ANTONIO RICCARDI, IL PROFITTO DOMESTICO – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

Il Saggiatore ripropone, in una versione riveduta dall’autore, il primo libro di versi di Antonio Riccardi, Il profitto domestico, pubblicato da Mondadori nel 1996: opera che già vent’anni fa aveva riscosso positivi commenti da parte dei critici. A ribadire nei lettori l’impressione di allora, sono ancora gli stessi versi radicati in una geografia e in una storia assolutamente personali (anzi, familiari), che ambiscono però a farsi portavoce di una sensibilità collettiva.
Scandito in dieci sezioni, a loro volta suddivise in sottosezioni, il volume abbraccia un orizzonte del tutto naturalistico, immerso in un paesaggio padano profondamente vegetale: bosco, erba, foglie sono i termini più presenti, nella loro lussureggiante e umida frescura, insieme all’acqua di fiumiciattoli, a sentieri che si inerpicano, a sassi e improvvise radure. La stagione che domina è quella estiva, non bruciante, ma viva di «luce aperta», di «ore calme».
E in questa campagna dell’Appennino parmense, da cui Riccardi proviene, l’economia è stabilmente domestica, rurale, concretizzata in abitudini contadine («i soldi nella latta dei dolci», le veglie, il risparmio, le raccomandazioni dei vecchi: «Se succede qualcosa restate / e non vendete», le giaculatorie: «Me ne vado a letto / Con Domine perfetto / con Domine maggiore / con Cristo Salvatore»).
Il compito del poeta è quello di un recupero archeologico e di una testimonianza morale; giustamente Alberto Casadei, nella sua approfondita postfazione, parla di «componente etica» della raccolta: «Il dovere può essere accostato alla «conoscenza domestica», all’intima pietas del custodire-salvare le vicende biografiche e le reliquie, per costruire un profitto più autentico, per dare un ordine al vuoto».

E la ricerca delle radici si attua in una ricomposizione di ritratti-medaglioni familiari, come quelli che si appendevano nelle vecchie cascine di campagna, fotografie in biancoenero in cornici ovali di legno: sono gli avi, i parenti nati tutti nell’800, e tutti destinati a una sorte fallimentare di perdenti, di esclusi, di vinti. Il sacerdote Antonio Riccardi, la cui vita è stata segnata da una colpa forse inconfessabile: ma condanna e salvezza, peccato e perdono si rincorrono sempre («Una colpa ci trapassa per salvarci»). L’epilettico Dositeo Riccardi, che «Ha tenuto una chiave sotto la lingua / per guarigione». Il soldato Antonio Riccardi, combattente in trincea nella I guerra mondiale, e il possidente Odet Riccardi che inseguiva «facoltà, bene, felicità». Generazioni che si sono succedute nella conquista, nel mantenimento e poi nel lento decadere del podere di famiglia a Cattabiano, in perenni rincorse di un «profitto domestico»: «Avevamo fiducia e abitudini dolci. / Ora, qui sulla terra / che non è più nostra / la rovina orla la nostra vita».

Non è un caso, forse, che gli aggettivi più ricorrenti nei versi di Riccardi siano «questo» e «ogni», quasi a voler continuamente ribadire una radicalizzazione nella concretezza della storia personale dell’autore, un «qui e ora» che rimangono pur nel susseguirsi degli anni, in un passato che permane e si vivifica nel presente. Così come anche il lontano più immaginifico (la terrificante spedizione artica di Greely nel 1881, l’esplorazione africana di Bottego) dei sogni o degli incubi adolescenziali del poeta si confondono con la sua realtà attuale dell’abitare nei grigi confini industrializzati di Sesto San Giovanni. D ove riesce comunque a recuperare il filo della poesia: «Abbiamo visto nell’aria Milano / un chiarore salire curvato / oltre il piano degli alberi sul fiume. / Saremo felici della nostra fortuna».

 

«Poesia» n. 311, gennaio 2016