brulicante di gente corrotta e inutile, avventurieri e lestofanti, sedicenti artisti e scienziati imbroglioni, sgualdrine e ruffiani: tutti pronti ad adulare e a tradire. Di fronte a loro, la bassa statura del protagonista, e il continuo dileggio altrui di cui è vittima, sono indice di esclusione e auto-esclusione, persino nello sfrenato competere delle diverse malvagità che animano ogni personaggio.

L’odio viscerale che il nano prova verso gli esseri umani, la sua repulsione per ogni aspetto materiale dell’esistenza (cibo, sesso, arte, religione, sporcizia, povertà, malattia, amore) è riservato anche alla propria vita e corporeità, da cui mantiene una gelida e controllata distanza: “Ma io odio anche me stesso. Mangio la mia propria carne intrisa di fiele. Bevo il mio proprio sangue avvelenato. Ogni giorno compio il mio rito solitario, sinistro sommo sacerdote del mio popolo”.

Misantropo, misogino, prova soddisfazione nell’annientare gli avversari, sia che siano alleati o nemici del suo signore. L’unica figura verso cui nutre un timoroso rispetto, intuendone l’eccellenza intellettuale e morale, è Bernardo, anziano pittore e scienziato che presta i suoi servigi a corte, disegnando macchine da guerra, studiando le costellazioni, sezionando cadaveri e dipingendo quadri straordinari, tra cui affascinanti ritratti femminili e una grandiosa Ultima Cena. L’evidente richiamo a Leonardo Da Vinci non è l’unico omaggio alla storia e alla cultura italiana, ricordata anche in molti riferimenti letterari e architettonici.

Quando il Principe dichiara guerra al confinante casato dei Montaza, da sempre ostile, il nano ottiene di arruolarsi e di partecipare alle battaglie più cruente, saziando così la sua brama di sangue e di fama: “Voglio combattere, voglio uccidere! Non per procurarmi la gloria, ma per il piacere dell’azione, della gesta in se stessa. Voglio veder cadere uomini, vedere morte e distruzione attorno a me, là dove sono”. In seguito all’armistizio e alla proposta di pace imposta dalle grandi potenze nazionali, la Signoria mette in atto un diabolico piano di soluzione finale, avvelenando gli avversari durante un finto banchetto di riconciliazione: sarà proprio il nano a doversi occupare materialmente dell’eccidio. I terribili avvenimenti che ne seguono (un nuovo conflitto e il diffondersi della peste in città) provocano nell’animo del protagonista-narratore il radicalizzarsi di sentimenti estremi, sottolineati dal reiterato utilizzo degli stessi sostantivi: nausea, ripugnanza, disgusto. Le sue azioni, sempre più scellerate, lo condurranno a essere imprigionato e torturato, mentre l’intero suo universo mentale e sociale cade a pezzi. La figura abietta del nano, con la totale mancanza di pietà e di scrupoli morali che lo caratterizza, incarna l’abiezione dei tempi tragici in cui Lagerkvist compose il romanzo, che a ottant’anni di distanza mantiene tuttora la sua carica di dirompente denuncia morale, e continua a dimostrare una pregevole qualità di scrittura.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 17 marzo 2022

 

RECENSIONI

LAGIOIA

NICOLA LAGIOIA, UN ALTRO NUOTATORE – ZOOM FELTRINELLI, MILANO 2012

La collana Zoom di Feltrinelli offre ai lettori e-book a prezzo ridotto (talvolta, come in questo caso, ridottissimo): racconti leggibili in mezz’ora. Lo spazio di una zoomata, appunto, sfruttabile magari durante un percorso in tram o nella pausa-pranzo. Narrativa, saggistica, inchieste, raramente poesia. Senza evidenti pretese di presentare capolavori letterari, o approfondimenti culturali, piuttosto con un’intenzione di puro intrattenimento. Spesso ci troviamo davanti a estratti di romanzi, a singoli capitoli di lavori più impegnativi: una specie di antipasto o di dessert, che tuttavia rischia di suscitare in chi legge qualche perplessità, la sensazione di un’aspettativa delusa, quasi a dire “Tutto qui?”, “E allora?”. È il caso delle pagine in questione, che il premio Strega 2015 (nonché conduttore radiofonico, Direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino e di una collana della casa editrice Minimum Fax) Nicola Lagioia ha pubblicato con il titolo Un altro nuotatore. Contenuto esile per una scrittura scattante, raffinatamente informale, modulata sullo stile dei narratori americani contemporanei, con frasi brevi e incisive, poche subordinate, nessuna metafora. La storia è ambientata in una zona residenziale sull’Appia, tra ville abusive con piscine, terrazze, giardini ornati di orrende statue di gesso, campi da tennis e Ferrari parcheggiate nei vialetti ombrosi. In un afoso pomeriggio estivo, cinque Alfa della polizia circondano silenziosamente l’abitazione della famiglia Candito, provocando la morbosa curiosità di due gemelli sedicenni, vicini di casa piuttosto renitenti a frequentare i coetanei del posto, che considerano con un misto di sospetto, invidia e vago disprezzo. I poliziotti, informati dai due ragazzi riguardo alla presenza nella ricca e pacchiana dimora del figlio adolescente dei Candito, penetrano in casa, abbagliati dallo sfarzo volgare dei tendaggi, delle ceramiche, dei quadri e delle cornici. Saverio, il rampollo accusato di traffico di eroina, viene tratto in arresto insieme a un amico, mentre un terzo complice, Giancarlo, ignaro dell’irruzione militare, continua a nuotare nella lussuosa piscina sotterranea della villa. Su di lui si sofferma la pagina finale della narrazione, che alquanto inspiegabilmente descrive l’esistenza di un altro nuotatore invisibile e vigoroso, che surclassando il compagno di crawl, lo sfida, spronandolo, provocandolo. Sconcertato, il lettore può interrogarsi su questa conclusione limbica e apparentemente incomprensibile: a meno che un’intuizione peregrina arrivi ad illuminargliene la memoria. Non sarà che Nicola Lagioia abbia voluto con questo brano rendere omaggio allo splendido racconto Il nuotatore di John Cheever (anch’esso pubblicato negli Zoom Feltrinelli), suggerendo con sottile ironia il confronto tra due ambienti, due stili, due profondità diverse? La Roma dei palazzinari e la California plutocratica, chi si esibisce in piscine sotterranee e chi nuota sfidando sé stesso e il destino, pur scontrandosi con l’implacabilità di un fallimento, sono metafora del duello assillante di un giovane scrittore italiano con un gigante della letteratura americana? “Erano in contatto perenne. Avvertivano la presenza l’uno dell’altro, si parlavano nel sonno. Ogni azione intrapresa da Giancarlo era una sfida, un ammutinamento e un disperato tentativo di ricevere approvazione da questa presenza… Non hanno steso un trattato di pace ma non si sono mai neanche separati. E nei momenti particolarmente difficili, scendevano da avversari nell’arena e combattendo diventavano una cosa sola”. È un’ipotesi suggestiva, che offre una sfumatura di intelligente e simpatico understatement a questa operazione editoriale.

 

© Riproduzione riservata      

https://www.sololibri.net/Un-altro-nuotatore-Lagioia.html                       5 settembre 2018

 

 

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LAGOMARSINI

CLAUDIO LAGOMARSINI, AI SOPRAVVISSUTI SPAREREMO ANCORA – FAZI, ROMA 2020

 

Un incipit ungarettiano, quello con cui Claudio Lagomarsini apre il suo primo romanzo, pubblicato da Fazi, Ai sopravvissuti spareremo ancora: “Di tanti che eravamo siamo rimasti in pochi” (Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto, scriveva il poeta). Chi siano i sopravvissuti, e perché si debba loro sparare, il lettore verrà lentamente a scoprirlo, con qualche sorpresa.

La voce narrante del racconto è un giovane uomo incaricato dalla madre di vendere la vecchia casa di famiglia in Versilia: lui vive in un altro continente, avendo scelto di lasciarsi alle spalle il passato. Tra gli scatoloni preparati per il trasloco, trova l’abbozzo di un romanzo di suo fratello Marcello, da cui lo dividevano una piccola differenza d’età e una sostanziale estraneità di carattere. Legge gli appunti, “frastornato da una miscela di amarezza, angoscia e disincanto”, e leggendo recupera episodi avvenuti quindici anni prima e narrati con analitica severità, da cui nessun membro della famiglia sembra uscire bene. I cinque quaderni in cui Marcello aveva vergato la sua storia, con grafia minuta e quasi indecifrabile, prendono l’avvio da una rapina avvenuta nell’estate del 2002 nel villino di un vicino di casa ottantenne, chiamato “il Tordo”. Lentamente, attraverso le parole scritte, si delineano i caratteri dei familiari, le diverse ideologie e i rapporti faticosamente instaurati tra di loro.

Famiglia allargata, e piuttosto scombinata: una nonna ancora vivace, che nulla si nega e si è mai negata dal punto di vista sessuale; una madre separata dal marito, agronomo emigrato in Brasile quando i figli erano bambini; il nuovo compagno della mamma, rozzo negoziante (divorziato con due rampolli problematici), a cui è stato affibbiato il nomignolo di Wayne a motivo della sua passione per i film western e per le armi. Passione condivisa anche dal vecchio vicino derubato, che è l’ultimo amante della nonna, e coltiva a metà l’orto di casa insieme a Wayne, con i conseguenti e inevitabili litigi e reciproci dispetti, in una visione condivisa, e asfitticamente provinciale, del concetto di proprietà.

All’interno di questo variopinto universo adulto, ruota una costellazione giovanile altrettanto disarmonica. L’autore del romanzo in bozze, Marcello, è un liceale sensibile e colto, infelicemente innamorato della coetanea Sara, e orgogliosamente maldisposto nei confronti della fauna umana che lo circonda, ritenuta volgare, stupida, malvagia, violenta. Il fratello di lui, detto “il Salice” per la propensione alle lacrime, primo lettore del tragicomico diario: forse superficiale, forse indifferente, comunque deciso a non lasciarsi coinvolgere più di tanto dagli avvenimenti domestici. Un nipote gay del vecchio vicino, interessato esclusivamente alle mance del nonno e alle proprie volubili amicizie maschili. I due figli di Wayne, una insipida e impaurita Ramona, e un Diego modesto ladruncolo spacciatore di hashish.

Marcello registra nei quadernetti le sue emozioni di adolescente, una malinconica e rabbiosa ostilità nei riguardi del mondo ottuso da cui è oppresso, fantasie omicide e progetti di suicidio, (“Immagino com’è dolce, il non esistere più”), l’amarezza di un amore non corrisposto, i complessi causati da un leggero strabismo e dal fisico mingherlino, gli “accessi di disperazione e ira” che lo spingono al mutismo o a rabbie incontrollate, il fastidio intellettuale provocato dai programmi televisivi (Montalbano, Studio Aperto, Paperissima…), tanto apprezzati da chi gli è accanto. Insomma, la sua totale estraneità ai pregiudizi e alle isterie della piccola borghesia toscana in cui si trova a vivere, ne fa a tutti gli effetti la vittima predestinata, consapevolmente presago del destino che lo attende. A proposito del patrigno Wayne scrive: “Mi troverò seduto a tavola, col sorrisetto d’angelo a ridere delle battute volgari, delle trovate pecorecce e dei doppi sensi, degli aneddoti da spaccone che fanno ridere mamma. Lo guarderò trattarla come una serva e una badante, ordinarle il caffè con la distrazione sprezzante che non si riserva nemmeno a un aiuto-barista di un autogrill affollato. Lei come una cosa sua, ormai, che lui ha tolto a mio padre, e che mio padre, mansueto e remissivo, si è lasciato rubare zitto zitto, prima di scappare lontano a formattarsi la vita”.

Il lessico familiare forgiato da Lagomarsini è vivace e ironico, modulato sulla narrativa americana più recente, forse con qualche insistita e compiaciuta minuziosità nella parte centrale del romanzo, tuttavia riscattata dal finale imprevisto e drammaticamente risolutivo.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 23 gennaio 2020

 

 

 

RECENSIONI

LAHIRI

JHUMPA LAHIRI, RACCONTI ITALIANI – GUANDA, MILANO 2019, p. 539

Non è molto frequente che uno scrittore si innamori di una lingua e di una letteratura che non sono le sue, al punto da immergersene con passione totale, da specializzarsi nella traduzione dei suoi testi poetici e narrativi, da adottarne temi e stili, e infine da decidere di scrivere direttamente in quella lingua straniera, resa elettiva e propria. Ci sono alcuni esempi illustri di letterati che, provenendo da paesi diversi, per differenti ragioni hanno scelto di esprimersi in un linguaggio che non è quello nativo: Joseph Conrad, Samuel Beckett, Vladimir Nabokov, Arthur Koestler, Agota Kristof, Derek Walcott, Salman Rushdie, Tahar Ben Jelloun, Hanif Kureishi, Arundhati Roy.

Ma nella nostra contemporaneità e per quanto concerne l’Italia, a me vengono in mente pochi nomi, che esulino dalla produzione dei migranti (sempre più diffusa, ambiziosa, convincente): Giorgio Pressburger, Helena Janeczek, Alice Oxman, Gezim Hajdari, Jhumpa Lahiri…

Jhumpa Lahiri (Londra1967) è una scrittrice statunitense di origine indiana, professore di scrittura creativa all’Università di Princeton. Affascinata dalla cultura del nostro paese (ha un dottorato in studi rinascimentali), dal 2011 soggiorna a lungo a Roma con i due figli e il marito. Dal 2015 scrive direttamente in italiano e pubblica i suoi libri con le edizioni Guanda: nello stesso anno ha vinto il Premio Internazionale Viareggio-Versilia con il volume autobiografico In altre parole.

Autrice di saggi e romanzi, ha ottenuto importanti riconoscimenti: tra gli altri, il Pulitzer, il PEN/Hemingway Award e il Guggenheim Fellowship.

L’anno scorso ha curato e introdotto un’antologia di Racconti italiani, tra le più varie e interessanti uscite negli ultimi decenni sul territorio nazionale. Raccoglie quaranta autori, di cui undici donne, che appartengono tutti al gotha della nostra letteratura, anche se di alcuni di loro oggi rimane purtroppo scarsa memoria. Si va dal più antico, il classicissimo Giovanni Verga (1840-1922), rappresentato da una novella ambientata ad Aci-Trezza, premessa introduttiva a I Malavoglia, al più recente Antonio Tabucchi (1943-2012), riproposto con una storia che travalica i confini spazio-temporali, situandosi tra la nostalgia del déjà-vu e la speranza di un futuro solo ipotizzabile.

Ma troviamo anche un’allusiva Lalla Romano che lambisce le tentazioni erotiche di una villeggiante borghese, un asciutto Elio Vittorini che fa dialogare due personaggi sulla presenza aleatoria di un’enigmatica figura femminile, un originale Massimo Bontempelli che addirittura riesce a trasportare il mar Tirreno nel suo appartamento romano, un surreale Alberto Savinio umanizzante oggetti e arredamenti domestici. Possiamo rileggere commossi lo splendido racconto di Anna Maria Ortese Un paio di occhiali, la raffinata Cristina Campo, la severa Elsa Morante, il cerebrale Italo Calvino, l’arrabbiato Beppe Fenoglio, il caustico Giovanni Arpino, il tenero Carlo Cassola, il beffardo Flaiano. Audacemente oscillanti tra l’avanguardia, il tragico e il grottesco sono gli scritti di Landolfi, Gadda, Manganelli, e magistralmente raffinato quello di Tomasi di Lampedusa.

Una molteplicità di forme e contenuti, di ideologie e caratteri individuali, che si prestano a soddisfare i gusti di ogni tipo di lettore. I racconti antologizzati parlano di guerra e dopoguerra, di paesi contadini e città anonime, di coppie infedeli e famiglie in miseria, di solitudine e di impegno politico. Di donne e animali, di bambini e di vecchi. Utilizzano stili diversi: dal realismo al barocco, dallo sperimentale al postmoderno. Jhumpa Lahiri li introduce attraverso un sintetico ritratto di ogni autore, e un breve commento personale. Afferma con sincerità che la scelta dei quaranta scrittori è stata determinata dal suo particolare interesse e da una sensibilità spiccata nei riguardi della produzione letteraria di autori ibridi e complessi: poeti, giornalisti, artisti, musicisti, insegnanti, scienziati, traduttori che rappresentano tante sfaccettature della complessa società italiana, come si è evoluta nel corso dell’ultimo secolo, nei costumi, nella storia, nel paesaggio, nelle idee.

Il volume si conclude con un’utile tavola sinottica che scandisce la cronologia dei principali avvenimenti storici e letterari succedutisi in Italia dal 1840 al primo decennio del 2000.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 9 agosto 2020

 

RECENSIONI

LALIC

IVAN LALIC, POESIE – JACA BOOK, MILANO 1991

Unico volume antologico proposto al pubblico italiano nell’ormai lontano 1991, questa raccolta di versi del poeta serbo Ivan Lalić (1931-1996) mantiene intatto il suo fascino discreto ed elegante di comprensione intelligente e sensibile del reale, di attento recupero della memoria collettiva, di resa poetica raffinata e senza sbavature.
Una poesia che si nutre dell’osservazione meditativa di ciò che vive intorno (quindi il paesaggio, con le sue acque, gli animali e la vegetazione), e di cui il poeta ha il dovere morale di farsi interprete presso chi non sa o non può vedere: “Dì qualche cosa, esprimi / Questo momento: la rosa già mette le foglie, / L’aria infittisce dove verrà il fiore, / La lingua sanguina alla parola spina”, rassicurando il lettore sulla propria onestà di saggio veggente, e di privilegiato testimone: “fedeltà / All’immagine appena promessa, fedeltà alla parola / Non pronunciata nella breve memoria”.Il poeta impara dalla propria emotività ad amare il mondo semplicemente osservandolo, quasi constatandone con meraviglia la consolante bellezza, e sa di dover rendere agli altri, gratuitamente, nei versi, ciò di cui si è arricchito: “Ancora non so chi io aiuti così / A raccogliere i frantumi del mondo – / Piuma di gabbiano, piuma di angelo, questa parola…”; “Sono esperto di spazi di speranza, / Di spazi di pietà moderata”.

E non c’è nessuno iato tra natura e storia, passato e presente, privato e pubblico. Con la stessa dedizione Ivan Lalić descrive città europee (Venezia, Aquileia, Cambridge…) e campagne, affetti personali (la splendida commemorazione sulla tomba della madre) ed eventi bellici, echi biblici o classici e cronache giornalistiche: “essere / Fedele al visibile: ecco il compito vero”; consapevole della sua responsabilità di scrittore: “Chi ha lottato con l’angelo, ha compiuto / La storia in una notte: // a noi è prescritto / Di ricordare, di infliggere colpi; / Al pesco è prescritto di fiorire”.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Poesie-Ivan-Lalic.html       8 agosto 2016

RECENSIONI

LAMANTEA

ROBERTO LAMANTEA, LO STRAPPO BIANCO – INTERNO POESIA

Forse già dalle epigrafi che Roberto Lamantea (Padova, 1955) ha scelto come introduttive al suo libro di versi Lo strappo bianco, possiamo intuire quale sia il filo conduttore della sua riflessione poetica.

Louise Glück e Adam Zagajewski, scrivendo della “luce bianca / non più travestita da materia”, della “luce delicata che erra, svanisce / e ritorna”, sembrano alludere al dileguarsi del reale nella sua concretezza, quando sfuma in una impalpabile, evanescente luminosità. Luce bianca incorporea che, rischiarando ogni orizzonte, finisce tuttavia per confondere lo sguardo umano, incapace di spingersi oltre la consistenza delle cose.

Luce e bianco sono termini ricorrenti nel volume di Lamantea, quando parla del paesaggio “di luce in luce sfinito”, o del candore di ovatta cipria neve latte luna biancospino: bianco che si oppone al nero, alla minaccia della negatività. Questa luce, questo bianco dovrebbero rimandare al fiabesco, all’infanzia, alla genuinità, in contrapposizione alla prosaicità del reale… Ma “il metro del mondo / non sarà / un girotondo di fate /   e   zucchero e albe”, perché la storia non è mai innocente nelle sue vicende collettive e private, e il poeta ne è ben consapevole: “con le mani di terra / e corteccia / e linfa e spine / abbiamo arato colline / e sgozzato conigli // dalle zolle affiorano mani / e teschi”.

Il sangue versato da tutte le vittime di guerre a Treblinka, in Siria, in Iraq ne costituisce indelebile testimonianza.

Nemmeno la natura viene risparmiata da violenze e crudeltà, agite o patite. La metafora del bosco si ripresenta in tutte le sezioni del libro, anche in quelle dedicate a fugaci figure femminili che danno “sapore a un attimo distratto”, o a ricordi di vacanze adolescenziali. Il bosco, a cui è dedicata la prima sezione della raccolta, diventa simbolo di adesione panica all’esistenza, in un’apoteosi del vegetale (licheni foglie erbe rametti baccelli fronde muschi sterpi rami germogli rose glicini betulle) e dell’animale (scarabei insetti serpi ragni), in un tripudio di verde selvatico non addomesticabile, ma contemporaneamente può rappresentare una minaccia, nelle improvvise, abbaglianti visioni di pericolo e morte: “per mano ti portano per mano / nel bosco – non sentieri dossi rune / l’intrìco di rìvoli ex nidi / e spiume slavato è lingua / i fossi e rivi e cune / di terra dune piogge e brevi / d’attese, forse, e di slavati / sguardi – i cardi selvatici / di spine”. Subisce prepotenza e soprusi, il bosco, quando anche i suoi alberi vengono abbattuti e trasformati in carta, utile a stampare “poesia noiosa”; nello stesso tempo però si fa asilo e protezione di aggressive brutalità.

Chiaro e scuro si rincorrono in questa raccolta, sottolineati anche da frequenti variazioni nel registro stilistico: alla sonorità tutta giocata tra ripetizioni, rime e assonanze, innocui calembour – nostalgico richiamo ai girotondi, alle ninnenanne, alle cantilene dei bambini – si contrappone un audace sperimentalismo linguistico che utilizza allitterazioni, artifici eufonici, martellamenti ritmici, secondo la più collaudata lezione surrealistica. Eccone alcuni esempi: “snuda notte snìdia / in gola sfiorata / notte senza labbra vento senza labbra / notte sgozzata”, “ai denti fuoco e gioco / m’imbavo e rinasco / baco nel nido di terra nudo nel nudo di terra nido m’imbivo e bibo bulbo / e ovulo e ibisco e fiele / in vischio m’innesto e miele in ameba in ovulo // a rinascere terra // a rinascere terra”.

Anche i versi, differenziandosi nella lunghezza, variano da strofe pacatamente distese a distici contratti nell’allusività del significato: “nel giardino il sonno / tra le dita di un ragno”, e l’impressionismo descrittivo di molte composizioni si converte nella seconda parte del volume in una visionarietà più intimidatoria e ostile.

Una varietà di forme e contenuti che Lamantea ben riassume nel titolo ossimorico, dove lo strappo – di solito associato al rosso del sangue, al nero dell’affronto – esibisce la sua inoffensività nel bianco della resa.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                    10 dicembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE
LA BAMBINA CHE MANGIAVA I LUPI – MURSIA, MILANO 1992
LA BAMBINA DI GHIACCIO – ELLE, MILANO 1992
IL SIGNORE DEGLI SPAVENTATI – PEGASO, VIAREGGIO 1992

Tra la fine del ’92 e l’inizio di quest’anno, Vivian Lamarque ha messo a segno un tris editoriale di titoli diversi per genere e tipo di pubblicazione, ottenendo comunque risultati di uguale, alto prestigio. Da una quindicina d’anni questa scrittrice (milanese di adozione, ma trentina di nascita) può godere di un pubblico convinto e appassionato, fedele testimone della sua voce poetica, sincero estimatore sia del suo particolarissimo timbro affabulatorio, sia del suo spessore -diciamo così- “umano”. Già dalle prime prove poetiche, contrassegnate da uno stile leggero e cantilenante, fintamente infantile – perché oscillante tra candore e spavento, tra malizia e gentilezza d’animo- sino alla produzione recente, letterariamente più mediata e accorta, culturalmente filtrata dall’esperienza analitica junghiana, Vivian Lamarque ha saputo scavarsi una nicchia sicura e incontestabile nel nostro panorama letterario, saggiando appunto vari generi: dalla fiaba alla filastrocca, dalla poesia al frammento alla traduzione. E questa nicchia, negli anni, se l’è lavorata, l’ha ampliata e abbellita, servendosene come di un rifugio cui tornare sempre, alla ricerca di temi e toni che rimangono solidamente gli stessi, ma con incursioni frequenti e spavalde in un esterno ogni volta più ampio e seducente.
Leggera e quasi incorporea, malinconica fata turchina dei Navigli, la Lamarque ha sfidato e modificato anche la tradizione più collaudata, quella favolistica, come nel recente volume La bambina che mangiava i lupi, uscito nell’indovinata collana  Beccogiallo per i tipi di Mursia. Ecco quindi una Cappuccetto Rosso rovesciata, di nome Bambina (un archetipo, quindi? o una vaga riminiscenza delle storie assurde per l’infanzia di Ionesco?), che ama i lupi al punto di mangiarseli, a volte lessi a volte arrosto. Bambina ha una gallina che si chiama Gallina, e insieme vivono in cima a un albero altissimo, in una capanna che ha tutto, e anche il balconcino in più. Di lì si sporgono a prendere il fresco, Bambina felice e Gallina tremante. D’inverno le due protagoniste del racconto girovagano affamate per il bosco, finché Bambina, quasi per caso, si trasforma in cacciatrice, cuoca e divoratrice di lupi. E a questo punto, all’understatement della Lamarque, sottilmente crudele nella sua fantastica levità, viene in soccorso l’illustratrice Donata Montanari, che ci propone una Bambina streghetta dai capelli rossi-aculei e dalle gambe sottili, intenta ad assaggiare sorniona una zuppa di lupo con orecchie, coda e zampe che sporgono da diverse pentolacce. Per farla breve, questa Bambina diventa presto il terrore dei lupetti che vanno a trovare le nonne, ed è temuta al punto che si vede costretta a travestirsi da lupo, «e a travestirsi bene, se no poi i lupi le dicevano ‘Ma che zampe bianche hai!… Ma che bocca piccola hai!’», e diventa essa stessa lupo, in un esopismo rivisitato sadicamente. Morale della favola: «E dunque non abbiate troppa paure dei lupi, bambini. Dentro di loro batte un cuore di bambina», in cui il messaggio consolatorio e rassicurante svela la considerazione perversa per cui è meglio la naturalezza ferina rispetto all’atrocità infantile.
Un’altra bambina è protagonista del secondo volume di cui vogliamo occuparci: La bambina di ghiaccio e altri racconti di Natale, pubblicato da Elle Edizioni in un volumetto illustrato in bianconero, con una splendida dedica che rimanda alla biografia sofferta dell’autrice: «A tutti i bambini (ma a quelli soli di più)». Tradotto dalla stessa Lamarque anche in francese, è uscito recentemente presso Albin Michel, nella collana  Ippomée. Si tratta di cinque storie particolari, che narrano Natali diversi, sospesi tra realtà sogno e immaginazione. Storie levissime e trasparenti come il cristallo, che si può spezzare e allora ferisce, punge; gelide e nitide come il ghiaccio, che esprime incomunicabilità e sofferenza. Ancora una bambina, quindi, espressione di un topos letterario in Vivian Lamarque, a metà strada tra Gretel e la piccola fiammiferaia, tra astuzia e generosità sacrificale, una bambina quasi eterna e quasi perfetta, ma condannata all’ombra e al gelo, e a non poter superare la soglia del suo millesimo anno di vita. Anche in questa delicata ma amara fiaba resistono echi lontani di leggende alpine e di balletti russi, stemperati da una sensibilità poetica eccezionale. Molto riuscite tutt’e cinque, queste storie, e in particolare le due finali: Natale in cielo e Natale in mare, dominate dallo struggimento della solitudine, dell’incompiutezza, della nostalgia per qualcosa o qualcuno che non si avrà mai.
A quest’ultimo tema possiamo forse riallacciarci per commentare il terzo volume preso in considerazione, Il signore degli spaventati, frammenti poetici che si collegano a un’altra opera della Lamarque (Il signore d’oro, Crocetti 86), omaggio all’analista junghiano con cui da molti anni l’autrice è in terapia. Sono quaranta composizioni non comprese in quella pubblicazione, e che ora appaiono con una prefazione di Giovanni Giudici presso le Edizioni di Pegaso di Viareggio, in un elegante cofanetto che comprende altri tre volumetti di illustri autori: Mario Tobino, Antonio Delfini, Gabriella Sica. Anche qui, un rapporto infelice, impossibile, di due persone che in qualche modo sono -per poco e per sempre- una nell’altra, e non dovrebbero. La signora spaventata che vorrebbe e non può, il signore spaventato che non deve.

«L’Arena», 13 maggio 1993

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