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RECENSIONI

TRAVI

IDA TRAVI, DIOTIMA E LA SUONATRICE DI FLAUTO – LA TARTARUGA, MILANO 2004

Nella partecipe prefazione di Luisa Muraro, filosofa e storica del femminismo, l’atto tragico di Ida Travi intitolato Diotima e la suonatrice di flauto, pubblicato nel 2004 da La Tartaruga, trova la sua origine e destinazione nel rapporto fruttuoso che la nostra contemporaneità mantiene con il pensiero e la letteratura greca. Ida Travi (Cologne, BS, 1948) è poeta che della scrittura in versi ha da sempre sottolineato la forte valenza orale e scenica. Come affermava in un suo importante testo teorico del 2000, anticamente “la poesia fu un dono orale, un’enciclopedia del mondo, un’epica. Ed è evidente ancora: sotto la crosta della scrittura permane un flusso continuo, sonoro, vitale”. Travi è molto attiva in spettacoli teatrali in cui agisce esprimendo emozioni più coinvolgenti rispetto alla semplice lettura di versi, con l’utilizzo della voce nelle sue varie e dissonanti tonalità, accompagnata dalla musica, dal movimento sulla scena, dalla danza.

Diotima e la suonatrice di flauto è un atto unico ambientato ad Atene nel 416 a.C., e prende spunto dalla rilettura del Simposio di Platone e del breve scritto Diotima di Mantinea di Maria Zambrano. L’autrice narra di come durante il banchetto offerto dal poeta Agatone per celebrare la sua vittoria in un concorso tragico, i celebri convitati (tra cui Socrate, Alcibiade, Fedro, Aristofane) si confrontassero formulando le loro idee sul tema dell’Amore. Socrate non espone direttamente la sua opinione, ma riferisce il pensiero della sua maestra Diotima di Mantinea, che non è presente alla cena. La suonatrice di flauto Anna, incaricata di allietare la riunione con la musica, viene subito allontanata, per non distrarre l’esposizione degli ospiti, tutti uomini.

A questo punto Ida Travi immagina un incontro notturno lungo il sentiero degli ulivi tra la giovane musicista e la saggia Diotima, entrambe tenute lontane dal banchetto filosofico maschile, e accomunate dallo stesso destino di assenza e silenzio, di esclusione dalla storia degli uomini. Il nome scelto per la flautista, Anna, è volutamente estraneo alla tradizione greca, e ha la particolarità di presentarsi palindromo, leggibile da entrambi i sensi, a indicare una simultaneità e intercambiabilità di spazi e tempi, tra passato e presente, dentro e fuori.

L’atto unico (che Travi definisce “tragedia lampo, quasi un trasalimento”), conserva la struttura della tragedia: ingresso e uscita del coro, episodi, stasimi. Si snoda soprattutto come un monologo di Anna, la quale racconta di come sia stata allontanata dal convito per non disturbare le dotte conversazioni degli uomini, ma le abbia comunque ascoltate nascosta nel vestibolo, rimanendo colpita dalle parole di Socrate: “Diotima, la mia maestra, pensa che muovendo dalla povera bellezza dei corpi si possa salire, su, su, fino alla bellezza delle anime e poi da lì, su fino alla bellezza delle leggi, e poi ancora fino alla bellezza delle scienze, per arrivare alla visione di una Bellezza ultima, assoluta”. Rivela a Diotima di essersi proposta volontariamente come flautista, al fine di mettere in atto una personale vendetta. Avrebbe voluto infatti avvelenare Aristide, padre fedifrago di sua figlia, e confessa la delusione e lo sconforto per non esserci riuscita. La sua interlocutrice le risponde illustrandole la differente natura dei caratteri maschili e femminili, dei pregiudizi e delle sottovalutazioni degli uomini sulle donne, dei loro egoismi riguardo al ruolo di cura che spetta alle loro compagne: “Il latte delle donne nutre i piccoli nei corpi e poi, più avanti, la scienza delle donne diventa nutrimento trasparente”. C’è, nel testo di Ida Travi, questa fondamentale rivendicazione di generosa grandezza della femminilità, anche quando la gravità delle cose terrene le costringe troppo spesso a procedere a “passi misurati, lenti”, rinunciando al volo. L’aspirazione della giovane flautista a ritrovare la propria eccellenza viene patita come una colpa, e la tragedia si compie nella decisione di uccidersi non appena viene informata della morte improvvisa della sua bambina.

La conclusione drammatica del testo teatrale viene ribadita dall’appendice che chiude il sottile volume, intitolata La Verità, in cui l’autrice racconta un episodio biografico che sembra ricalcare quello vissuto dalla flautista, e che le ha fornito l’ispirazione per scrivere l’atto tragico di cui ci stiamo occupando: un invito a cena nell’abitazione elegante di una coppia di intellettuali, tra commensali eruditi che si interrogano sul significato della Verità (non dell’Amore, come durante il banchetto di Agatone). La poetessa rivive con un senso di umiliazione lo stesso sentimento di inappartenenza ed esclusione provato da Anna, ed estraniandosi dalle futili e pompose conversazioni degli ospiti, riflette su quanto la cultura e la bellezza dell’antica Grecia possa ancora nutrire la sensibilità del mondo contemporaneo, offrendo spunti di riflessione sulla storia del mondo da cui le donne per millenni sono state estromesse.

Il testo di Ida Travi, messo in scienza in diversi teatri, è stato trascritto come libretto d’opera e musicato nel 2011 dal Maestro Andrea Battistoni.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net        18 aprile 2023

RECENSIONI

TRAVI

IDA TRAVI, POETICA DEL BASSO CONTINUO. LA SCRITTURA, LA VOCE, LE IMMAGINI

MORETTI & VITALI, BERGAMO 2015

Prima ancora che se ne occupasse con grande consenso di pubblico un’altra poeta italiana, Mariangela Gualtieri, facendo della voce lo strumento principe della risonanza emotiva della poesia, Ida Travi (Cologne, Brescia,1948) già dagli anni ’90 rifletteva teoricamente sull’oralità della scrittura in versi, mettendo in atto materialmente – a teatro, in radio, nei festival, in video – performance recitative di notevole suggestione.

In L’aspetto orale della poesia, edito nel 2000, ristampato più volte, commentato e studiato in numerosi interventi critici, proponeva un utilizzo della vocalità capace di recuperare la tradizione classica, da Omero e dai tragici greci, ampliandosi fino ai suggerimenti della psicanalisi e alle ricognizioni della fisica del suono, per circoscrivere nascita e sviluppo del linguaggio umano tra canto, narrazione e resa poetica.

La riflessione sull’eredità degli antichi veniva approfondita nel testo successivo, Diotima e la suonatrice di flauto, del 2004, in cui la lettura del Simposio di Platone fungeva da avvio per una rappresentazione scenica dell’esclusione della donna dalla storia scritta dai maschi.

Di nuovo, nel 2009, le “Poesie per la musica” di Neo-Alcesti reinterpretavano il ruolo dell’eroina di Euripide, simbolo del sacrificio per amore, all’interno di uno spazio-casa in cui la memoria si faceva destino, il dolore si riscattava nell’offerta di una resurrezione.

In Tà, Poesia dello spiraglio e della neve del 2011, l’idea di confine tra realtà e sogno diventa passaggio, fessura, taglio: tà, tà, tà, come le lancette dell’orologio, che inesorabili trasbordano dalla spiritualità dell’infanzia alla materialità pesante dell’età adulta (“io tenevo il tuo spirito in braccio / tu tenevi il mio viso in mano / oh carità com’era / come eravamo spirituali / quando eravamo piccoli”.

Ma è in Poetica del basso continuo del 2015 che la riflessione di Ida Travi torna a interrogarsi in maniera approfondita sul rapporto tra scrittura e voce, includendovi l’apporto fondamentale delle immagini e del movimento. Vi sono raccolti scritti di diversa natura: articoli, brevi saggi, evocazioni e quattro importanti interviste rese dall’autrice nell’arco di doversi anni. I vari testi approfondiscono l’indagine sulla lingua parlata all’origine, alla ricerca della sorgente del suono, nel suo differenziarsi dal silenzio, dal primo balbettio dell’infante rivolto alla figura materna fino all’innalzarsi solenne che si espande nella rappresentazione teatrale, nella ribellione all’abitudinarietà e alla regola, nell’estasi e nella follia.

Il basso e continuo indica l’andamento ostinato e costante del dire, la sua funzione di sostegno armonico al dettato, quasi un breviario quotidiano umilmente rivelatore del vero: “In basso nel pericolo e nella fragilità comincia la rivoluzione del linguaggio poetico, è il linguaggio del battito cardiaco con qualche inciampo, prima del discorso, è il linguaggio più vicino all’agire, lì succede qualcosa”. Altrimenti verrà detto: “Fa in modo che le parole non facciano / pensare a una poesia, ma lo siano”, compito enorme, esorbitante affidato all’espressione poetica. Secondo il critico Tommaso Di Dio “E così che ogni voce in Ida Travi parla e parla veramente: non parla di cose, non dice del mondo: dice mondo, fa corpo con il fluire del mondo; fa corpo con la scomparsa di ogni mondo che accade nel punto esatto del suo stesso nascere”.

Da dove arriva, quindi, la visione poetica? Forse da “un reperto, il frammento di una lingua perduta, erosa dal tempo, oppure l’annuncio d’una lingua a venire”. Ha origine nella “prima lingua – parlata ‘sul nascere’ – quella lingua tenace, musicale, diretta e soprattutto orale, che non muore mai. Si ritrova per esempio nel gioco, nella lingua amorosa, nell’imprecazione come nella preghiera. L’aspetto orale della poesia si nutre di questa lingua, ma con essa non coincide; è ancora un’altra cosa, perché… la poesia disubbidisce sempre, si discosta”, e “dice qualcosa che non finisce”.

Per riuscire a compiere il miracolo che trasforma il verbo in essere, forse non basta più la voce, ma è necessario affidarsi anche alla forza delle immagini, che arriva da un dovunque spazializzato (dalla storia, dalla pittura, dal cinema), da un ammaestramento evocato e preteso: “Un maestro indiretto non è il tuo maestro, è quello che insegna nell’altra classe. Il suo insegnamento ti arriva da un altrove. Una maestra indiretta non ti è davanti, ma ogni tanto ti arriva la sua voce. Tu fai letteratura e senti che di là stanno parlando di storia, tu fai storia e senti che di là fanno disegno. Tu fai disegno e senti che di là scoppia la musica”. Il linguaggio che si propone come svelamento e profezia di una verità, come assedio e violenza fatta al silenzio, si formula e riordina allo stesso modo delle sequenze visive di un film. E proprio dal cinema, dalla magistrale lezione di Godard, Travi ha tratto materia e disciplina del comporre: a lui sente di rivolgere la sua gratitudine di allieva. Altri maestri indiretti richiamati nel volume sono registi come Bresson e Tarkovskij, poete come Antonia Pozzi, pensatrici come Maria Zambrano, Hanna Arendt, Simone Weil, Chiara Zamboni e la comunità di Diotima, filosofi classici e contemporanei, psicanalisti. La poesia insegna a nominare il mondo, abbandonandosi liberamente a un onirismo nutrito da simboli concreti, ricavati dalla memoria o dall’abbaglio miracoloso dell’osservazione di una casa, di una tazza sul tavolo, del mare in lontananza, di una mosca.

Raccontarla, pronunciarla è farla vivere e rivivere in chi legge e ascolta, nel mistero della genesi primordiale della parola.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 4 maggio 2023

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TREVI

EMANUELE TREVI, OPINIONI DI UNA ZANZARA TIGRE DI ROMA – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2014 (ebook)

Un monologo divertente e puntuto, come si conviene al più fastidioso e tenacemente persecutorio degli insetti, quello che Emanuele Trevi (Roma, 1964) fa recitare a una zanzara tigre capitolina, ovviamente in un espressivo e scollacciato vernacolo romanesco.

“Zanzara tigre non è uno scherzo, è una cosa che ti devi meritare”, predicava mamma zanzara “seria seria come un prete” alle sue ottanta zanzarine, istruendole su come si vive “in questo porco monno”. Mamma era “un po’ fascia”, e anche la zanzara figlia protagonista è “fascia”, mica come gli insetti che vanno di moda oggi, “che la Natura, ’sta gran paracula, s’è buttata a sinistra. Ma te rendi conto. ’Sta belva feroce, st’impunita. Ha cominciato a fa’ l’intellettuale la Natura, la zozzona femminista, quella che je piace l’armonia, la saggezza, er cibo sano e volemose tutti bene”. A Roma tutte le zanzare sono fasce, zanzare camerate: “Noi, noi semo le bastarde. Le invincibili… nessuno ci può sconfiggere. Noi semo come la steppa russa, come er Vietnam”. A niente possono disinfestazioni, manifesti del sindaco, armi chimiche. Le zanzare sono un esercito, milioni miliardi di femmine rabbiose, mentre i maschi dopo la copula schiattano: “Il maschio, da noi, è come di’ ’na zanzara venuta male, ’na specie de debosciato senza interessi, senza prospettive”.

La mamma in realtà è una finzione, una fantasia, un desiderio inesaudito, perché le zanzare nascono spontaneamente, e orfane: “Basta un pochetto d’acqua morta e zozza, n’avanzo de pozzanghera. Noi nasciamo già scafate, noi sappiamo già tutto. E manco so’ passati due secondi, che già stiamo a rosica’. Perché noi nasciamo incazzatissime”.

La zanzara monologante non ha quindi mamma, marito, amiche: sola, single, basta a sé stessa. Intontita, ubriaca, mezza avvelenata dal sangue torbido che succhia, impregnato di alcol psicofarmaci stupefacenti: se le sue vittime sono poi turisti russi ronfanti in una suite del Grand Hotel, ecco che riescono ad appestare anche l’insetto più robusto. “Sembra de succhia’ ’na farmacia ambulante, ormai. Ce fate sbarella’, ce piombate nella sonnolenza eterna”. Quindi, dei venti giorni destinati alla sopravvivenza di una zanzara, la protagonista è probabilmente arrivata all’ultimo, si appresta a dire addio alla vita, ha perso ormai le ali e qualche zampetta, combattendo valorosamente le sue battaglie sanguinarie contro un’umanità tronfia e padrona. La favoletta esopica di Emanuele Trevi, risciacquata nello spirito di Belli e Trilussa, ci ricorda che tutto ha un’anima senziente: anche la più rosicante incazzatissima moribonda Zanzara-tigre-de-Roma.

 

© Riproduzione riservata            31 dicembre 2019

https://www.sololibri.net/opinioni-zanzara-tigre-Roma-Trevi.html

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RECENSIONI

TRIANI

GIORGIO TRIANI, ALLEGRE APOCALISSI – CASTELVECCHI, ROMA 2018

Un libro serio, che potrebbe venir definito addirittura preoccupante, se non fosse qua e là giocato sul filo del paradosso e dell’ironia, questo Allegre Apocalissi del sociologo e futurologo Giorgio Triani, che introduce ognuno dei capitoli e dei numerosi sotto-capitoli con aforismi e sentenze eccentriche e pungenti. Come quella iniziale di Winston Churchill: “Sono un ottimista. Essere qualcos’altro non sembra molto utile”, o quella conclusiva e ammonitrice del filosofo Karl Popper: “Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani”. Il professor Triani ci invita a riflettere sui cambiamenti epocali che stanno trasformando, in maniera assolutamente radicale e incontrovertibile, la società, le ideologie, l’economia, la comunicazione, la moda, i rapporti tra i sessi. Si tratta sempre di evoluzione, nel pensiero e nei comportamenti, o esiste una minaccia non troppo larvata di regresso e decadenza?

Ci stiamo avviando verso una realtà in cui il lavoro fisico sarà compiuto da macchine, il traffico stradale verrà automatizzato, le produzioni agricole e l’allevamento conosceranno mutazioni radicali e inimmaginabili. Fantascienza? Non sembra. L’umanità colonizzerà Marte, i centenari non saranno più un’eccezione, ogni aspetto della quotidianità sarà dominato dal digitale e dalla mobilità superveloce. Ci attende un mondo XXL, dilatato, eccessivo sotto tutti gli aspetti: dal consumismo sfrenato alla radicalizzazione politica, dai bisogni indotti e sempre più voraci ai rapporti interpersonali votati alla sopraffazione e al carrierismo.

Se da un lato assistiamo all’obbedienza acritica agli stereotipi imposti dai media, dall’altra nascono continuamente movimenti di opposizione che utilizzano metodi di contestazione talvolta violenti: No-global, No-tax, No-vax, No-TAV, No-TAP, No-Euro. E il pericolo maggiore, a livello mondiale, sembra proprio essere quello dell’instabilità geo-politica, con superpotenze arroccate nel protezionismo commerciale, e altre aggressivamente espansive; con un welfare pensionistico e sanitario in rovinosa precarietà; con un incremento demografico fuori controllo, lo sviluppo di spaventose megalopoli, le migrazioni incontrollabili. Ciò che ne deriva è il diffondersi della paura e dell’insicurezza personale, lo sfaldamento dei rapporti familiari, la destabilizzazione dei legami sentimentali e sessuali, l’imporsi a livello individuale di caratteri narcisistici e autoreferenziali. Dal punto di vista più specificamente culturale, siamo poi in presenza di un dilagante analfabetismo di ritorno, di un recupero di mode vintage e paurosamente kitsch, insieme a una proliferazione di notizie false, bufale giornalistiche e fake news difficili da sradicare, di incontri virtuali fittizi, di reportage giornalistici e fotografici inventati o manipolati.

L’avvento di un mondo completamente automatizzato, in cui le tecnologie intelligenti modificheranno gli ambienti domestici e di lavoro (stravolgendo abitudini, consumi, esperienze) pare ineluttabile e vicinissimo: da esso deriverà l’inevitabile scomparsa di molti mestieri e profili professionali oggi in atto, sostituiti da una robotizzazione della manodopera, per cui si prevedono nei prossimi trent’anni tassi di disoccupazione superiori al 50%, mentre “il 63 % degli alunni iscritti alla scuola primaria farà un lavoro che oggi non c’è”. Prepariamoci! Ma senza abbandonarci a isterismi apocalittici, anzi cercando di alimentare in noi e fuori di noi il “pessimismo allegro” che raccomanda Giorgio Triani, aprendoci fiduciosamente nei riguardi di un futuro sostenibile, poiché “non c’è un problema che non sia un’opportunità”. E per trovare opportunità di crescita non ci si deve asserragliare in difensiva, ma accompagnare e magari anticipare i cambiamenti in modo propositivo, immaginoso, audace.

 

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https://www.sololibri.net/Allegre-Apocalissi-Triani.html         3 dicembre 2018

 

 

 

RECENSIONI

TUROLDO

DAVID MARIA TUROLDO, IL MO AMICO DON MILANI – SERVITIUM, MILANO 2012
PROFEZIA DELLA POVERTA’ – SERVITIUM, MILANO 2012

Le edizioni Servitium ripubblicano dopo quindici anni due libri di Padre David M. Turoldo, nel ventennale della sua morte. Il primo raccoglie tre saggi-testimonianza che il frate friulano ha dedicato negli anni all’amico don Lorenzo Milani, conosciuto personalmente nel 1954, frequentato poi fino alla morte di lui, avvenuta per leucemia nel 1967: «eravamo amici fino a urlare insieme là dove non eravamo d’accordo». I due religiosi, nonostante le evidenti differenze di carattere, di percorso esistenziale e di scelte pastorali, avevano secondo il prefatore di questo volume, Abramo Levi, «un comune progetto: rompere la quiete sonnolenta del cattolicesimo italiano», pur nella loro «dissomiglianza verticale». Padre Turoldo tratteggia la figura di Don Milani con un affetto e una stima assoluti: «ho avvertito l’identità di interno e di esterno, del dentro e del fuori di quest’uomo che ti puntava gli occhi in faccia come due perforatrici», «un uomo con cui non si può scherzare; un uomo di denuncia e di rottura radicale… di lotta implacabile… tanto tenero quanto feroce, tanto obbediente quanto libero… di una segreta e profondissima gioia, perfino di affabilità e di grazia, … pur sempre disteso sulla graticola delle sue scelte… una gettata di lava incandescente… un cratere in eruzione».

Contestando il ritratto edulcorato che certa stampa ed alcune gerarchie cattoliche hanno tentato di avallare di lui, Turoldo ricostruisce il tempo e il luogo della formazione di Don Milani, la sua origine alto borghese ed ebrea, la sua conversione che ne fece un neofita appassionato e intransigente, la sua passione per i poveri e per la scuola, la diffidenza profonda verso gli intellettuali «responsabili di una cultura astratta» che si dimenticava degli ultimi, la sua polemica verso una chiesa troppo accondiscendente con il potere, e spesso lontana dal Vangelo. «Solo quando la chiesa avrà il coraggio di riconoscere la santità di don Milani, avremo una chiesa veramente nuova»: così si augurava Padre Turoldo, e questo era l’augurio che rivolgeva anche all’istituzione ecclesiastica.
Il secondo volume edito da Servitium, si apre con una prefazione appassionata e profetica di Raniero La Valle a undici saggi che David Maria Turoldo compose nel corso della sua vita sulla povertà, intesa come mistero antropologico («non è la disgrazia di qualcuno, ma è la grazia di tutti», che «invece di abbattimento, può essere beatitudine, invece che spossessamento può essere acquisto, invece che espressione della ‘nera esistenza del male’, può essere il segno del ‘bianco mistero della grazia e dell’amore divino’»). Libro che si conclude con una appendice poetica del frate friulano, con versi intensi dedicati al bisogno e alla sua indicazione di verità: «allora siederemo a tavola insieme / e divideremo quel nulla / che ci sarà d’avanzo», «Poveri e liberi, / eredi del regno, / eletti della nuova alleanza / il mondo sarà salvato dai poveri».

Forte della sua esperienza diretta di miseria e di fame patita nell’infanzia («Ed eravamo così felici, così sereni, così forti!… Io credo che sia più divina la povertà che la ricchezza… Il ricco è sempre più triste, le cose non gli bastano mai… Infatti non c’è un ricco che canti»), Padre Turoldo non si limita affatto a offrire un’immagine scontata e retorica della povertà, ma afferma con risolutezza polemica il dovere di opporsi a qualsiasi sfruttamento e ingiustizia sociale, proprio basandosi sulle parole di Cristo («è sempre nato in periferia e viene sempre ucciso in prefettura»), che pone la povertà dello spirito come prima tra le beatitudini. Cosa si deve intendere, quindi, per povertà? Prima di tutto libertà dalle cose; sconfitta delle cupidigie; superamento del diritto di proprietà, giustizia che sia veramente distributiva e comunitaria. Per povertà non si intende certo miseria, e meno ancora miserabilità: si intende che l’uomo sia preso nel suo assoluto valore e non per quello che possiede. Però la risposta allo scandalo del bisogno «non può essere soltanto spirituale, ma dev’essere anche politica», anzi: scientifica. Là dove ha fallito anche il comunismo perché si è dimenticato dell’anima, deve ora intervenire con più coraggio il messaggio cristiano, «sul binario della pietà e della giustizia».

«Mosaico di pace», novembre 2012

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TUROLDO

DAVID MARIA TUROLDO, NEL LUCIDO BUIO – RIZZOLI, MILANO 2002

Vent’anni fa l’editore Rizzoli ha dedicato alla figura di Padre David Maria Turoldo un prezioso volumetto, Nel lucido buio, ormai recuperabile solo tra i Remainders o negli outlet di qualche libreria online. Vi sono raccolte brevi prose liriche e i versi scritti dal frate poeta pochi mesi prima della morte, avvenuta a Milano il 6 febbraio del 1972 per un tumore al pancreas.

Il libro offre un’accurata ricostruzione biografica della non facile esistenza dell’autore, una dettagliata bibliografia delle sue pubblicazioni di poesia, narrativa, teatro e saggistica, e un’interessante antologia dei più acuti commenti di chi si è occupato di lui a partire dal dopoguerra. Tra i religiosi: Ravasi, De Piaz, Fabbretti. Tra i poeti: Ungaretti, Betocchi, Bo, Erba, Clementelli, Finzi, Porta, Ramat, Giudici, Bandini, Luzi, Zanzotto. Proprio di Ungaretti è opportuno trascrivere la perspicace e profetica valutazione, risalente al 1948: “La poesia di Davide Turoldo è poesia che scaturisce da maceramento per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio, assenza poiché dall’Eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza”.

L’approfondita e appassionata prefazione di Giorgio Luzzi non si limita a inquadrare i testi presentati entro i confini della produzione letteraria del poeta, ma ne fa una disamina dal punto di vista formale, ricostruendo le correnti del pensiero estetico del secondo Novecento, propenso a ridimensionarne la novità. Lontano dallo sperimentalismo e da qualsiasi complessità semantica o metrica, Turoldo era più interessato a cosa dire che a come dire, orgoglioso del proprio inattuale differenziarsi dall’ autoreferenzialità del testo poetico allora proclamata ed esibita. Lo ammetteva esplicitamente in uno dei brani riportati nel libro: “Gli altri scrivono di ‘altipiani’, in forme stupende, parlano con tutti… sanno tutte le malizie della mente, le sante malizie, sono dentro il grande fiume delle lettere, del discorso umano: e sono certo che hanno ragione. Ma io non riesco, non riesco, sono un maniaco di Dio. È come se avessi la fronte un chiodo”.

Viveva quindi con diffidenza il predominio dell’estetica sull’etica, quasi fosse un tradimento (ornamentale, mondano e superfluo) al suo mandato di testimone del Vangelo. L’orizzonte dei lettori a cui si rivolgeva era quello del popolo dei credenti, sebbene credenti particolari, in perpetua, inquieta ricerca del senso della vita e dell’oltre-vita. “Dio non è la risposta, è la Domanda; e non tanto se Dio c’è, quanto chi sia, come pensarlo, quali rapporti intessere e sapere delle sue responsabilità circa il male: se è o non è onnipotente”.

Tutta la poesia turoldiana si situa all’interno della riflessione sulla teodicea, avvicinandosi più alla teologia che alla letteratura, più alla preghiera che alla filologia o alla linguistica, nel tentativo di indagare il Mysterium iniquitatis, pur accettando l’inconoscibilità razionale del divino. E ha come mezzo espressivo la fonte biblica, come fine la comunicabilità dell’esperienza religiosa in ansia di conversione. Lo stile, fortemente fondato sull’oralità e su tonalità accese, predicatorie, arcaicamente terragne, è dettato dall’adesione viscerale a un cristianesimo originario, pauperistico, minoritario, forse addirittura ereticale e trasgressivo.

La vita intera di David Maria Turoldo fu testimonianza della militanza dalla parte dei vinti, degli oppressi, con un imperioso richiamo all’uguaglianza e alla giustizia sociale, anche contro ogni ragionevole prudenza politica, contro ogni acquiescenza e connivenza delle gerarchie ecclesiastiche.

Nato nel 1916, ultimo di nove figli di una poverissima famiglia di contadini friulani, nel 1940 fu ordinato sacerdote, entrando nel convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo a Milano. Qui sperimentò subito la difficoltà di rapportarsi con il carattere rigido e conformistico dell’istituzione, soprattutto quando l’impegno politico lo portò ad affiancare la Resistenza insieme a un gruppo di studenti e intellettuali, riuniti intorno al foglio L’Uomo, organo dell’antifascismo cattolico milanese. Dopo essersi laureato in filosofia, iniziò a predicare in Duomo, raccogliendo intorno alla sua carismatica figura l’interesse della borghesia milanese e il sospetto delle autorità, acuito dalla sua partecipazione al progetto della Città di Nomadelfia con Don Zeno Saltini. Nel 1948 pubblicò da Bompiani il primo libro di poesie, Io non ho mani: ne seguirono molti altri, fino a quello postumo di cui ci stiamo occupando. Nel 1951 fondava il centro culturale la Corsia dei Servi. Invitato a lasciare l’Italia, si rifugiò in Svizzera, trasferendosi in seguito a Firenze, dove condivise le esperienze toscane del cattolicesimo progressista. Un nuovo esilio lo portò poi a Londra, in Canada e in Sudafrica. Nel 1960 si spostò presso la comunità dei Servi di Udine, dove scrisse la sceneggiatura del film Gli ultimi, ambientato nel Friuli della sua infanzia. Dal 1963 alla morte si stabilì nel paese natale di Papa Giovanni, a Sotto il Monte in provincia di Bergamo, creando un centro di studi ecumenici aperto alla collaborazione di teologi e credenti internazionali, e continuando la sua intensa attività di conferenziere, saggista, coordinatore spirituale.

I testi raccolti in Nel lucido buio (il cui titolo ossimorico sembra alludere sia all’oscurità dei mistici illuminata dalla fede, sia all’attesa della fine imminente, affrontata con consapevole rassegnazione)

precedono di pochi mesi la morte dell’autore, e sono caratterizzati da un più accentuato intimismo rispetto alla produzione precedente. Il lettore vi avverte il senso umanissimo di solitudine e abbandono di chi si appresta a lasciare persone e luoghi amati:

“E nel lucido buio, uguale / a un luminoso vuoto, pensare, / ma non sai a che cosa: poi / la dolcezza del dormire: // sarà così la sua venuta? … E celare il bisogno di compassione / desiderare presenze amiche / voglia di solitudine e sentirsi / triste fino al pianto / perché nessuno è venuto: / così giorno dopo giorno / sempre in attesa…”, “Anch’io in questi lunghi giorni e lunghissime notti ho sentito il taedium vitae…Non pensare, fingere di non pensare, di non sentire. Ad esempio, non è che mi sia assente la paura di impazzire”.

Tuttavia, ancora più dolorose e assillanti dei versi sulla propria sofferenza fisica e mentale, sono le riflessioni sui grandi temi dell’essere: la presenza del Male, l’abisso del Nulla, il silenzio di Dio, tutte modulate ricorrendo all’incandescente linguaggio delle Scritture, e in particolare dei Salmi.

Il Deus absconditus di Isaia torna qui a tormentare il credente, che lo supplica di rivelarsi: “mi prende paura di notti più oscure, / le nostre notti, o mio Signore! / Nel mentre tu crei e ti riveli / ecco che appari come un Dio notturno”, “Ma il mistero perdura, / fino a dire qualcuno: / ‘neppure il suo Dio lo salva!’ // Perché, Signore? // Mio Dio della notte e del giorno…”, “Navighiamo nel mare del Nulla / senza raggiungere mai / le tue sponde, Signore”, “Fino a quanto continuerà / a ingoiarmi la Notte? / E tu a nasconderti: perché?”, “Ognuno vive con il suo roditore / notturno: che tu non esista… // male è quel tuo tombale silenzio / che urla sulla tua assenza”.

Il dubbio sull’esistenza stessa di Dio, il timore di non venire ascoltato, si fa a volte grido disperato di ribellione, volontà di disobbedienza. E tornano alla mente gli interrogativi di Meister Eckhart, di Silesius, di San Juan de la Cruz, le invocazioni di Angela da Foligno e Caterina da Siena, la rivolta eterodossa di Ferdinando Tartaglia.

“Male sono le molte cose che ti denunciamo / quando pare che Tu non intervenga / e il giusto è divorato come un tozzo di pane. // O Dio dei privi di Dio, / segreto tormento del disperato”, “abbi pietà anche dell’empio, Signore”, “La tua ira ti rende forse un guadagno? / Forse aumenti in grandezza nel tuo furore?”, “Il pentimento di averci creato / fu il segno certo che sei più infelice di noi”, “Da quando creasti, fosti tu mai, Signore, felice? // …il serpente, creato da te, e sapevi!… // – E allora, crearlo, perché? E a non crearlo / saresti creduto un Dio onnipotente? / ma se onnipotente, è in te anche il Male?”

Sono le domande, terribili e destinate a non ricevere risposta, che si pone il Turoldo teologo portavoce di una teologia negativa che si è votata all’afasia, alla non definizione della trascendenza. Ma il David Maria Turoldo “maniaco di Dio”, così risponde al sé stesso incredulo, dubbioso, deluso: “più l’anima è deserta / più tu m’invadi”, “Tu sei sempre vicino, / tu incombi e ci avvolgi, / ma sono io che sono lontano”.

© Riproduzione riservata         «La Poesia e lo Spirito», 17 novembre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TUROLO

ANTONIO TUROLO, A PARTE IL LATO UMANO – VALIGIE ROSSE, PISA 2016

Quando, nel 2010, i fondatori della piccola casa editrice toscana Valigie Rosse istituirono il Premio Ciampi – dedicato allo chansonnier loro concittadino – intendevano segnalare autori letterari che fossero «diretti, amari e poco rileccati», e che aspirassero «a una bellezza formale originata da una personale schiettezza senza sconti». In quest’ottica, il Premio Ciampi 2016 è stato attribuito a un piccolo volume di versi e prose, A parte il lato umano, di Antonio Turolo, poeta veneto nato nel 1962. La plaquette, illustrata con le opere di Riccardo Bargellini che radunano «in un impasto ironico e agghiacciante, decontestualizzate insegne di aggressività, pericolo e sbilanciamento», si definisce (secondo l’approfondita postfazione di Paolo Maccari) attraverso una sua «asciuttezza e nudità» tendente «all’indagine di sé dentro un individuato contesto sociologico oltre che psicologico». I personaggi descritti dai versi di Turolo (di una disarmata semplicità, secchi e immediati) sono proletari o piccolo-borghesi, sempre disillusi, vinti e disperati: colti in un frangente particolare della loro esistenza, che spesso coincide con l’attimo fatale della morte, oppure con il momento rivelatore che li inchioda alla loro sconfitta.

Così leggiamo di infermiere di un pronto soccorso indifferenti all’agonia dei pazienti («Chi xe morto, chi xe morto? // Alle sei del mattino, primo turno / le garrule infermiere si informavano / con allegria»). Del prete che si imbosca nel cinema porno di una città lontana e, colto da infarto, viene riconosciuto come religioso per il colletto del clergyman dimenticato sotto il cappotto. Dell’anziana pensionata che si rifiuta ai parenti e al mondo, nel suo Evitamento, ma il cui cadavere in decomposizione è ritrovato dai vicini insospettiti per l’accumularsi della sua posta: più che altro bollette non pagate e reclami («chi le scriveva più?»). Del pugile sudamericano gay che uccide il suo avversario sul ring perché offeso da un insulto omofobo di lui. Dell’ex carabiniere caduto in disgrazia sociale ed economica, animato da odio razziale e di classe, che quando tenta un gesto eclatante contro le autorità sbaglia mira e obiettivo, fallendo anche nella sua ultima impresa. E poi dell’indifferenza della gente – che siamo noi tutti -, dell’omertà, dell’egoismo che permette alla collettività di sopravvivere anche a se stessa.

I versi di Antonio Turolo, così piani e di facile presa sul lettore, tendenti a mimare la secca prosa giornalistica, sono intercalati da brani di contro-commento esplicativi, pezzi diaristici in cui i protagonisti delle poesie offrono una loro verità alternativa, con inserti di dialogo, talvolta multilingue, o monologhi al limite della fantasticheria psicotica. Turolo, in un suo autoritratto a stampa, si definiva «un crepuscolare nostrano, un Corazzini poniamo, con qualche velleità pasoliniana». Maccari allude a influenze di Sbarbaro, Nelo Risi e Giovanni Giudici. A me pare evidente, invece, una qualche eredità con i personaggi perdenti e rassegnati al margine di Elio Pagliarani, anche nel tono risentito e pietoso con cui il poeta li avvicina, comprendendoli e giustificandoli, in un j’accuse sociale più amaro che indignato: e nell’abilità quasi cinematografica dei primi-piani di notevole intensità descrittiva.

 

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15 gennaio 2017

 

 

RECENSIONI

TWAIN

MARK TWAIN, L‘UOMO CHE CORRUPPE HADLEYBURG – MATTIOLI 1885, 2012

In questo racconto che Mark Twain pubblicò nel 1900, oltre alla feroce ironia che caratterizza sempre i suoi scritti, è evidente una sorta di risentito sarcasmo etico con cui l’autore del Missouri sferza l’ipocrisia farisaica di una comunità che si vantava irreprensibile, rivelandosi invece alla fine più corruttibile e meschina di altri nuclei sociali a lei vicini. “Fu molti anni fa. Hadleyburg era la cittadina più onesta e integra di tutta la regione. Aveva conservato questa fama immacolata per tre generazioni, e andava più fiera di essa che di qualunque altro suo bene”. Ma un bel giorno un forestiero “assai suscettibile e cattivo” a cui la città aveva malauguratamente recato offesa decide di vendicarsi, colpendola nella sua dignità collettiva, e smascherandone quindi la fittizia facciata di rispettabilità. A un cittadino ritenuto tra i più probi viene consegnato un pacco con una donazione di 40.000 dollari da regalare a chi in passato aveva inconsapevolmente compiuto una buona azione, senza specificare chi siano donatore e destinatario di quel denaro. Si apre quindi una indecorosa corsa, fatta di sotterfugi, reciproche accuse, calunnie, mistificazioni tra i notabili del luogo (il farmacista, il banchiere, il proprietario terriero… persino il parroco non rimane indenne da quell’infernale sarabanda di tentazioni) per accaparrarsi il denaro. Come saggiamente confessa la stimata e devota moglie di uno dei protagonisti: “Io sono convinta che l’onestà di questo paese è marcia come lo è la mia, e come lo è la tua. E’ un paese gretto, duro e avaro, e non ha altra virtù al mondo che questa onestà così decantata, e di cui tanto si riempie la bocca; e sono convinta, giuro, che se mai verrà un giorno in cui la sua onestà sia messa seriamente alla prova, allora la sua gran reputazione crollerà come un castello di carte”. La beffa micidiale messa in atto dallo sconosciuto rivela che “non c’è nulla di più fragile di una virtù che non ha passato la prova del fuoco”.

IBS, 13 marzo 2014

RECENSIONI

ULBAR

MARIAGIORGIA ULBAR, GLI EROI SONO GLI EROI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2015

Anche senza conoscere la data di nascita di Mariagiorgia Ulbar, che non viene riportata nella terza di copertina, sono certa di non sbagliare attribuendole trent’anni o poco più: e lo faccio con il vago senso di colpa dettatomi dalla mia età, che non è stata capace di assicurare ai giovani come lei più convinte certezze. Perché le poesie qui raccolte esprimono la rassegnazione, l’impotenza, l’impossibilità di progettare un futuro (e non la rabbia, non una più salutare ribellione) di tutta la sua generazione. Non vorrei dare una lettura sociologica, o solo attenta ai contenuti, dei versi di Mariagiorgia; ma forse è il caso di partire proprio da questa considerazione. La sua scrittura esprime un sofferto, lacerato disorientamento, senz’altro più esistenziale che culturale. Perché i mezzi espressivi ci sono tutti, a iniziare da una tradizione novecentesca – soprattutto mitteleuropea – ben assimilata (da Rilke, con il suo angelo terribile, gli amanti, gli acrobati… fino a Mann), e c’è anche un’evidente sensibilità pittorica (penso ai paesaggi industriali di Sironi, alle marine di Carrà, a qualche incubo magrittiano…) e filmica (Bergman,Truffaut). Troviamo in lei una consapevolezza formale già matura, il dominio di formule retoriche collaudate (anafore, ellissi, sinestesie), l’attenzione descrittiva al paesaggio. Tuttavia, di che paesaggio si tratta? Marino, soprattutto, o meglio: marittimo. Non spiagge assolate, estati turistiche, tuffi, passeggiate romantiche; ma città costiere (Ancona, Pescara, Livorno, Trieste, Palermo,Venezia…) nei loro porti fumosi, litorali ingombri di rifiuti: raffinerie, piattaforme, lamiere, tubi.

«Ciò che lascia fuori la risacca / gli oggetti strani, dimenticati o rotti / quello che resta, lo scarto, i pezzi»; «È solo acqua ora sopra e sotto / così non c’è modo di tirare  / su le àncore, sapere/ se è bonaccia o burrasca in queste ore»; «Andrò sul fondo, sulla sabbia / dove vivono le salme e i relitti»; «Se non è marino, il paesaggio diventa campestre, e brullo, desolato, sporco»; «Qui mi sporcano la polvere, il catrame / gli incarti di pasti già mangiati…// la terra, i balsami, le bende»; «Torno dove termina la strada / dove resta solo il bivio / dove trovo i calcinacci…// un solco, una crepa»; «asfalti e bar bollenti / tavoli di plastica rossi e bianco avorio / con il buco al centro senza ombrello»; «Sotto le rotaie e sotto il fiume / vivono i topi…».

Un esterno sempre squallido e minaccioso, da cui bisogna scappare per salvarsi, ma senza sapere dove trovare scampo, in che modo sfuggire a incendi dolosi distruttivi, ricorrenti come incubi, e a scenari di persecuzione bellica: «mettere in un sacchetto il nostro oro  / se dovesse servirci all’improvviso  / per mangiare, lasciare un posto troppo buio, / salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo / fare uno scambio: un mio anello, un mio ricordo / per una indicazione e acqua fredda in cambio».

Il fatto è che Mariagiorgia e la sua generazione, una guerra non l’hanno mai vissuta («e a noi è mancata una guerra / mondiale, ti ho detto all’improvviso»): le loro catastrofi, le tragedie e i terremoti sono sempre individuali, mai collettivi, e assumono dimensioni squassanti da cui non ci si può, o non ci si sa, difendere («noi siamo quelli che non disturbano mai»). Per questo il j’accuse silenzioso e tanto più doloroso e ricattante verso la generazione matura diventa nei versi pesantissimo, quasi insostenibile: riflettendo però anche un’implorante richiesta di aiuto, come nell’intensa sezione Mio padre era un re, in cui l’autrice supplica regole e indicazioni, un appoggio sicuro, un insegnamento severo e illuminante per riuscire a resistere, per non soccombere di fronte all’indifferenza crudele della vita: «Di metodo ho bisogno per passare, / di metodo, di ordine, così invoco». Il padre tace, i padri tacciono, e Mariagiorgia Ulbar diventa portavoce di una collettività letteraria giovane, spaesata, intimorita ma solidale e affine anche nella scelta dello stile poetico, intimista, mai urlato, più consapevole di memorie che desideroso di futuro: «I cani andavano felici sulle spiagge, / io in ultima carrozza / col futuro alle mie spalle, dove vado / mentre guardo le rotaie del passato / che si allontanano».

 

«Nazione Indiana», 8 luglio 2015

RECENSIONI

VACCA

NICOLA VACCA, COMMEDIA UBRIACA – MARCO SAYA EDITORE, MILANO 2017

Basterebbe forse evidenziare sei termini contenuti negli undici versi della poesia che apre la Commedia ubriaca di Nicola Vacca (amputare, sangue, massacro, dolore, terrore, uccidere) per individuare il leitmotiv dell’intera raccolta. Che è indubbiamente la violenza: quella patita e quella esercitata dall’uomo, dalla storia, dalla natura, da un dio irascibile e oscuro. Violenza ingiustificata e mai giustificabile, ribadita ossessivamente nei sostantivi (guerra, orrore, mattanza, inferno, odio, squartamenti, carneficina, strage, necrosi, macelleria, ferocia, annientamento, crollo, ammazzatoio…), nei verbi (azzannare, annegare, sanguinare…), negli aggettivi (orribile, crudele, straziato, osceno, feroce, sporco, agghiacciante…). Allo scandalo del male il poeta può opporre solo una denuncia indignata, ferita, rabbiosa. Lo fa usando uno stile prosaico, sentenzioso, a tratti declamatorio, che può ricordare il timbro apocalittico dei profeti biblici, nella sua perentoria assertività: «Quello che manca oggi è l’imperativo di uno schianto», «Siamo niente in un paesaggio di rovine», «Ognuno ha la sua terra desolata», «La realtà è un museo dell’orrore».

La sua è una vox clamans che disdegna rime, assonanze e qualsiasi artificio letterario, quasi avvertisse lo scrivere in versi inadeguato, o addirittura immorale («Dopo Auschwitz, nessuna poesia», ammoniva Adorno) rispetto alle atrocità commesse quotidianamente dagli uomini contro i propri simili: «I poeti non sono innocenti / perché sanno che la poesia è un’occasione persa / come la vita che ogni essere spreca / quando uccide ciò che ama». Diffidenza, quindi, anche verso gli stessi strumenti che usa, perché persino le parole mentono, e risultano inefficaci, spuntate: «le parole precipitano in un’ora di buio», «La penna scortica le parole», «Le parole assassine / non temono i pensieri di cemento», «Questo non è più il tempo delle parole», «Non resta altro da fare / che essere becchini delle parole». Di fronte al sangue innocente versato in guerre efferate, alle stragi terroristiche, ai kamikaze che si fanno esplodere (particolarmente sofferto è il ricordo dei recenti attentati parigini), Nicola Vacca reagisce con impetuoso sdegno, schernendo ogni ipotesi utopistica di riscatto, ogni illusione di fraternità o speranza di pace futura. Siamo nati per soffrire e per far soffrire, come già sosteneva pessimisticamente Leopardi: e non è un caso che le citazioni scelte dall’autore ad esergo del libro appartengano a Emil Cioran e Michel Houellebecq, disincantati cantori della fine dell’umanità, della impossibilità di qualsivoglia solidale empatia con il prossimo. “Commedia”, quella che viviamo: finzione “ubriaca”, illusione di contare nella mente degli altri o almeno di un dio, quando invece non serviamo a nulla, se non a danneggiarci a vicenda: «noi siamo già morti».

Come giustamente afferma Alessandro Vergari nella sua colta prefazione al volume, Vacca descrive il degrado antropologico della nostra contemporaneità con «urgenza e inquietudine», con una perpetua «sensazione di accerchiamento e controllo», affidandosi a un’analisi spietata del reale che ci stritola nei suoi impietosi ingranaggi: «Nessuno passa attraverso nessuno / e tutti calpestano il deserto di tutti», perché «siamo spacciati in un ammazzatoio». Se il massacro reciproco è la regola, come insegnava Hobbes, allora è evidente che anche la poesia diventa un inutile passatempo per anime belle, e pertanto va sconfessata, scardinata, derisa nelle sue pretese di intangibile nobiltà.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 15 ottobre 2017